venerdì 12 luglio 2013

Guy Davis Featuring Fabrizio Poggi - Juba dance



Spesso si parla e si scrive di musica partendo da un grande handicap di cui si è pienamente consci, e il rimedio non è quasi mai dietro l’angolo; mi riferisco all’impossibilità di partecipare ad un live dell’artista in oggetto, fatto non determinante per il commento di un album, ma decisivo se si vuole avere la visione completa del musicista.
Ho più volte visto da vicino… molto vicino, Fabrizio Poggi; ho anche avuto la fortuna di vedere Fabrizio a fianco del suo amico Guy Davis, considerato il vero erede dei grandi del blues, i seminali Robert Johnson e John Lee Hooker. Questo accadeva circa tre anni fa, in un pub, un ambiente ideale per contatto e atmosfera.
La premessa mi è utile per introdurre la testimonianza della felice unione di intenti tra Guy e Fabrizio, sintetizzata in un nuovo album dal titolo JUBA DANCE.
Credo sia superfluo tracciare i profili di questi due artisti, due amici, due uomini che nascono casualmente a migliaia di chilometri di distanza, ma che forse hanno bazzicato altre vite suonando assieme l’armonica - Fabrizio - e sicuramente ne vivranno altre accompagnandosi con la chitarra e il banjo - Guy.
Tredici le tracce proposte all’interno di un album che sta guadagnando i primati di ascolto nella terra ortodossa, quella dove il blues è nato, l’America, anche se sarebbe doveroso che anche nei nostri luoghi questa musica, forse la più suonata, diventasse anche molto ascoltata, potendo unire il suono all’idea di condizione umana, alla storia dei popoli, alla grandezza dei concetti espressi attraverso pochi e semplici accordi.
L’album è acustico, essenza del blues, ed è forse questo il format vincente per tornare al vero spirito, alle origini, all’anima di uomini e donne che ritrovano il senso della loro vita proprio attorno ad uno strumento qualsiasi, magari  grezzo, ma capace di trasformarsi in orchestra, realizzando l’unica vera magia possibile, quella felicità derivante dalla condivisione di ciò che si ha… e si sa, la musica è un bene comune.
Nello scambio di idee a seguire, Fabrizio Poggi fornisce l’oggettività di questo fantastico JUBA DANCE, un disco che farà piangere, gioire e anche ballare, come è giusto che sia.
Il connubio tra due grandi artisti come Poggi e Davis non poteva che portare ad un rilevante risultato, premiato dagli ascolti e dai giudizi, e credo sia questa per loro una enorme soddisfazione.
Due uomini che hanno in comune molte cose, ed ogni ascoltatore si farà la propria idea; certo è che la capacità di comunicare ed il livello espressivo raggiunto, garantisce ad  entrambi una certa trasversalità di gradimento, senza distinzione di genere e di etichetta. E questo è tipico solo dei grandi, qualunque sia il contesto in cui ci si muove.
E che sia per tutti un buon ascolto!



L’INTERVISTA

Come nasce l’idea di “sintetizzare” la vecchia collaborazione tra te e Guy Davis con un album, “Juba Dance”?
Il nostro primo incontro risale al 2007, quando ci siamo conosciuti ad un festival blues negli States. Tra noi è nata quasi subito, come per miracolo, una profonda amicizia basata non solo sulla stima reciproca, ma anche sulla passione che abbiamo entrambi per il blues più autentico, quello delle radici. Negli ultimi sei anni il nostro stretto legame personale si è concretizzato in concerti dal vivo in Italia e soprattutto all’estero, nell’incisione da parte di Guy di un paio di tracce nel mio disco “Spirit & Freedom”, e ora in questo album a quattro mani che vuole in qualche modo “fotografare” lo stato del nostro splendido rapporto

Il disco racconta di un blues acustico: è questa la dimensione che tu e Davis preferite?
Sì, Guy ed io siamo estremamente affascinati dal sound primitivo del blues e dello spiritual. Da quella musica che si suonava “senza elettricità”, sotto la veranda di quelle baracche sparse tra i campi di cotone del Sud degli States. Gran parte dell’ “anima del blues” sta ancora nelle canzoni che si cantavano laggiù. E poi il suono acustico ci permette di raccontare meglio le storie che stanno dentro e intorno a questo misterioso e magico genere musicale. 

Leggendo il comunicato stampa si evidenzia come i fan di Guy Davis siano trasversali, non necessariamente amanti di un certo tipo di musica: a cosa attribuisci questa capacità di soddisfare differenti palati?
Questo è dovuto  soprattutto al fatto che il blues è la madre di tutte le musiche moderne, e che quindi chiunque abbia ascoltato musica negli ultimi 100 anni ha fondamentalmente ascoltato un derivato del blues.
E poi Guy è un performer assolutamente straordinario che non può lasciare indifferenti. Sa catturare l’ascoltatore e portarlo in un’altra dimensione senza grandi trucchi, assoli pirotecnici e numeri da giocoliere. La sua voce e la sua chitarra hanno l’energia e la potenza che non trovi nemmeno assemblando amplificatori su amplificatori. Pochi artisti riescono a fare ciò che fa Guy con la stessa semplicità e la stessa naturalezza. Ma questo è l’unico modo di toccare il cuore della gente. E lui lo sa.

Se dovessi estrapolare l’anima, il messaggio dell’album, come potresti disegnarlo?
L’anima del disco, che vede l’incontro, l’abbraccio e la fusione totale e completa tra due musicisti provenienti da mondi apparentemente lontani, distanti anni luce, non può che assumere il colore un po’ virato di una vecchia fotografia in bianco e nero o quello di un disegno a carboncino. Questo perché probabilmente in un'altra vita Guy ed io eravamo fratelli e già suonavamo il blues sotto la veranda di casa. Solo per noi… senza pensare a quello che sarebbe venuto dopo.
E forse in quell’altra vita non c’erano nemmeno le macchine fotografiche, ma solo un ragazzino che seduto innanzi a noi tracciava i nostri ritratti su di un foglio di carta ingiallita, recuperata chissà dove…
  
Difficile per me fare graduatorie tra giganti… mi affido quindi ad un esperto come te: perché Guy è considerato il vero erede di Robert Johnson e J.L. Hooker?
Perché Guy Davis è un bluesman vero, autentico come lo erano Robert Johnson e John Lee Hooker. Per loro il blues era ed è molto più di un genere musicale. Era ed è  la vita stessa. Fa parte di loro. E questo non è affatto scontato. Oggi ci sono bluesman che “recitano una parte”. A volte sono attori straordinari e riescono quasi a sembrare veri. Imitano gli originali risultando talvolta persino “più veri” dei loro stessi eroi.  L’anima del blues però sta da tutt’altra parte. Come dice spesso  il mio amico Charlie Musselwhite: “Molti pensano di suonare il blues, ma il blues è un’altra cosa”. Ecco, Guy Davis, come Hooker e Johnson, non ha trovato quell’altra cosa, ossia il blues, su Google o su YouTube, ma l’ha cercata (e trovata) girando il mondo con la sua chitarra, il suo banjo, senza furbi espedienti o scorciatoie, semplicemente conquistando ogni sera che Dio manda sulla terra le persone che siedono davanti a lui in un famoso jazz club di Parigi, Londra o New York, o in malfamato locale sperduto tra Mississippi, Texas e Louisiana. Se fosse nato 50 anni prima oggi Guy non sarebbe l’erede di Hooker o di Johnson, ma molto più semplicemente uno di loro, uno di quelli che ha fatto la storia del blues.