venerdì 30 agosto 2013

Mario Lanfranchi al VOX 40


Articolo tratto da MAT2020...

Il VOX 40 ha avuto uno spettatore di eccezione che ho avuto l’opportunità di conoscere,  Mario Lanfranchi.
L’ho conosciuto sul palco, a fine concerto e, nonostante non sia più giovanissimo, la sua freschezza e il suo entusiasmo erano palesi.
Dopo qualche giorno abbiamo fatto una chiacchierata al telefono, incentrata sul VOX 40, perché non ho avuto il coraggio di proporre quel milione di domande che avevo in testa, e che sono certamente l’oggetto di centinaia di interviste concesse nella vita.
Lanfranchi è andato a ruota libera, soffermandosi occasionalmente sulla sua vita personale.
A seguire propongo l’estratto della nostra telefonata.
Come proporre una biografia dell’uomo? Non basterebbe un libro, per cui la sintetizzo con poche righe trovate in rete (per chi volesse saperne di più le informazioni sul web non mancheranno):

Mario Lanfranchi è stato uno dei più grandi registi d’opera del ‘900. Già in quei primissimi anni ’50 infatti, mentre mamma RAI era ancora una “bambina in fasce”, fu proprio lui a gettare l’idea di produrre l’opera in versione film, e da allora tale filone è diventato un “cult movie” che tutt’oggi viene portato avanti dalla televisione di stato.

Ecco quello che è emerso dalla nostra telefonata, iniziata con una richiesta precisa, il suo giudizio sul VOX 40:

Sono rimasto molto contento. Ho trovato questa mirabile commistione di classico e moderno, di rock e sinfonismo, molto intrigante ed entusiasmante; non sono a conoscenza di esperimenti di questo genere, penso sia una musica nuova, almeno così mi è parsa, e a parte la novità, è proprio il valore in sé, quello musicale, che colpisce, così come l’impatto sul pubblico, che mi è parso entusiasta di questo esperimento.
Nella mia vita ho militato e operato nella musica classica, ma sono cresciuto con una grande passione per il jazz, quando ancora non esisteva il rock; avevo un professore molto particolare di Lettere e Storia dell’Arte, al liceo, Attilio Bertolucci, poeta insigne, padre del mio futuro collega Bernardo Bertolucci, che ci ha instillato l’amore per il jazz; con quelle premesse, il ritrovarmi in America mi ha spinto a conoscere meglio questo nuovo fenomeno che era il rock. Sono sempre stato molto curioso di scoprire novità e questa musica trascinante mi aveva colpito, anche se ero già troppo maturo per realizzare qualcosa di pratico - anche perché ero ormai cementato in altri ambienti -  ma ho subìto una certa fascinazione; non era poi così facile avere accesso ai locali esclusivi di N.Y., dove si suonava jazz, mentre non mi sono trovato impreparato quando il rock è esploso e anzi, mi ci sono immerso.
Sono poi stato attratto, dal punto di vista meramente informativo, filologico, dai più creativi rockers italiani, e Lanzetti mi era parsa una voce singolare, un po’ diversa dagli standard del tempo, non solo come qualità di voce, ma proprio come presenza, un musicista con una sua impronta, una sua personalità, e forse per questo inserito in modo faticoso nelle band.
Oggi potrebbe avere una collocazione più classica, all’interno del mondo delle musica lirica. Prima non avrebbe potuto, perche forse non conosceva la sua voce, ma recentemente ho avuto l’impressione che abbia addirittura sviluppato il suo “strumento”, ed è sorprendente perché è abbastanza maturo, e quindi teoricamente incollato a certi moduli espressivi, anche tecnici, consolidati, e invece lui che è un ricercatore, uno studioso - anche di se stesso - ha tirato fuori questa voce formidabile… certamente sarebbe stato un grande tenore se avesse fatto musica lirica, su questo non ho nessun dubbio, con la possibilità di arrivare ad un repertorio lirico spinto, Verdi, Puccini...
Quando organizzavo spettacoli nella mia villa, assieme abbiamo messo in scena eventi creati da lui, serate che hanno entusiasmato il pubblico. Ho una villa antica che ho restaurato e tutti mi domandavano di poterla visitare e io negavo sempre il permesso, sino a che un giorno ho deciso di aprirla al pubblico una volta all’anno, offrendo dei concerti gratuiti, e tra questi il più penetrante è stato quello di Bernardo, che riempì il palcoscenico con i suoi enormi quadri.. davvero un artista a tutto campo, tant’è che lo coinvolsi in una cosa scritta da me, Processo a  Giulio Cesare, con attori molto bravi, e con lui nel ruolo di Vercingetorige, parte che ricoprì mirabilmente, finendo con una canzone selvaggia, quella di un guerriero sconfitto, ma non internamente… un numero drammatico, non musicale, di elevato livello, per me indimenticabile.
Le contaminazioni musicali viste al VOX40 non le avevo mai notate nel passato… molto ardite, efficaci, e lui ha il merito di avere costruito questo clima, questa temperie culturale e musicale… penso sia una cosa fantastica l’unione di arti differenti; io sono un uomo di cinema, contenitore che di per se stesso riunisce un po’ tutto… arti figurative, immagini, musica,  e quindi io sono intriso di questa filosofia, ma trasformare un concerto rock in un grande spettacolo così variegato è stata una grande invenzione e per me una bellissima esperienza.
La musica è stata la culla che mi ha dondolato. Mio padre era sovraintendente del Teatro Regio di Parma, che era un po’ il tempio della musica lirica e sinfonica, ed io sono cresciuto in questo clima musicale, che ha rappresentato per me un’iniziazione alla vita: i ritmi e le melodie mi hanno accompagnato sin dall’infanzia, tant’è che poi ho amato e sposato soprani, donne belle che però avevano questo strumento che ho chiamato  invisibile, la voce, che mi ha sempre affascinato, e che per me ha rappresentato anche sensualità, carnalità, un modo di vivere.

giovedì 29 agosto 2013

IRON MAIDEN-SEVENTH SON OF SEVENTH SON-1988 di Simone Ricatto


Il giovanissimo Simone Ricatto, appassionato di  musica, inizia a descrivere gli album che più lo appassionano, ed è un vero piacere ospitarlo sul mio blog… largo ai giovani!


