lunedì 5 agosto 2013

Serata live a Savona, di Gianni Sapia


È come camminare nel passato. La strada è fatta di grosse lastre di pietra che le danno un assetto irregolare. Devi averci già camminato e più di una volta, per poterlo fare senza inciampare. Io ho iniziato a camminarci da piccolo, sono avvantaggiato. Le facciate dei palazzi che ne determinano l’andamento, in alcuni punti sono così vicine che sembra sia sufficiente allargare le braccia per poterle toccare entrambe e le finestre sono a portata di bisbiglio, così vicine che le notizie un tempo correvano saltando da una finestra all’altra e attraversavano filtri domestici da cui uscivano con un particolare in più e cosi arricchite erano pronte per saltare nell’altra finestra, dove crescevano ancora un po’ e poi ancora e ancora, finché una “buga” diventava un orata, un acquazzone una tempesta, una tegola caduta un terremoto e aver visto un cantante famoso di sfuggita, magari di spalle, poteva far di te uno dei suoi migliori amici. Ora si comunica in maniera differente e la gente è diventata più diffidente, forse con ragione, non lo so. Ciò che resta è che ci relazioniamo meno di persona e preferiamo sotterrarci sotto sms e messaggi sui social network impregnati di puntini di sospensione, anche per un semplice saluto, cose tipo “……. ciao ……… come va …… tutto bene ……..” solo puntini, niente virgole, punti di domanda o esclamativi, solo puntini, puntini e più ne mettiamo più il messaggio ci compiace, come se abbondare di puntini aumentasse il valore di quello che volevamo dire, mentre è il chiaro sintomo della vacuità della nostra espressività. Tre. Puntini ce ne vanno tre! Né due né quattro, tre! E si chiamano di sospensione perché… ma sto divagando. Mi guardo attorno. Sono ancora qui, tra i vicoli della mia città, tra i caruggi di Savona. Via Pia corre parallela al mare e da Via Paleocapa ti porta verso la torre del Brandale, che ancora si allunga impertinente verso il cielo a ricordo dei fasti del passato. Tallonato da odori di panissa e farinata, quando sono all’altezza della vecchia Questura, un suono mi viene incontro zigzagando tra la gente e arriva fino alle mie orecchie. È un ritmo lento ma non troppo, ondeggiante, avvolgente, ma… ma è… ma è reggae certo! Ma la canzone… la canzone è Money! Money dei Pink Floyd versione reggae! Questa non me la perdo. Allungo il passo. La musica si fa più forte e nitida man mano che mi avvicino e conferma la mia prima sensazione: è proprio Money! Versione reggae! Affronto la lieve discesa dell’ultimo tratto di strada e sbuco in piazza del Brandale dove, protetti dalla mole della torre, otto coraggiosi musicisti stanno facendo di un classico una primizia. Il pubblico è contento. C’è chi tiene il tempo battendo semplicemente un piede, chi addirittura muove tutta la gamba e chi si lancia in un ballo svolazzante sulle note del sax, dentro il quale il sassofonista soffia la sua passione, gonfiando e sgonfiando le guance e trasformandola in note che ti si attaccano addosso, come il sale dell’acqua di mare. Il resto della band non è da meno, ognuno regge la sua parte e l’incastro di note che ne viene fuori riempie l’aria di allegria. Ben fatto, penso sull’ultima nota, mentre il pubblico applaude la sua felicità. Resto lì e mi godo il concerto fino alla fine. La cosa che più colpisce, oltre la musica, è l’allegria. Il clima è amichevole e familiare, ci sono bambini ed adulti che ballano insieme, nessuna faccia triste, nessun mugugno. L’umore segue l’allegria della musica, che fa da carburante al motore dell’immaginazione e la mente inizia il suo viaggio. Ne resto coinvolto anch’io e rimango attonito a contemplare lo scenografico contorno. Le torri davanti a me, a sinistra il Priamar, dietro il porto e il rimpianto per quello che poteva essere Savona e che non è, fa la sua solita visita alla mia utopia. Ma la musica reclama la mia attenzione. Rimetto sguardo e mente sui giusti binari e noto un cambiamento: il trombettista è diventato un bambino! Il figlio certo, è il figlio del trombettista originale, che dimostra già, avrà sì e no quattro anni, una buona vena. Il clima è proprio quello, da festa in famiglia, e il “reggae’n’ska” che viene fuori dagli amplificatori lo pretende. È musica che sorride. Si passa da Dick Tracy di Don Drummond a Funcky Kingston dei Toots and the Maytal, da Fite’m Back di Lynton Kwesi Jhonson a Exodus di Bob Marley, fino ad arrivare appunto alla Money che ha catturato la mia attenzione, il tutto fatto con la leggerezza con cui, chi ama questa musica, tenta di vivere la vita, malgrado la vita. La musica è finita, ma gli amici non se ne vanno, la festa continua tra birra, vino e il sarcasmo migliore che ci sia, quello da osteria. Mi avvicino al sassofonista, che ora non ha più tra le mani il suo strumento, ma regge tra le braccia quella che, probabilmente, è l’unica cosa che ama più del suo “ferro”: suo figlio. Lo bacia e lo lascia andare e si concede una copiosa “golata” di birra che butta giù con gusto. Mi presento e lui fa altrettanto, si chiama Danilo Zanini, detto “sex machine”, un soprannome jamesbrowniano che è tutto un programma, suona il sax, dà una mano nei cori e ha la erre moscia. Poi, rispondendo alla mia curiosità, mi presenta gli altri, cercandoli con lo sguardo tra la festa che continua intorno a noi: Saverio Schinca (basso), Flavio “Master Flà” Isopo (chitarra e voce), Francesco Patrone (chitarra solista), Fulvio Giglio (voce solista e percussioni), Filippo “Pippo” Lagasio detto “il Prof” (tastiere), Luca “Lucky Bonarda” Scagliola (tromba e cori), Giancarlo “Gianca” Gilardi (batteria), coadiuvati dalla guest Mauro “Manetta” Manara (percussioni) e loro sono i The Blue Young Monkeys.


