È
come camminare nel passato. La strada è fatta di grosse lastre di
pietra che le danno un assetto irregolare. Devi averci già camminato
e più di una volta, per poterlo fare senza inciampare. Io ho
iniziato a camminarci da piccolo, sono avvantaggiato. Le facciate dei
palazzi che ne determinano l’andamento, in alcuni punti sono così
vicine che sembra sia sufficiente allargare le braccia per poterle
toccare entrambe e le finestre sono a portata di bisbiglio, così
vicine che le notizie un tempo correvano saltando da una finestra
all’altra e attraversavano filtri domestici da cui uscivano con un
particolare in più e cosi arricchite erano pronte per saltare
nell’altra finestra, dove crescevano ancora un po’ e poi ancora e
ancora, finché una “buga” diventava un orata, un acquazzone una
tempesta, una tegola caduta un terremoto e aver visto un cantante
famoso di sfuggita, magari di spalle, poteva far di te uno dei suoi
migliori amici. Ora si comunica in maniera differente e la gente è
diventata più diffidente, forse con ragione, non lo so. Ciò che
resta è che ci relazioniamo meno di persona e preferiamo sotterrarci
sotto sms e messaggi sui social network impregnati di puntini di
sospensione, anche per un semplice saluto, cose tipo “……. ciao
……… come va …… tutto bene ……..” solo puntini, niente
virgole, punti di domanda o esclamativi, solo puntini, puntini e più
ne mettiamo più il messaggio ci compiace, come se abbondare di
puntini aumentasse il valore di quello che volevamo dire, mentre è
il chiaro sintomo della vacuità della nostra espressività. Tre.
Puntini ce ne vanno tre! Né due né quattro, tre! E si chiamano di
sospensione perché… ma sto divagando. Mi guardo attorno. Sono
ancora qui, tra i vicoli della mia città, tra i caruggi di Savona.
Via Pia corre parallela al mare e da Via Paleocapa ti porta verso la
torre del Brandale, che ancora si allunga impertinente verso il cielo
a ricordo dei fasti del passato. Tallonato da odori di panissa e
farinata, quando sono all’altezza della vecchia Questura, un suono
mi viene incontro zigzagando tra la gente e arriva fino alle mie
orecchie. È un ritmo lento ma non troppo, ondeggiante, avvolgente,
ma… ma è… ma è reggae certo! Ma la canzone… la canzone è
Money! Money dei Pink Floyd versione reggae! Questa non me la perdo.
Allungo il passo. La musica si fa più forte e nitida man mano che mi
avvicino e conferma la mia prima sensazione: è proprio Money!
Versione reggae! Affronto la lieve discesa dell’ultimo tratto di
strada e sbuco in piazza del Brandale dove, protetti dalla mole della
torre, otto coraggiosi musicisti stanno facendo di un classico una
primizia. Il pubblico è contento. C’è chi tiene il tempo battendo
semplicemente un piede, chi addirittura muove tutta la gamba e chi si
lancia in un ballo svolazzante sulle note del sax, dentro il quale il
sassofonista soffia la sua passione, gonfiando e sgonfiando le guance
e trasformandola in note che ti si attaccano addosso, come il sale
dell’acqua di mare. Il resto della band non è da meno, ognuno
regge la sua parte e l’incastro di note che ne viene fuori riempie
l’aria di allegria. Ben fatto, penso sull’ultima nota, mentre il
pubblico applaude la sua felicità. Resto lì e mi godo il concerto
fino alla fine. La cosa che più colpisce, oltre la musica, è
l’allegria. Il clima è amichevole e familiare, ci sono bambini ed
adulti che ballano insieme, nessuna faccia triste, nessun mugugno.
L’umore segue l’allegria della musica, che fa da carburante al
motore dell’immaginazione e la mente inizia il suo viaggio. Ne
resto coinvolto anch’io e rimango attonito a contemplare lo
scenografico contorno. Le torri davanti a me, a sinistra il Priamar,
dietro il porto e il rimpianto per quello che poteva essere Savona e
che non è, fa la sua solita visita alla mia utopia. Ma la musica
reclama la mia attenzione. Rimetto sguardo e mente sui giusti binari
e noto un cambiamento: il trombettista è diventato un bambino! Il
figlio certo, è il figlio del trombettista originale, che dimostra
già, avrà sì e no quattro anni, una buona vena. Il clima è
proprio quello, da festa in famiglia, e il “reggae’n’ska” che
viene fuori dagli amplificatori lo pretende. È musica che sorride.
Si passa da Dick
Tracy
di Don Drummond a Funcky
Kingston
dei Toots and the Maytal, da Fite’m
Back
di Lynton Kwesi Jhonson a Exodus
di Bob Marley, fino ad arrivare appunto alla Money che ha catturato
la mia attenzione, il tutto fatto con la leggerezza con cui, chi ama
questa musica, tenta di vivere la vita, malgrado la vita. La musica è
finita, ma gli amici non se ne vanno, la festa continua tra birra,
vino e il sarcasmo migliore che ci sia, quello da osteria. Mi
avvicino al sassofonista, che ora non ha più tra le mani il suo
strumento, ma regge tra le braccia quella che, probabilmente, è
l’unica cosa che ama più del suo “ferro”: suo figlio. Lo bacia
e lo lascia andare e si concede una copiosa “golata” di birra che
butta giù con gusto. Mi presento e lui fa altrettanto, si chiama
Danilo
Zanini,
detto “sex machine”, un soprannome jamesbrowniano che è tutto un
programma, suona il sax, dà una mano nei cori e ha la erre moscia.
