Spesso si parla e si scrive di musica
partendo da un grande handicap di cui si è pienamente consci, e il rimedio non
è quasi mai dietro l’angolo; mi riferisco all’impossibilità di partecipare ad
un live dell’artista in oggetto, fatto non determinante per il commento di un
album, ma decisivo se si vuole avere la visione completa del musicista.
Ho più volte visto da vicino… molto
vicino, Fabrizio Poggi; ho anche avuto la fortuna di vedere Fabrizio a fianco del suo amico Guy Davis, considerato
il vero erede dei grandi del blues, i seminali Robert Johnson e John Lee
Hooker. Questo accadeva circa tre anni fa, in un pub, un ambiente ideale per
contatto e atmosfera.
La premessa mi è utile per introdurre la
testimonianza della felice unione di intenti tra Guy e Fabrizio, sintetizzata
in un nuovo album dal titolo JUBA
DANCE.
Credo sia superfluo tracciare i profili di
questi due artisti, due amici, due uomini che nascono casualmente a migliaia di
chilometri di distanza, ma che forse hanno bazzicato altre vite suonando
assieme l’armonica - Fabrizio - e sicuramente ne vivranno altre accompagnandosi
con la chitarra e il banjo - Guy.
Tredici le tracce proposte all’interno di
un album che sta guadagnando i primati di ascolto nella terra ortodossa, quella
dove il blues è nato, l’America, anche se sarebbe doveroso che anche nei nostri
luoghi questa musica, forse la più suonata, diventasse anche molto ascoltata,
potendo unire il suono all’idea di condizione umana, alla storia dei popoli,
alla grandezza dei concetti espressi attraverso pochi e semplici accordi.
L’album è acustico, essenza del blues, ed
è forse questo il format vincente per tornare al vero spirito, alle origini,
all’anima di uomini e donne che ritrovano il senso della loro vita proprio
attorno ad uno strumento qualsiasi, magari grezzo, ma capace di trasformarsi in orchestra,
realizzando l’unica vera magia possibile, quella felicità derivante dalla
condivisione di ciò che si ha… e si sa, la musica è un bene comune.
Nello scambio di idee a seguire, Fabrizio
Poggi fornisce l’oggettività di questo fantastico JUBA DANCE, un disco che farà piangere, gioire e anche ballare,
come è giusto che sia.
Il connubio tra due grandi artisti come
Poggi e Davis non poteva che portare ad un rilevante risultato, premiato dagli
ascolti e dai giudizi, e credo sia questa per loro una enorme soddisfazione.
Due uomini che hanno in comune molte cose,
ed ogni ascoltatore si farà la propria idea; certo è che la capacità di
comunicare ed il livello espressivo raggiunto, garantisce ad entrambi una certa trasversalità di
gradimento, senza distinzione di genere e di etichetta. E questo è tipico solo
dei grandi, qualunque sia il contesto in cui ci si muove.
E che sia per tutti un buon ascolto!
L’INTERVISTA
Come nasce l’idea di “sintetizzare” la vecchia collaborazione tra te e
Guy Davis con un album, “Juba Dance”?
Il
nostro primo incontro risale al 2007, quando ci siamo conosciuti ad un festival
blues negli States. Tra noi è nata quasi subito, come per miracolo, una
profonda amicizia basata non solo sulla stima reciproca, ma anche sulla
passione che abbiamo entrambi per il blues più autentico, quello delle radici.
Negli ultimi sei anni il nostro stretto legame personale si è concretizzato in
concerti dal vivo in Italia e soprattutto all’estero, nell’incisione da parte
di Guy di un paio di tracce nel mio disco “Spirit & Freedom”, e ora in
questo album a quattro mani che vuole in qualche modo “fotografare” lo stato
del nostro splendido rapporto.
Il disco racconta di un blues acustico: è questa la dimensione che tu e
Davis preferite?
Sì, Guy ed io siamo estremamente affascinati dal sound primitivo del
blues e dello spiritual. Da quella musica che si suonava “senza elettricità”,
sotto la veranda di quelle baracche sparse tra i campi di cotone del Sud degli
States. Gran parte dell’ “anima del blues” sta ancora nelle canzoni che si
cantavano laggiù. E poi il suono acustico ci permette di raccontare meglio le
storie che stanno dentro e intorno a questo misterioso e magico genere
musicale.
Leggendo il comunicato stampa si evidenzia come i fan di Guy Davis siano
trasversali, non necessariamente amanti di un certo tipo di musica: a cosa
attribuisci questa capacità di soddisfare differenti palati?
Questo è dovuto soprattutto al
fatto che il blues è la madre di tutte le musiche moderne, e che quindi
chiunque abbia ascoltato musica negli ultimi 100 anni ha fondamentalmente ascoltato
un derivato del blues.
E poi Guy è un performer assolutamente straordinario che non può
lasciare indifferenti. Sa catturare l’ascoltatore e portarlo in un’altra
dimensione senza grandi trucchi, assoli pirotecnici e numeri da giocoliere. La
sua voce e la sua chitarra hanno l’energia e la potenza che non trovi nemmeno
assemblando amplificatori su amplificatori. Pochi artisti riescono a fare ciò
che fa Guy con la stessa semplicità e la stessa naturalezza. Ma questo è
l’unico modo di toccare il cuore della gente. E lui lo sa.
Se dovessi estrapolare l’anima, il messaggio dell’album, come potresti
disegnarlo?
L’anima del disco, che vede l’incontro, l’abbraccio e la fusione totale
e completa tra due musicisti provenienti da mondi apparentemente lontani,
distanti anni luce, non può che assumere il colore un po’ virato di una vecchia
fotografia in bianco e nero o quello di un disegno a carboncino. Questo perché
probabilmente in un'altra vita Guy ed io eravamo fratelli e già suonavamo il
blues sotto la veranda di casa. Solo per noi… senza pensare a quello che
sarebbe venuto dopo.
E forse in quell’altra vita non c’erano nemmeno le macchine fotografiche,
ma solo un ragazzino che seduto innanzi a noi tracciava i nostri ritratti su di
un foglio di carta ingiallita, recuperata chissà dove…
Difficile per me fare graduatorie tra giganti… mi affido quindi ad un
esperto come te: perché Guy è considerato il vero erede di Robert Johnson e
J.L. Hooker?
Perché Guy Davis è un bluesman vero, autentico come lo erano Robert
Johnson e John Lee Hooker. Per loro il blues era ed è molto più di un genere
musicale. Era ed è la vita stessa. Fa
parte di loro. E questo non è affatto scontato. Oggi ci sono bluesman che “recitano
una parte”. A volte sono attori straordinari e riescono quasi a sembrare veri.
Imitano gli originali risultando talvolta persino “più veri” dei loro stessi eroi. L’anima del blues però sta da tutt’altra
parte. Come dice spesso il mio amico
Charlie Musselwhite: “Molti pensano di
suonare il blues, ma il blues è un’altra cosa”. Ecco, Guy Davis, come
Hooker e Johnson, non ha trovato quell’altra cosa, ossia il blues, su Google o
su YouTube, ma l’ha cercata (e trovata) girando il mondo con la sua chitarra,
il suo banjo, senza furbi espedienti o scorciatoie, semplicemente conquistando
ogni sera che Dio manda sulla terra le persone che siedono davanti a lui in un
famoso jazz club di Parigi, Londra o New York, o in malfamato locale sperduto tra
Mississippi, Texas e Louisiana. Se fosse nato 50 anni prima oggi Guy non
sarebbe l’erede di Hooker o di Johnson, ma molto più semplicemente uno di loro,
uno di quelli che ha fatto la storia del blues.