Gianni Sapia, come spesso è accaduto
nell’ultimo periodo, ci racconta qualcosa di un album di Runaway Totem, Affreschi e Meditazioni.
Le palpebre si appesantiscono, ma non di sonno, di sogno. La
trascendente spiritualità dell’India ad ogni passo, dietro ogni angolo.
Risalgono dal profondo della memoria, a caccia d’aria, parole desuete come
trasumanazione, dharma, karma, monismo, dualismo. Gli intricati vicoli della
città sono densi di sonorità ascetiche. La gente sorride, di un sorriso
rassicurante. Il sorriso di chi ha avuto il coraggio di guardare oltre la
propria pelle ed aver affrontato l’incontro più difficile, l’incontro con se
stessi. Il sorriso della consapevolezza. La luce è forte, è luce d’anima.
Consolatrice. Mi guardano con quel benevolo sorriso e gesticolando mi invitano
ad entrare in loro, nel loro alito. È un invito a far parte di quell’essere
totale che da forma ad ogni individuo, ad ogni personalità. Lascio che sia.
Seguo l’onda di calore che si palesa tra i miei sensi e seguo quel cammino
invisibile ben tracciato dalle mie emozioni, finché il suono del gong risveglia
la mia mente, aprendo alla vista della mia subcoscienza gli orizzonti sferici
di Stupa, dove corpo, voce e mente di
Buddha prendono forma attraverso suoni che inebriano la mente ed amplificano i
sensi. È come l’acqua. Un suono che colma e che prende la forma dell’intorno.
La cupola del sacro monumento sfuma tra voci di meditazione, aprendosi ad un
cielo che sembra essere il percorso mai disegnato di nuvole, che gareggiano tra
loro, sospinte da venti che soffiano senza direzione, dando forma ad un caos
equilibrato. Resto col naso per aria ad ammirare quel rincorrersi frenetico,
che solletica ricordi che sembravano sopiti e rivedo la mia vita che corre,
sospinta da dogmi che non gli appartengono. Quello che è stato e quello che è.
Ieri e oggi. Passato e Presente. La
musica continua a ripetere suoni di speranza che alimentano il desiderio di
futuro. C’è ancora tempo, posso ancora essere parte della vita. Abbasso lo
sguardo verso l’orizzonte vibrante di calore e di suoni che sembrano soltanto
voler cominciare, senza andare avanti. Inizio a camminare, lasciando che il
mondo scorra sotto di me fino a quando, ancora lontano, scorgo i nitidi
contorni di TaT, l’Albero Cosmico,
con tutto il carico dei suoi allegorici frutti. Mi avvicino ancora. Ora
quell’embrione di musica prende maggiore sostanza ed assume un cadenza
annunciatrice. L’albero sembra possedere più di un diaframma e con voce
polivalente canta una parte della sacra scrittura, la Bhagavad Gita. Il
divenire onirico non conosce tregua. Orizzonti e cieli cambiano veloci
assecondando l’inconscio, palesando forme sconosciute agli occhi. La musica è
sempre lì. Ora si è fatta incantatrice e suadente, come i tenui colori
dell’arenaria de La Città Rosa, Jaipur,
la cui bellezza ha preso improvvisamente forma, come se l’incantevole Hawa Mahal fosse caduto dal cielo ad interrompere il mio
cammino, per mostrarsi in tutta la sua bellezza. Varco la soglia del palazzo
vestito di rosa e appena entro sono fuori, in cielo. La gravità e alle mie
spalle, come tutto il resto. Rimane la musica, che ora si è fatta adorante. Il
mio volo mi trascina in uno stato contemplativo che attenua i miei sensi sempre di più, fino a cancellarli.
Il processo di trasumanazione ormai galoppa libero e ad ogni secondo mi sento
sempre più vicino a Dio. Il figlio primogenito di Śiva e Parvati vola al mio fianco. Mi fermo a
guardarlo estasiato e rimango adorante ai suoi piedi. è tempo di Ganesha Puja.
Ormai non c’è più spazio per l’immanenza e tutto ciò che resta è pura
trascendenza. Metafisica. Il volo prosegue sulla scia della musica divenuta
ipnotica, che mi accompagna verso la mia meta. Verso il sole. La luce abbagliante della magnifica stella rende ciechi
soltanto i miei occhi, ma rende visibile alla mia mente e al mio cuore la
bellezza dell’anima. Tamburi incessanti accompagnano il mio Inno A Surya. Lentamente le palpebre
scorrono sui bulbi oculari e riapro gli occhi, ancora ebbro di astrattezza. Poi
riconosco il contorno. Prima il soffitto, poi le pareti di casa mia, i miei
piedi, le mie gambe. Il mio corpo disteso sul letto. Mi tocco, per assicurarmi
di essere tangibile. Esisto. Per un attimo lungo una vita, la musica che ha
riempito la stanza, mi ha fatto vivere nuove sensazioni. Giro appena la testa e
sul comodino scorgo la custodia del CD appena ascoltato. I colori della
copertina e del booklet dovuti alle visioni pittoriche di Castellano Stelio
concimano ulteriormente il mio immaginario. Solo passione e amore possono
spingere a fare un disco del genere. È un viaggio spirituale che dura ormai da
un decennio. Non è una band, sarebbe limitativo. È un’entità ultramondana che
si riflette di volta in volta nei protagonisti che gli danno forma. È una
stella con tanti pianeti che gli ruotano attorno. È Runaway Totem e a dar suono alla sua voce in questa occasione,
nell’ultima opera Affreschi e Meditazioni,
sono CAHAL DE BETEL (Roberto Gottardi,
chitarra acustica, liuteria elettronica, percussioni elettroniche), RE-TUZ (Raffaello Regoli, voce, voce
diplofonica), DAUNO (Giuseppe
Buttiglione, basso fretless) e TIPHERET
(Germano Morghen, batteria), musicisti che mettono la loro tecnica al servizio
dell’anima, fino alla meraviglia della voce “stratosiana” di RE_TUZ. Mi alzo
dal letto, lentamente. Provo a poggiare i piedi per terra, ma l’inconsistenza
del pavimento mi sorprende. Ancora emozioni di volo trascendentale. Sensazioni
che restano, per un bel po’.