Poi, rispondendo alla mia curiosità, mi presenta gli altri,
cercandoli con lo sguardo tra la festa che continua intorno a noi:
Saverio
Schinca
(basso), Flavio
“Master Flà” Isopo
(chitarra e voce), Francesco
Patrone
(chitarra solista), Fulvio
Giglio
(voce solista e percussioni), Filippo
“Pippo” Lagasio
detto “il Prof” (tastiere), Luca
“Lucky Bonarda” Scagliola
(tromba e cori), Giancarlo
“Gianca” Gilardi
(batteria), coadiuvati dalla guest Mauro “Manetta” Manara
(percussioni) e loro sono i The
Blue Young Monkeys.
Chiacchieriamo
per qualche
minuto
e quello che viene fuori sono soprattutto due cose. Una è che sono
dei romantici. Nell’epoca del ghiacciato digitale, loro hanno
registrato un 45 giri, con la copertina bianca col buco in mezzo,
come una volta. E lo hanno fatto in Giamaica. Romantici appunto.
L’altra sta racchiusa tutta nella frase con cui Danilo ed io ci
congediamo. Rispondendo alla mia affermazione:« Siete proprio bravi,
davvero!», lui mi guarda, beve un altro po’ di birra, inarca uno
scettico sopracciglio e:« Non lo so, però ci divertiamo, si
divertono tutti» dice e le erre che arrotola su divertiamo
e divertono
danno ancor più valore a quel modo di essere. Ci salutiamo, ma il
miracolo di aver unito allegria e malinconia mi trascina per il
bavero e non mi lascia andare a casa. Naturalmente incontro un mio
amico, a Savona ci conosciamo un po’ tutti, che mi chiede se ho
voglia di andare con lui ad Albissola a bere qualcosa, “offro io!”,
aggiunge. Primo, non ho voglia di andare a casa, secondo, non mi
ricordo di aver mai rifiutato da bere gratis. Accetto. Montiamo sulla
sua Kawasaki e ci buttiamo sull’Aurelia e quando passiamo sotto la
Torre Leon Pancaldo, la “Torretta”, so dove sono, come sempre.
Quando torno da un viaggio, mi rendo conto di essere a casa solo
quando vedo la Torretta, perché la Torretta è Savona. Scendiamo
dalla moto e attraversiamo la piazzetta più artistica del paese
degli artisti: piazza Concordia. Quando stiamo per affrontare le
scalette che ci porteranno ancora tra altri caruggi, la musica mi
sbatte di nuovo in faccia. Questa volta il ritmo è suadente ed
affascinante, come la voce che la incarna. È musica nera, è Motown,
è Chain
of Fools
in una versione ammaliante e accattivante, che mi fa suo in un
nanosecondo. Non c’è bisogno di parlare per essere d’accordo
sull’andare a vedere a chi appartiene quella voce così seducente,
tra me e il mio amico basta uno sguardo e quando siamo di fronte a
lei, avremmo bisogno di puntellarci le mascelle.
Chantal
non è solo bella, non ha solo una bella voce, lei ha classe, lei è
espressiva, ipnotica, incatenante, armoniosa, coinvolgente,
suggestiva e quasi quasi apro il dizionario dei sinonimi e ce li
metto tutti gli aggettivi che indicano la meraviglia che scatena in
me. È padrona del palcoscenico, come se glielo avessero costruito
intorno. Sono Chantal
& The Chain Gang
e
resterei a guardarli e sentirli per sempre. Il soul rivive attraverso
la voce di Chantal
Saroldi
e gli strumenti di Nicola
Arecco
(batteria), Davide
”Puccio” Canepa
(chitarra), Davide
Medicina
(basso) e Tommaso
Delfino
(tastiera) che passano da Sam Cooke a Stevie Wonder, da Bill Withers
a Marvin Gaye con l’incoscienza dei fuoriclasse. Quando attaccano
Ain’t
Too Proud To Beg
quasi mi commuovo e mi sembra di essere in The
Big Chill
di Lawrence Kasdan e quando le note di Rehab
luccicano nell’aria, lo spirito di Amy
Winehouse è certamente presente tra il pubblico, perché
un’interpretazione così di sicuro non se la vuole perdere. Mi è
andata bene. Sì, quella sera è stata proprio una gran sera. Non ho
solo riscoperto il fascino della mia città, ma ho scoperto anche che
in lei batte il cuore di musicisti veri, non di gente da karaoke,
fatti di carne, passione ed allegria, ammalianti e viscerali come i
sentimenti scaturiti da un bel ricordo, che hanno scelto di fare un
tipo di musica di non facile ascolto per tutti, mettendo la loro
tecnica e il loro estro al servizio di un pubblico di appassionati.
Appassionati di musica, come loro e per questo vanno trattati con
cortesia e riverenza. Après
vous The
Blue Young Monkeys
et Chantal
& The Chain Gang,
merci et au revoir.