Chiacchieriamo per qualche minuto e quello che viene fuori sono soprattutto due cose. Una è che sono dei romantici. Nell’epoca del ghiacciato digitale, loro hanno registrato un 45 giri, con la copertina bianca col buco in mezzo, come una volta. E lo hanno fatto in Giamaica. Romantici appunto. L’altra sta racchiusa tutta nella frase con cui Danilo ed io ci congediamo. Rispondendo alla mia affermazione:« Siete proprio bravi, davvero!», lui mi guarda, beve un altro po’ di birra, inarca uno scettico sopracciglio e:« Non lo so, però ci divertiamo, si divertono tutti» dice e le erre che arrotola su divertiamo e divertono danno ancor più valore a quel modo di essere. Ci salutiamo, ma il miracolo di aver unito allegria e malinconia mi trascina per il bavero e non mi lascia andare a casa. Naturalmente incontro un mio amico, a Savona ci conosciamo un po’ tutti, che mi chiede se ho voglia di andare con lui ad Albissola a bere qualcosa, “offro io!”, aggiunge. Primo, non ho voglia di andare a casa, secondo, non mi ricordo di aver mai rifiutato da bere gratis. Accetto. Montiamo sulla sua Kawasaki e ci buttiamo sull’Aurelia e quando passiamo sotto la Torre Leon Pancaldo, la “Torretta”, so dove sono, come sempre. Quando torno da un viaggio, mi rendo conto di essere a casa solo quando vedo la Torretta, perché la Torretta è Savona. Scendiamo dalla moto e attraversiamo la piazzetta più artistica del paese degli artisti: piazza Concordia. Quando stiamo per affrontare le scalette che ci porteranno ancora tra altri caruggi, la musica mi sbatte di nuovo in faccia. Questa volta il ritmo è suadente ed affascinante, come la voce che la incarna. È musica nera, è Motown, è Chain of Fools in una versione ammaliante e accattivante, che mi fa suo in un nanosecondo. Non c’è bisogno di parlare per essere d’accordo sull’andare a vedere a chi appartiene quella voce così seducente, tra me e il mio amico basta uno sguardo e quando siamo di fronte a lei, avremmo bisogno di puntellarci le mascelle. 


Chantal non è solo bella, non ha solo una bella voce, lei ha classe, lei è espressiva, ipnotica, incatenante, armoniosa, coinvolgente, suggestiva e quasi quasi apro il dizionario dei sinonimi e ce li metto tutti gli aggettivi che indicano la meraviglia che scatena in me. È padrona del palcoscenico, come se glielo avessero costruito intorno. Sono Chantal & The Chain Gang e resterei a guardarli e sentirli per sempre. Il soul rivive attraverso la voce di Chantal Saroldi e gli strumenti di Nicola Arecco (batteria), Davide ”Puccio” Canepa (chitarra), Davide Medicina (basso) e Tommaso Delfino (tastiera) che passano da Sam Cooke a Stevie Wonder, da Bill Withers a Marvin Gaye con l’incoscienza dei fuoriclasse. Quando attaccano Ain’t Too Proud To Beg quasi mi commuovo e mi sembra di essere in The Big Chill di Lawrence Kasdan e quando le note di Rehab luccicano nell’aria, lo spirito di Amy Winehouse è certamente presente tra il pubblico, perché un’interpretazione così di sicuro non se la vuole perdere. Mi è andata bene. Sì, quella sera è stata proprio una gran sera. Non ho solo riscoperto il fascino della mia città, ma ho scoperto anche che in lei batte il cuore di musicisti veri, non di gente da karaoke, fatti di carne, passione ed allegria, ammalianti e viscerali come i sentimenti scaturiti da un bel ricordo, che hanno scelto di fare un tipo di musica di non facile ascolto per tutti, mettendo la loro tecnica e il loro estro al servizio di un pubblico di appassionati. Appassionati di musica, come loro e per questo vanno trattati con cortesia e riverenza. Après vous The Blue Young Monkeys et Chantal & The Chain Gang, merci et au revoir.