 SEVENTH SON OF SEVENTH SON
1988
IRON MAIDEN


Seventh son of a seventh son” esce nell'aprile del 1988 e raggiunge subito la posizione numero uno nel Regno Unito, mentre negli U.S.A. arriva alla dodicesima. Il disco rappresenterà un grande successo per il gruppo vendendo  complessivamente dodici milioni di copie.
Rappresenta a mio modo di vedere  il capolavoro della “vergine di ferro”, perché incarna nelle sue tracce massicce influenze progressive, senza però mai abbandonare le tipiche sonorità della band londinese.
Per la prima volta in carriera il gruppo  decide di utilizzare tastiere e sintetizzatori per incidere un album, e il risultato è semplicemente esplosivo; mi sento di dire  che questo disco è uno dei primi veri esempi di prog metal, genere che verrà poi sviluppato e definito grazie a band come Dream Theater (che nel 1992 partoriranno il magnifico “Images and words”), Queensryche (con il concept “Operation Mindcrime”) e  Fates warning (Perfect Simmetry).
Seventh Son è il primo e unico concept album dei Maiden.
Harris si ispirò all'epoca al romanzo di Orson Scott Card che parla di un bambino fittizio dotato di poteri psichici. L'album tocca tematiche quali la reincarnazione, il misticismo, la psiche e le visioni profetiche.
La copertina è l'ennesimo capolavoro di Derck Riggs; essa raffigura Eddie con la sola parte superiore del corpo raffigurata nell'atto di reggere un feto piangente che rappresenta il settimo figlio, il tutto in un’atmosfera da mondo glaciale, veramente suggestivo, con iceberg modellati a varie forme della mascotte del gruppo.
L'album inizia con un intro di chitarra acustica accompagnato dalla meravigliosa voce di Dickinson e pochi istanti dopo esplode “Moonchild”, la prima traccia, con un accompagnamento di tastiere da brividi. La seconda canzone, “Infinite Dreams”, è a mio giudizio la gemma dell'album: parte lenta e soave fino ad arrivare ad un tripudio di potenza ed esplosività strumentale; il terzo tassello è il vendutissimo singolo “Can I play with madness”; segue al quarto posto la splendida “The Evil That Men Do”: indimenticabile è infatti il travolgente e anche malinconico riff che la apre ed il fantastico ritornello che anche adesso mentre scrivo mi ritorna in mente.
La seconda parte del disco inizia con la title track, il brano più lungo e progressive dell'opera. Con la potente apertura di tastiere il brano è un meraviglioso viaggio tutto da scoprire, con frequenti cambiamenti di tempo; segue “The prophecy”, forse l'unico pezzo dell'album un pò sottotono rispetto agli altri. La numero sette, “The clairvoyant”, è uno dei cavalli di battaglia dei Maiden, con l'incredibile intro di Harris, fino ad arrivare alla velocità epica del brano accompagnata dalla voce aggressiva di Bruce. Chiude “Only The Good Die Young”, una tipica cavalcata maideniana che si chiude con l'intro iniziale quasi a dire che alla fine di un lungo viaggio c'è sempre la strada del ritorno da intraprendere.

Ascoltiamo l’album intero:

mercoledì 28 agosto 2013

Da Finardi a Zibba... l'agosto musicale di Noli



Nel momento di maggior densità demografica dell’intero anno, il Comune di Noli - uno splendido paese sulla costa ligure, in provincia di Savona - regala ai villeggianti un paio di eventi musicali di alta qualità.
Prosegue la collaborazione con MusicArTeam, che nell’occasione conduce a due concerti  - gratuiti - di prestigio, quelli di Eugenio Finardi e di Zibba & Alma Libre
E’ il 13 agosto il giorno scelto per portare on stage “Parole e Musica”, ovvero la versione acustica del nuovo progetto di Finardi, che racconta la sua vita utilizzando le canzoni, come ovvio che sia, ma cercando differenti bridges tra un brano e l’altro,  descrivendo gli episodi significativi di una lunga carriera, tra “professione” e vita privata.
Eugenio è un maestro, di suoni e di racconti, e la combinazione inventata - probabile proseguimento di quanto accadeva lo scorso anno in occasione della presentazione del suo book - riesce ad evidenziare in modo impeccabile le sue caratteristiche migliori.
Al suo fianco il pianista Paolo Gambino e il giovane chitarrista Giovanni Maggiore (Giuva Zza), co-artefici del risultato della serata.
Piazza Chiappella è il fulcro delle attività concertistiche, e presenta una sorta di anfiteatro che permette di unire ai numericamente considerevoli posti a sedere in muratura un cospicuo set di sedie, che mai come in questa occasione sono state oggetto di civile contesa, vista l’affluenza incredibile di pubblico.
Si sa, Finardi attira un pubblico trasversale, perché come lui dice esiste una sua canzone per ogni situazione possibile, ma solo quando scendiamo dall’ auto il sogno di qualcuno diventa realtà, e una simpatica signora, riconoscendolo, chiosa: “… ma alllora c’è lui in persona! Pensavo ci fosse una cover band che riproponeva la sua musica!”.
Soundcheck rapido e occasione per il giovane fonico Mirco Piludu di affrontare l’impegno più arduo della sua breve carriera, ma terrà testa alla professionalità di Finardi e a fine concerto arriveranno le gratificazioni opportune.
Due ore di musica per raccontarsi, riproponendo alcuni dei brani più significativi - Non è nel cuore, Patrizia, E se Dio fosse uno di noi, Diesel (dedicato al factotum Andrea Pintaldi), Le ragazze di Osaka, Oggi ho imparato a volare, Un uomo…  - dando ulteriore prova della innata capacità di entrare in sintonia con l’audience.
Il sunto del suo stare sul palco, nel 2013, potrebbe risiedere nella sua frase iniziale che più o meno suona così: “ Quando ero un giovane arrogante pensavo che il pubblico dovesse ringraziarmi per le mie performance…. ora che sono “antico” - e quindi saggio - giudico un vero privilegio il poter suonare per chi decide di dedicare ore della propria vita all’ascolto della mia proposta”.
Finisce in un tripudio, con un lungo bis a cui segue un bagno di folla a cui Eugenio non si sottrae perché il "successo" - quel participio passato di qui lui parla dal palco - conduce al contatto diretto con chi aspetta con ansia la fotografia o la firma sul CD, azioni da cui lui non si sottrae, anzi, caldeggia.
Bravissimi gli altri musicisti sul palco, Gambino e Giuva Zza, ma è risaputo che il coinvolgimento dei giovani di talento è sempre stata una missione, seppur con numerose delusioni, di Eugenio Finardi.
Tutti soddisfatti alla fine, spettacolo indimenticabile.


