Sta nella logica delle cose veder appassire e poi morire le
persone che ci circondano, consci che prima o poi anche noi arriveremo alla
meta non desiderata, ma è grande l’effetto e il disagio quando la dipartita
riguarda un volto noto, storico, mitico, che da tutta la vita ti accompagna,
nel mio caso dalle scuole medie in poi.
In realtà il mio amore per i Rolling
Stones è finito presto e attorno a metà degli anni ’70 ho iniziato a perdere
interesse per quella che, credo giustamente, è stata definita la più grande Rock
and Roll band mai esistita.
Sino a quel momento ricordo bene come
i loro singoli rappresentassero per me la rivoluzione rock contrapposta alle meravigliose
melodie dei Beatles, brani - di entrambi i gruppi - che tutt’ora fanno parte della mia playlist… inutile
elencarli.
In quella fantastica e primitiva formazione
c’erano un paio di artisti illuminati e dal 1969, dopo la morte di Brian Jones, ne
rimase uno solo, Mick Jagger.
Ovviamente è solo il mio pensiero e so già che molti non saranno d’accordo; ho già avuto prova che i miti
non si possono contestare né scalfire ma solo osservare da lontano e
ringraziare, e quando si avanza qualche cauta critica il mondo intero si mobilita per
riportare al centro il pensiero ortodosso, quello che prevede un solo
punto di vista che ha a che fare con l’approvazione incondizionata, spesso
immotivata.
Negli Stones non ho mai riconosciuto
elementi geniali, salvo il già citato polistrumentista Jones e il frontman e
autore Jagger, ma in ogni caso la miscela è sempre risultata esplosiva e vincente: non è un caso
se sono ancora in pista dopo tutti questi lustri.
Ma il valore di un musicista deve tener
conto della sua capacità innovativa, del suo saper creare un modello nuovo,
inesistente in precedenza.
Prendiamo Keith Richards, chitarrista
dalla dimensione - e dalla vita - molto… criticata.
In tanti hanno descritto con veemenza
la sua pochezza tecnica ma se abbiamo potuto godere di brani come “(I Can't
Get No) Satisfaction”, “Brown Sugar” o “Honky Tonk Women” il
merito è proprio di Richards che, contaminato dai "suoi" musicisti blues, elimina
da subito il “MI” dalla sua Telecaster - divenuta così a 5 corde - e imposta una accordatura aperta in “SOL”,
aprendo la strada verso un mondo nuovo, quello che gli ha permesso di inventare i suoi famosi
licks.
L’uomo giusto al posto giusto, senza poi parlare della sua significativa capacità autorale.
Dopo Jones (mancato nel '69) arriva un grande bluesman, il chitarrista Mick
Taylor - che non resisterà molto in quel circuito pericoloso - seguito a ruota da Ronnie Wood,
il perfetto compagno di Richards, il pittore, da sempre amico degli Stones.
Non dimentico un certo... Bill Wyman, per oltre trent'anni parte della sezione ritmica della band, un bassista "regolare" e poco avvezzo alla teatralità.
E poi c’è…. c’era… Charlie Watts,
silenzioso, elegante, moderato, fuori dalla cornice maledetta che circonda la
super band inglese.
Oddio, anche lui passa dei brutti
momenti negli anni ’80, e l’alcol e l’eroina non lo risparmiano, ma ne esce
fuori e mantiene il contegno, con la regolarità che lo ha sempre
contraddistinto.
Ha origini umili, è un autodidatta
intelligente e appassionato di jazz e blues.
Sembrerebbe sempre sullo sfondo,
defilato, ma il suo carattere forte e la sua leadership sono evidenti e dichiarati dai compagni di viaggio, e i suoi
continui ammiccamenti da palco con l’amico Keith fanno pensare a rapporti solidi,
coltivati e rafforzati nel tempo, oltre gli obblighi professionali.
Lo tsunami da performance, quello che
spesso va on onda quando gli Stones sono in concerto, sembra non toccarlo, perché in
qualunque direzione vada la nave ci vuole sempre qualcuno capace di raddrizzare
la barra e tenere il tempo giusto, dall’inizio alla fine.
Ecco, Charlie Watts era, a mio giudizio,
l’unico batterista possibile in un gruppo di pazzi scatenati, un buon
batterista a cui non era richiesto di esagerare, di accelerare, di sorpassare, ma
solo di mantenere la rotta.
Insomma, dalle mie parole è facile
capire come Watts non mi abbia mai toccato più di tanto e, pur riconoscendone
il ruolo fondamentale, vederlo al dodicesimo posto tra i migliori batteristi di
tutti i tempi (classifica stilata dalla rivista “Rolling Stones”) mi pare azzardato.
Se invece discutiamo di funzionalità rispetto al
progetto, beh… Charlie Watts appare unico e insostituibile.
Ma parlare di skills davanti a chi ha
fatto la storia del rock è inutile e sicuramente impopolare ed è probabile
che i nuovi Stones, con un altro drummer, non avranno molta vita. Ma certamente verrò smentito, e un po' me lo auguro.
Charlie Watts non era quindi il mio
batterista del cuore, ma sicuramente l'elemento che più ho apprezzato tra gli Stones, perché la
visibilità comporta enormi responsabilità e l’immagine che la band ha sempre
regalato dal palco, fatta di trasgressione ad ogni costo, mi ha sempre
infastidito.
Cosa c’entra tutto questo con la musica? Lascio ad ogni lettore la propria valutazione.
Ciao Charlie, batterista di una band che ho amato alla follia sino … al 1975, o giù di lì!