Dopo quattro giorni cambiano I protagonisti - ma non la location - e Zibba arriva a Noli in nutrita compagnia.
Nelle pianificazioni iniziali era previsto il trio, con Stefano Ronchi alla chitarra e Stefano Cecchi al basso, ma una modifica degli ultimi giorni aveva visto l’ulteriore coinvolgimento  di Stefano Riggi ai fiati e del prestigioso percussionista Caldero; sfortunatamente un problema familiare ha allontanato Ronchi dal palco dopo il soundcheck e il gruppo è stato costretto a ridistribuire i compiti, problema rilevante per la band, non certo per il pubblico, ignaro degli accadimenti tecnico-umani.
I concerti di Zibba sono sempre una sorpresa, col superamento dell’immagine tradizionale del cantautore, consolidata dalla qualità della musica, che non è la mera cornice ai testi e alla poesia,  ma elemento trascinante, e non potrebbe essere diversamente vista la qualità dei musicisti di cui si circonda.
Lui parla, intrattiene, suona, canta, guida, contesta - in molti hanno gradito il suo … stupore da prezzi di un locale vicino! - e interagisce con la folla che apprezza incondizionatamente.
Un altro successo,  e alto coinvolgimento, non solo del pubblico giovane che da sempre lo segue, ma anche di chi ha trovato in Piazza Cappella la sosta obbligata e casuale di questo 17 agosto, un giorno in cui è nata l’occasione per scoprire le doti di un giovane cantautore ormai affermato, musicista, compositore e buon comunicatore.
Anche per lui alla fine bagno di anime e gratificazioni ulteriori che arrivano da chi si è presentato alla firma di rito con in mano un vinile.
Anche per Zibba & Almalibre un filmato di ricordo.


martedì 27 agosto 2013

Furious Georgie - You Know It, di Gianni Sapia


Non può esistere un solo modo di fare. Nel senso che ne dovrebbero esistere di più, almeno tre o quattro. Sarebbe presunzione e sopravvalutazione pensare di avere un solo modo di fare nell’attuale mondo, fatto di globalità e interazione. Chi dice di averne solo uno mente, forse non sapendo di mentire, legato a ricordi di univocità che non gli appartengono. La consapevolezza della necessità della contaminazione, nella sua accezione più nobile, è l’unica salvezza della nostra integrità. Chi oggi non si discosta dal suo modo di fare, chi oggi vive secondo il dogma “io sono fatto così e se non ti va bene fottiti!” ha perso, ha perso la sua integrità nelle paludi dell’egocentrismo e dell’intolleranza. Le informazioni che quotidianamente investono i nostri sensi non permettono più un modo di pensare così statico, così restauratore. L’umanità cambia col tempo e si adegua. L’umanità è come l’acqua, senza forma o con mille forme, dipende dal contenitore e chi non si adatta ha perso. La contaminazione è l’ultimo contenitore. La musica, come sempre, è più intelligente dell’uomo e questo lo ha capito da tempo. Se poi la musica è fatta in Sicilia, terra che ha sublimato la contaminazione facendone arte, allora quello che ne viene fuori non può non essere avvelenato d’avvenenza. Da George Harrison a Syd Barret, dai Jethro Tull a Neil Young, Furious Georgie, alias Giorgio Trombino, palermitano, non si fa mancare niente nel suo progetto solista You Know It e lascia che i grandi gli indichino la strada, si lascia contagiare e trova nella contaminazione la sua integrità. Blues, rock, post-rock, psichedelia si fondono in un disco trasognante che regala a chi ascolta l’emozione di un film fantastico, tipo guardare La Storia Infinita da piccoli, o di un film “ambulante”, tipo guardare Marrakech Express a vent’anni. 


Si comincia con Giggrind, dove il blues ha il sopravvento guidato da una spasmodica armonica, per passare alla spirituale Screaming Parrot Blue, scarpetta nel sugo Harrisoniano. Ingredienti diversi che si mescolano, che si amalgamano. Con Day Of The Dead si torna da dove si era cominciato, sulle rive del placido e maestoso Mississippi. È un blues sanguinolento che disegna torride e sconfinate praterie nella mente o battelli sospinti dalla ruota a pale, che languidi scorrono sulle acque del Grande Fiume. Con Lost And Found cambia la direzione del vento, che ora soffia in direzione ballata classica da cavaliere solitario. Nostalgia da masticare, groppo in gola da ingoiare, ricordi da dimenticare. Ancora l’impastatrice di generi, che non smette di girare. Chitarre piroettanti caratterizzano Ignorance (Avidyā), che fa tornare sulla superficie della memoria ricordi di Benefit, di Jethro Tull. Quando arriva la Nebulosa Occhi Di Gatto, ovvero NGC 6543, unico brano in italiano, un eco di prog vibra nell’aria e la musica mi trascina tra stelle e pianeti, volo chimerico tra spazi siderali. Il cavaliere solitario riprende a cavalcare con Years Gone By. Il cappello dalla larga tesa calcato sulla fronte, gli occhi due fessure, il sigaro al lato della bocca e alle sue spalle quello che è stato, confuso nella polvere. La sognante Watch The Drift As It Goes è un tuffo nel lago fatato del bosco incantato. Una favola da raccontare per accompagnarci nel mondo dei sogni. La pozione magica continua a ribollire nel calderone e Furious “Panoramix” Georgie mescola con sapiente pazienza tutti gli ingredienti. George Harrison prende ancora sottobraccio l’artista palermitano e gli racconta la sua musica e quel racconto diventa She Likes, brano strumentale dell’album. Proprio per non farsi mancare niente Georgie aggiunge un pizzico di rag time al tutto, per rendere ancora più saporito il piatto e tira fuori dal cilindro Kiwi Roll, brano divertente, che trasmette buon umore. Poi c’è Armed Peace, forse il pezzo più complesso dell’album, che parte come una ballata zeppeliniana, poi spagnoleggia un po’, fa una capatina verso i Beatles e chiude al sapore di Ziggy Stardust. La summa della meraviglia della contaminazione. Siamo al capolinea e Young Lard è perfetta per il commiato. In alcuni tratti sembra una meravigliosa ballata dei Pink Floyd, nella sua ripetitiva dolcezza, nel suo sovrapporsi di voci, con dei tratteggi di chitarra che però la caratterizzano, conferendogli quella personalità propria, presente in tutto l’album. Bagno nel brodo primordiale della musica quindi. Ci sono tante cose in You Know It di Furious Georgie, che non vuol dire che sia il plagio di qualcosa, ma piuttosto la geniale semplicità di tirare fuori dalla propria testa, dalla propria fantasia, le esperienze della vita vissuta, della musica ascoltata e farle proprie, marchiarle a fuoco con la propria personalità. Furious Georgie non ha un solo modo di fare, ne ha almeno tre o quattro ed è questo che lo rende bello, che lo rende speciale. È questo che lo rende unico.



Tracklist:

1.      Giggrind
2.      Screaming Parrot Blue
3.      Day of the Dead
4.      Lost and Found
5.      Ignorance (Avidyā)
6.      NGC 6543
7.      Years Gone by
8.      Watch the Drift as It Goes
9.      She Likes
10. Kiwi Roll
11. Armed Peace
12. Young Lard

Crediti:

Registrato da Spadino, missato e masterizzato da Spadino e Furious Georgie presso il Tone Deaf Studio tra marzo e maggio 2012.

Furious Georgie: chitarra acustica a 6 e 12 corde, chitarra elettrica, sitar, armonica, percussioni, synth (programmati/suonati in NGC 6543), mandolino, lap steel.


domenica 18 agosto 2013

Concerto di Jennifer Batten alla Stazione Birra, Roma


Gianni Leone mi ha inviato questo interessante reportage...


Claudio Simonetti ed io siamo stati invitati alla Stazione Birra al concerto di Jennifer Batten, l'ex chitarrista di Michael Jackson. Si è presentata da sola: chitarra elettrica, pedali e basi registrate, la qual cosa poteva far pensare che di lì a poco avremmo assistito a una deludente e poco avvincente esibizione, e invece...!!! Non vorrei qui aprire una polemicuccia del cacchius sugli stereotipi dei ruoli uomo-donna, ma una musicista rock donna che riesca a tener testa ai suoi colleghi maschi più celebrati è una rarità e quindi ha un valore aggiunto che la rende ancor più preziosa. Sul perché non vengano, o finora non siano venuti fuori dei Jimi Hendrix, Frank Zappa, John Bonham, Keith Emerson al femminile  non approfondisco. Nei cosiddetti secoli bui della storia umana alle donne era semplicemente PROIBITO l'accesso a territori di dominio maschile, anche quelli artistici. No, la donna doveva solo fare la serva dell'uomo e produrre figli a scodellate, a bidonate, a vagonate e guai a ribellarsi sennò giù botte. E' scoraggiante, offensivo e vergognoso per l'intero genere umano pensare che ancora oggi nel mondo esistano lerci luoghi geografici di NON-cultura e NON-civiltà in cui la donna viene NORMALMENTE considerata e trattata come lo era in quei secoli bui o, se possibile, ancor peggio, ma questo è un altro argomento. Ecco la ragione principale per cui non abbiamo avuto un Caravaggio, un Palladio, un Mirone donna. Per una Tamara de Lempicka, migliaia e migliaia di pittori maschi, moltissimi dei quali certamente meno talentuosi di lei. Apro una parentesi e pongo un inquietante quesito: ma siamo proprio sicuri che questi ultimi secoli fino ad oggi siano stati, tutto sommato, più..."luminosi" per l'intera umanità, rispetto al passato?... Sorvoliamo sulla possibile risposta. Per quanto riguarda il rock, il discorso però cambia. Oramai, dopo oltre un cinquantina di anni dalla sua nascita, non si può certo dire che alle donne sia stato inibito o proibito alcunché. L'aspetto strano, inspiegabile, che mi ha sempre incuriosito, è come mai le donne riescano a raggiungere picchi vertiginosi di grinta, "cattiveria" ed energia solo nell'ambito del canto (vedi Patti Smith, Janis Joplin, Tina Turner), o interpretando personaggi aggressivi e trucidi (vedi Grace Jones, Diamanda Galàs, Lydia Lunch e svariate "eroine" del punk), mentre, sedute alla batteria o con una chitarra elettrica in mano, risultino (quasi) sempre un po' troppo delicatucce, imbranate, fatte salve alcune eccezioni (Sheila E. per quanto riguarda la batteria, per esempio) che si contano sulle dita di una mano. Mera questione muscolare? Non direi: ci sono anche donne-Rambo e uomini-mammoletta se è per questo. E allora? Non so spiegarmelo ma è così. Stop.


 Ma torniamo alla Batten. Non mi sorprende sapere dei suoi progetti artistici con Jeff Beck, uno dei chitarristi più graffianti e importanti nella storia della chitarra elettrica, un autentico caposcuola, tuttora in splendida forma (a differenza di tanti altri suoi colleghi dello stesso periodo, ridotti a tragiche caricature di se stessi, con le dita anchilosate e l'aspetto da Mastro Geppetto). Chiaramente ha dedicato una parte del concerto a Michael Jackson, eseguendo alcuni suoi brani. E l'arcinoto assolo di "Beat it" -sul disco originale suonato da Eddie Van Halen? La Batten dal vivo lo esegue, se possibile, ancor meglio e con maggior grinta. Incredibile!... Per tutta la durata del concerto dietro di lei scorrevano immagini su immagini, anche diversissime fra loro. Claudio ed io a un certo punto abbiamo notato, con immenso stupore, che in un decrepito e sfocato filmato in bianco e nero un non identificato cantante di colore eseguiva perfettamente il leggendario MOONWALK!!!!!... Com'era possibile? Ma questo passo di danza non l'ha inventato Michael Jackson? A fine esibizione, purtroppo (per chi non c'era) avvenuta di fronte a un pubblico non molto numeroso, ci siamo fiondati dalla Batten per chiederle delucidazioni e anche per complimentarci. Lei ci ha raccontato aneddoti vari ma, soprattutto, ci ha rivelato che il filmato che ci aveva tanto colpito era stato girato al leggendario Apollo Theatre di Harlem forse negli Anni '40 o giù di lì. E chi mai sarà stato quell'omino che, forse per primo al mondo, eseguiva il celeberrimo passo del moonwalk? Non è dato sapere. Forse un anonimo quanto geniale cantante di una delle tantissime orchestre che in quegli anni si alternavano sul quel magico palco. In realtà, dopo un po' di ricerche in rete, Claudio ed io abbiamo appurato che l'invenzione di questo passo di danza viene attribuita a Bill Bailey nel 1955 (andate all'indirizzo riportato in basso ed ai numerosi video correlati). 


Sarà... Però il filmato che abbiamo visto al concerto sembrava essere molto più vecchio... Vuoi vedere che anche Bailey  non si è inventato un bel niente? Ma si sa, nell'arte è sempre così: tutto è stato già fatto, già sperimentato, già osato da qualcun altro prima di te, magari rimasto anonimo e sconosciuto. Spesso la creazione artistica altro non è che la reinterpretazione o il "riassemblaggio" di elementi che esistono già. Senza nulla togliere all'immenso talento di Michael Jackson, of course!

sabato 10 agosto 2013

Tanti auguri Ian Anderson




L'amico Wazza Kanazza ci ricorda un'importantissima ricorrenza e mi scrive:

Ha appena compiuto 66 anni ...
Mad Dog Fagin, pifferaio magico, menestrello, flautista pellicano, dittatore invecchiato, Robin Hood, folletto, carismatico, trampoliere, funambolo del rock, istrionico, egocentrico, padre padrone, arrogante, pazzo, Jjrassico, geniale... in un solo nome IAN ANDERSON, nato il 10 agosto 1947.
Leader e fondatore dei Jethro Tull, volente o nolente uno dei più importanti musicisti del xx secolo,
colonna sonora della mia vita; peccato che a tanto genio fa da controaltare un carattere poco socievole.
Vi propongo un piccolo articolo di Enzo Caffarelli inserito su un Ciao 2001 del 1972 , durante la seconda tourneè italiana (cosa che su Internert non trovate).
Ero curioso di conoscere Ian Anderson come uomo, al di la delle sue qualità artistiche. Ero curioso di sapere cosa significasse la musica per lui. Non ci sono riuscito, ma implicitamente parecchie cose sono venute fuori.
Sono stato con lui tutto il pomeriggio prima della manifestazione, e non gli ho cavato di bocca nulla se non una seria minaccia di prendermi a pugni, come già era successo con risultati più tangibili con l'amico Carlo Basile di "Per voi giovani". E solo perchè avevo tentato di registrare, con il più modesto dei mangianastri, la lacca del nuovo LP "Thick as a Brick", che sua maestà Anderson mi aveva concesso di ascoltare negli uffici della casa discografica.
Anderson è rimasto all'epoca dei grandi divi, intoccabili ed innavicinabili. Per i suoi concerti italiani, aveva programmaticamente imposto nel contratto un palco di quasi un centinaio di metri quadri, un piano lungo due metri e settanta, e aveva ottenuto che i Gentle Giant suonassereo per non più di quaranta minuti (un vero peccato !) e non concedessero bis. Sempre per contratto i suoi compagni di gruppo non possono lasciare alcuna dichiarazione. E non mi meraviglierebbe affatto se i poliziotti con gli avambracci corazzati, i gas lacrimogeni ed i maganelli(niente di tutto questo è stato minimamente utilizzato, perchè il comportamento del pubblico, come dicevo prima, è stato esemplare) li avesse chiesti proprio lui.
Negli studi di registrazione di "Per voi giovani", durante la trasmissione in diretta ha cacciato dagli studi quasi tutti, perchè in mezzo ad una quindicina di persone, temeva di essere scambiato per uno dei tanti, per "uno di noi". E' non ha risparmiato, e con lui il manager Ellis, l'unica persona che Anderson tema e rispetti, non ha risparmiato dicevo giudizi negativi sulla trasmissione, che i presentatori hanno aggiustato alla meno peggio nel corso della traduzione. Nell'auto che ci ha portato dal Parco dei Principi, ove il gruppo si era stabilito, al Palasport, eravamo in cinque abbastanza stretti: chissaà come sarà rimasta soffocata la personalità di Ian! Appena ha potuto è fuggito senza degnare nessuno di uno sguardo... un prodigio come musicista, una delusione come uomo.

Pensate che a 65 anni si sia ammorbidito??? Mmmmmmm... chiedetelo al Presidente (Aldo Tagliaferro)".
Comunque cento di questi giorni, e che Dio ti benedica "vecchio" IAN
WK


martedì 6 agosto 2013

Altare Thotemico-Sogno Errando, di Gianni Sapia


Articolo tratto da MAT2020.

Non sono capace. Non sono in grado. Una delle cose che più apprezzo in una persona è quando sa riconoscere i propri limiti, quindi il primo a saperlo fare devo essere proprio io. E questo è uno di quei casi. Non ho le conoscenze, le competenze, un adeguato background. Sono sempre stato un feroce divoratore di hard rock, fedele alla Sacra Trinità chitarra-basso-batteria. Il mio corpo negli anni è stato attraversato mille volte dall’elettroshock delle chitarre di Page, Hendrix, Townshend e simili induttori di convulsioni e ora questo. Come si fa, come diavolo si fa! Calma. Ragioniamo. Intanto potrei iniziare con l’ascoltare. Allora ascolto. Il brano è D’Amore e Altri Tormenti ed è scarpetta nel sugo del jazz. Inizia con discrezione la batteria di Max Govoni, già collaboratore, tra gli altri, dell’orchestra ritmico-sinfonica diretta da Ennio Morricone, a cui si vanno presto ad aggiungere il sax di Emiliano Vernizzi, che si porta dietro un lungo elenco di importanti collaborazioni (Bobby Durham, Paul Jeffrey, Gianni Cazzola, Steve Grossman, Franco e Stefano Cerri ed altri) e il piano del talentuoso Leonardo Caligiuri sul letto di basso di Valerio Venturi, che preparano il terreno alla semina vocale di Gianni Venturi. Manca solo il violino di Gabriele Toscani, che calcherà il proscenio più avanti e poi ci sono tutti. Loro sono gli Altare Thotemico, gruppo della prolifica Emilia, che dopo quattro anni dal omonimo album d’esordio, con cui conquistano buona fama nel mondo del progressive italiano, ci raccontano in musica la proiezione onirica di Sogno Errando, dove il pur ampio abito progressive diventa stretto e viene ricucito con… con… con un sacco di cose! Jazz, fusion, psichedelica, RIO, ma nessun nome, nessun genere rende giustizia ad un opera che sembra avere più diramazioni di un apparato circolatorio. Lo stesso vocalist Gianni Venturi ha dichiarato in un intervista di qualche tempo fa:
«Noi siamo quel che siamo, diversi da ieri e da domani, nessun disco ci rappresenterà mai veramente, perché nel momento che l’avremo finito saremo già cambiati! […]Una volta non c’erano tante distinzioni, sono nate oggi, una volta si suonava, non credo che i Genesis si chiedessero: ‘Chi siamo?’ E sopratutto non credo si chiedessero: ‘Che cosa stiamo suonando?’» e quindi ancora i miei dubbi sulle mie capacità e competenze si ripresentano come peperonata nella notte. Calma. Ascolto ancora. La trama iniziale di Le Correnti Sotterranee è intensa, fitta, hitchcockiana, ma diviene poi mutevole, ingannevole. Come un camaleonte, cambia colore della pelle in base all’atmosfera di fondo, dettata ora dalla voce, ora dal sax, ora dal piano, per abbandonarsi poi a digressioni ritmiche e sinfoniche proprie, qui sì, del progressive. È come attraversare un bosco fitto dove il sole fatica a farsi vedere, ma è solo uno dei panorami che si incontrano nel cammino, perché nel bagliore di un attimo i vocalizzi di Gianni Venturi e il violino di Gabriele Toscani ci teletrasportano in un mercato arabo, inebriati di odori di spezie orientali e sedotti da cobra sinuosi che fanno capolino dalle loro ceste, ammaliati dai movimenti dell’incantatore. E poi arrivo al terzo brano, Petali Sognanti e i miei limiti diventano quasi bastoncini fosforescenti nella notte. Piantala lì, non sei in grado, mi vien voglia di dire. Ma ascolto ancora, sono testardo, ho sangue calabrese nelle vene. È un brano visionario, un’ allucinazione lisergica alla Burroughs, dove il paranoico martellare delle percussioni accompagna distorsioni sonore e vocalizzi che si dispiegano in un testo surreale, fatto di frasi sconnesse senza un senso apparente, elementi che non lasciano scampo sullo stato allucinato che i Thotemici stregoni d’Emilia trasmettono in questo pezzo. Sono a metà album e inizio ad avere una nuova consapevolezza. Magari non come Paolo sulla via di Damasco, ma l’ansia da prestazione dettata dai miei limiti sta lentamente lasciando spazio ad un nuovo impasto viscerale. Sto imparando. Più vado avanti nell’ascolto e più mi rendo conto che le visioni sonore di Sogno Errando fertilizzano conoscenze a cui credevo di non poter ambire. Ormai non ascolto più, ci sono dentro. I sedici minuti e quarantasei secondi di Broken Heart non fanno altro che confermare l’impermeabilità della bolla sonora in cui sono caduto. Lo schema fatto di non-schema che si incontra in tutto l’album, qui raggiunge la sua sublimazione e nella parte cantata le sperimentazioni linguistiche e vocali di Gianni Venturi sembrano un phon puntato sull’appannato specchio della routine canora e la voce torna a riflettere l’anima. Gli strumenti danno nervose pennellate al quadro d’insieme accendendo acide luci di psichedelica e di chissà che altro. Forse a sproposito, ma non posso fare a meno di pensare ai vecchi film in bianco e nero che Andy Warhol girava con la sua cinepresa Bolex. Geniale e acida sperimentazione in entrambi i casi. Vado avanti, ora con meno paura, mi sembra di iniziare a capire. Arrivo a Porpora e l’inizio di piano da fumoso bar mi riporta alla Berlin di Lou Reed. Ma il cielo sopra l’Emilia di Altare Thotemico riprende subito il suo carattere di fusione e sperimentazione di voce e suoni, che sembra tagliarti il fiato e che sul finale si concede un’apparente normalizzazione armonica grazie alla sviolinata di Gabriele Toscani. Violino che segue l’apertura vocale della title track, penultimo pezzo dell’album. Siamo verso la fine, ma i ragazzi non danno segno di cedimento, un po’ come quando hai quella sensazione che se andiamo ai supplementari vinciamo noi. Ormai hanno rotto il fiato. Rimbalzano senza sosta dall’acidità del sax alla melodia del piano, dalle sottolineature vocali e ritmiche alla fluidità del violino. Ma i legacci della camicia di forza del buonsenso musicale vengono definitivamente strappati con l’ultimo brano, Neuro Psycho Killer. Sulle orme di Petali Sognanti, anche qui i ragazzi sembrano essere caduti da piccoli nel pentolone dell’acido lisergico, salvo poi indirizzare il tutto verso una melodia coinvolgente, che accompagna chi ascolta sul sentiero di una tecnica musicale sopraffina e ricca di estro. Chiudo ringraziando gli Altare Thotemico. All’inizio avevo paura di non essere in grado di affrontare un album concettuale come Sogno Errando, ma loro, con la pazienza di un vecchio professore, con la loro tecnica, con la loro voglia di esplorare, mi hanno insegnato che nella musica, come nella vita, non bisogna vivere di certezze, perché la musica non è, la musica diviene.

lunedì 5 agosto 2013

Serata live a Savona, di Gianni Sapia


È come camminare nel passato. La strada è fatta di grosse lastre di pietra che le danno un assetto irregolare. Devi averci già camminato e più di una volta, per poterlo fare senza inciampare. Io ho iniziato a camminarci da piccolo, sono avvantaggiato. Le facciate dei palazzi che ne determinano l’andamento, in alcuni punti sono così vicine che sembra sia sufficiente allargare le braccia per poterle toccare entrambe e le finestre sono a portata di bisbiglio, così vicine che le notizie un tempo correvano saltando da una finestra all’altra e attraversavano filtri domestici da cui uscivano con un particolare in più e cosi arricchite erano pronte per saltare nell’altra finestra, dove crescevano ancora un po’ e poi ancora e ancora, finché una “buga” diventava un orata, un acquazzone una tempesta, una tegola caduta un terremoto e aver visto un cantante famoso di sfuggita, magari di spalle, poteva far di te uno dei suoi migliori amici. Ora si comunica in maniera differente e la gente è diventata più diffidente, forse con ragione, non lo so. Ciò che resta è che ci relazioniamo meno di persona e preferiamo sotterrarci sotto sms e messaggi sui social network impregnati di puntini di sospensione, anche per un semplice saluto, cose tipo “……. ciao ……… come va …… tutto bene ……..” solo puntini, niente virgole, punti di domanda o esclamativi, solo puntini, puntini e più ne mettiamo più il messaggio ci compiace, come se abbondare di puntini aumentasse il valore di quello che volevamo dire, mentre è il chiaro sintomo della vacuità della nostra espressività. Tre. Puntini ce ne vanno tre! Né due né quattro, tre! E si chiamano di sospensione perché… ma sto divagando. Mi guardo attorno. Sono ancora qui, tra i vicoli della mia città, tra i caruggi di Savona. Via Pia corre parallela al mare e da Via Paleocapa ti porta verso la torre del Brandale, che ancora si allunga impertinente verso il cielo a ricordo dei fasti del passato. Tallonato da odori di panissa e farinata, quando sono all’altezza della vecchia Questura, un suono mi viene incontro zigzagando tra la gente e arriva fino alle mie orecchie. È un ritmo lento ma non troppo, ondeggiante, avvolgente, ma… ma è… ma è reggae certo! Ma la canzone… la canzone è Money! Money dei Pink Floyd versione reggae! Questa non me la perdo. Allungo il passo. La musica si fa più forte e nitida man mano che mi avvicino e conferma la mia prima sensazione: è proprio Money! Versione reggae! Affronto la lieve discesa dell’ultimo tratto di strada e sbuco in piazza del Brandale dove, protetti dalla mole della torre, otto coraggiosi musicisti stanno facendo di un classico una primizia. Il pubblico è contento. C’è chi tiene il tempo battendo semplicemente un piede, chi addirittura muove tutta la gamba e chi si lancia in un ballo svolazzante sulle note del sax, dentro il quale il sassofonista soffia la sua passione, gonfiando e sgonfiando le guance e trasformandola in note che ti si attaccano addosso, come il sale dell’acqua di mare. Il resto della band non è da meno, ognuno regge la sua parte e l’incastro di note che ne viene fuori riempie l’aria di allegria. Ben fatto, penso sull’ultima nota, mentre il pubblico applaude la sua felicità. Resto lì e mi godo il concerto fino alla fine. La cosa che più colpisce, oltre la musica, è l’allegria. Il clima è amichevole e familiare, ci sono bambini ed adulti che ballano insieme, nessuna faccia triste, nessun mugugno. L’umore segue l’allegria della musica, che fa da carburante al motore dell’immaginazione e la mente inizia il suo viaggio. Ne resto coinvolto anch’io e rimango attonito a contemplare lo scenografico contorno. Le torri davanti a me, a sinistra il Priamar, dietro il porto e il rimpianto per quello che poteva essere Savona e che non è, fa la sua solita visita alla mia utopia. Ma la musica reclama la mia attenzione. Rimetto sguardo e mente sui giusti binari e noto un cambiamento: il trombettista è diventato un bambino! Il figlio certo, è il figlio del trombettista originale, che dimostra già, avrà sì e no quattro anni, una buona vena. Il clima è proprio quello, da festa in famiglia, e il “reggae’n’ska” che viene fuori dagli amplificatori lo pretende. È musica che sorride. Si passa da Dick Tracy di Don Drummond a Funcky Kingston dei Toots and the Maytal, da Fite’m Back di Lynton Kwesi Jhonson a Exodus di Bob Marley, fino ad arrivare appunto alla Money che ha catturato la mia attenzione, il tutto fatto con la leggerezza con cui, chi ama questa musica, tenta di vivere la vita, malgrado la vita. La musica è finita, ma gli amici non se ne vanno, la festa continua tra birra, vino e il sarcasmo migliore che ci sia, quello da osteria. Mi avvicino al sassofonista, che ora non ha più tra le mani il suo strumento, ma regge tra le braccia quella che, probabilmente, è l’unica cosa che ama più del suo “ferro”: suo figlio. Lo bacia e lo lascia andare e si concede una copiosa “golata” di birra che butta giù con gusto. Mi presento e lui fa altrettanto, si chiama Danilo Zanini, detto “sex machine”, un soprannome jamesbrowniano che è tutto un programma, suona il sax, dà una mano nei cori e ha la erre moscia. Poi, rispondendo alla mia curiosità, mi presenta gli altri, cercandoli con lo sguardo tra la festa che continua intorno a noi: Saverio Schinca (basso), Flavio “Master Flà” Isopo (chitarra e voce), Francesco Patrone (chitarra solista), Fulvio Giglio (voce solista e percussioni), Filippo “Pippo” Lagasio detto “il Prof” (tastiere), Luca “Lucky Bonarda” Scagliola (tromba e cori), Giancarlo “Gianca” Gilardi (batteria), coadiuvati dalla guest Mauro “Manetta” Manara (percussioni) e loro sono i The Blue Young Monkeys.


Chiacchieriamo per qualche minuto e quello che viene fuori sono soprattutto due cose. Una è che sono dei romantici. Nell’epoca del ghiacciato digitale, loro hanno registrato un 45 giri, con la copertina bianca col buco in mezzo, come una volta. E lo hanno fatto in Giamaica. Romantici appunto. L’altra sta racchiusa tutta nella frase con cui Danilo ed io ci congediamo. Rispondendo alla mia affermazione:« Siete proprio bravi, davvero!», lui mi guarda, beve un altro po’ di birra, inarca uno scettico sopracciglio e:« Non lo so, però ci divertiamo, si divertono tutti» dice e le erre che arrotola su divertiamo e divertono danno ancor più valore a quel modo di essere. Ci salutiamo, ma il miracolo di aver unito allegria e malinconia mi trascina per il bavero e non mi lascia andare a casa. Naturalmente incontro un mio amico, a Savona ci conosciamo un po’ tutti, che mi chiede se ho voglia di andare con lui ad Albissola a bere qualcosa, “offro io!”, aggiunge. Primo, non ho voglia di andare a casa, secondo, non mi ricordo di aver mai rifiutato da bere gratis. Accetto. Montiamo sulla sua Kawasaki e ci buttiamo sull’Aurelia e quando passiamo sotto la Torre Leon Pancaldo, la “Torretta”, so dove sono, come sempre. Quando torno da un viaggio, mi rendo conto di essere a casa solo quando vedo la Torretta, perché la Torretta è Savona. Scendiamo dalla moto e attraversiamo la piazzetta più artistica del paese degli artisti: piazza Concordia. Quando stiamo per affrontare le scalette che ci porteranno ancora tra altri caruggi, la musica mi sbatte di nuovo in faccia. Questa volta il ritmo è suadente ed affascinante, come la voce che la incarna. È musica nera, è Motown, è Chain of Fools in una versione ammaliante e accattivante, che mi fa suo in un nanosecondo. Non c’è bisogno di parlare per essere d’accordo sull’andare a vedere a chi appartiene quella voce così seducente, tra me e il mio amico basta uno sguardo e quando siamo di fronte a lei, avremmo bisogno di puntellarci le mascelle. 


Chantal non è solo bella, non ha solo una bella voce, lei ha classe, lei è espressiva, ipnotica, incatenante, armoniosa, coinvolgente, suggestiva e quasi quasi apro il dizionario dei sinonimi e ce li metto tutti gli aggettivi che indicano la meraviglia che scatena in me. È padrona del palcoscenico, come se glielo avessero costruito intorno. Sono Chantal & The Chain Gang e resterei a guardarli e sentirli per sempre. Il soul rivive attraverso la voce di Chantal Saroldi e gli strumenti di Nicola Arecco (batteria), Davide ”Puccio” Canepa (chitarra), Davide Medicina (basso) e Tommaso Delfino (tastiera) che passano da Sam Cooke a Stevie Wonder, da Bill Withers a Marvin Gaye con l’incoscienza dei fuoriclasse. Quando attaccano Ain’t Too Proud To Beg quasi mi commuovo e mi sembra di essere in The Big Chill di Lawrence Kasdan e quando le note di Rehab luccicano nell’aria, lo spirito di Amy Winehouse è certamente presente tra il pubblico, perché un’interpretazione così di sicuro non se la vuole perdere. Mi è andata bene. Sì, quella sera è stata proprio una gran sera. Non ho solo riscoperto il fascino della mia città, ma ho scoperto anche che in lei batte il cuore di musicisti veri, non di gente da karaoke, fatti di carne, passione ed allegria, ammalianti e viscerali come i sentimenti scaturiti da un bel ricordo, che hanno scelto di fare un tipo di musica di non facile ascolto per tutti, mettendo la loro tecnica e il loro estro al servizio di un pubblico di appassionati. Appassionati di musica, come loro e per questo vanno trattati con cortesia e riverenza. Après vous The Blue Young Monkeys et Chantal & The Chain Gang, merci et au revoir.


















venerdì 2 agosto 2013

Ellepi-Lepiota Procera, il libro di Gianni Sapia




Poco più di un anno fa ha visto la luce il libro Ellepi-Lepiota Procera, di Gianni Sapia.
Conoscevo Gianni, superficialmente, da molto tempo, ma non avevo idea di come funzionasse il suo abbinamento tra idea e successiva trasposizione sulla carta. E non sapevo fosse appassionato di musica.
In qualche modo le nostre strade hanno trovato il crocicchio, un punto di incontro che per gli uomini di blues ha enorme significato, e che nel nostro caso significa semplicemente collaborare e condividere.
Con molta titubanza mi ha donato Ellepi, perché la riservatezza, la timidezza e una punta di pigrizia impediscono a Gianni di mettersi in vetrina.
Si scrive, si compone, si dipinge per se - se non è una professione - ma il passo successivo è quello di regalarsi al prossimo, con un pizzico di ambizione e narcisismo, ma certi di lavorare per le anime altrui. Ma questo mi appare come un grande scoglio quando penso a Gianni. Che dire… esistono abbondanti margini di miglioramento comportamentale!
Conosco poche persone che utilizzano la penna come lui, mischiando le passioni ai sentimenti, utilizzando un lessico a volte molto forte, ma che non risulta mai sgradevole.
Alla fine della lettura, con un po’ di preoccupazione, ho chiesto a Gianni se il racconto traesse spunto da sua vita vissuta, e la sua negazione mi ha confortato.
Un lettura da subito scorrevole, racconta di un incontro che provoca la descrizione di una storia antica, vissuta a puntate, mentre l’amore, quello vero, evolve.
La vicenda è quella di una band un tempo famosa, i Lepiota Procera, i cui componenti sono l’esatto spaccato dei “tragici” gruppi degli anni ’70, alla lunga decimati da una vita scellerata. Droga, sesso, alcool, problemi di ogni sorta e alla fine… la luce oltre il tunnel, con una colonna sonora di vero rock, capace di mischiare The Who a Lou Red, passando per Animals e Santana.
Ma dove sta la novità? Beh, l’epilogo drammatico è inaspettato, perché gli episodi si snodano come se il peggio fosse alle spalle, ma le conseguenze sono talmente dure da pesare sui reduci per tutta la vita.
E mentre una storia di amore prende consistenza gli errori del passato ci ricordano che non sempre tutto è concesso, che l’essere giovani non sempre è un alibi che può mettere a posto ogni cosa, ma capita che il conto da pagare, per gli sbagli ripetuti, sia un prezzo esagerato.
Amaro in bocca al termine di un book che vola nella lettura.
Mi fermo qui, per non svelare troppo, sperando di poter incuriosire il potenziale lettore.
Sono molte le persone che si inventano scrittori, fornendo anche dei bei compitini, compilati con la semplicità di un disinvolto studente delle medie, e che alla fine presentano una certa valenza per il contenuto e la documentazione.
Saper scrivere è altra cosa, è un dono di natura che niente ha a che vedere con la cultura scolastica, ma è la sintesi di svariate qualità che tutto sommato pochi eletti posseggono.
Gianni Sapia fa parte di questo gruppo di fortunati, carichi di talento descrittivo, ma con buone possibilità di rimanere nell’anonimato.
Non è necessario diventare famosi, forse, ma chi ha buone cartucce ha l’obbligo di utilizzarle… prima o poi qualcuno verrà colpito e a quel punto, trovarsi al posto giusto nel momento giusto potrà fare la differenza. E questo è il mio augurio per Gianni.