lunedì 22 luglio 2013

Half Past Four-Good Things, di Gianni Sapia


Non ho un’idea ben chiara. Non che avere idee chiare sia mai stata una mia peculiarità. Ma stavolta lo percepisco. Di solito la mia annebbiata visione del mondo, viene resa nitida dalle lenti graduate dell’ intrinseco narcisismo umano e per un attimo dimentico i miei limiti e come un Dio credo di poter trattenere tutto il sapere del mondo tra le mie mani. Ma poi ci pensa il mare, con la sua immensità, ci pensa il sole, con la sua magnificenza, le stelle, con la loro lucente labilità e l’amore, con il suo mistero, a rendere nitida la mia piccolezza. Stavolta però non ho bisogno di nessun benevolo regredire. Stavolta lo so. Il mio essere parentetico e lì davanti a me, fin da subito. La mia sicurezza di plastica vacilla e dubbi e confusione, fondamenta della mia esistenza, questa volta non aspettano il momento giusto per palesarsi. Questa volta si piazzano davanti a me immediatamente, quasi con prepotenza. Forse sto esagerando. Un mucchio di parole. Troppe. Bastava dire “la musica ogni volta mi sorprende”. Chiaro, conciso. Esaustivo. Al massimo aggiungerci un “piacevolmente”. Ma l’intrinseco narcisismo umano… Mi sorprende allora, piacevolmente. Mi sorprende quando scopro che Half Past Four non è soltanto un’indicazione temporale. Non è soltanto metà pomeriggio. È anche un’infornata di suoni. È una band canadese che sforna cose buone. Loro sono Kyree Vibrant (voce), Constantin Necrasov (chitarre), Dmitry “Les” Lesov (basso, Chapman stick), IgorIggy” Kurtzman (tastiere) e Marcello Ciurleo (batteria) e il loro ultimo lavoro s’intitola, appunto, Good Things


Musicalmente parlando, quando penso al Canada, non riesco ad evitare che la mia mente riviva i suoni e le immagini di quei fuoriclasse dei Rush e forse inconsciamente mi aspetto di trovare quelle sonorità in ogni gruppo che venga dallo stato nordamericano. Ovviamente poi non e mai così. Quasi mai. Negli Half Past Four però qualcosa c’è. Non nelle sonorità certo, i Rush viaggiano più verso l’hard, mentre loro hanno direzioni più soft, con escursioni jazzistiche, ma nell’architettura, nella costruzione del pezzo. Soddisfatta la mia inevitabile associazione Rush-Canada. Ora è tempo di assaggiare Good Things. Sarà un lungo e succulento banchetto. Dodici portate. La prima è It Strikes You, dove chitarra e tastiera introducono la parte vocale che entra armoniosa nel brano, coadiuvando sapientemente la fluidità ritmica del pezzo, che sfocia in un assolo di chitarra pulito e che poi, verso il finale, cambia improvvisamente direzione, dando un sapore decisamente progressivo al tutto. Resta ancora il tempo per dare una schitarrata metal prima della fine. L’inizio è buono. Variopinto. Un dolce pianoforte frustato improvvisamente da basso, chitarra e batteria apre le porte alla title track, che prosegue navigando sulla voce sempre ben modulata di Kyree. È un pezzo in crescendo che, da dolce, lievita fino all’isterismo, per poi trovare nuova calma con il rientro della voce pacificatrice di Kyree. Umorale. È un brano intenso All Day All Night, terza traccia dell’album. Gode di una melodia sofisticata, quasi da salotto buono e di atmosfere da film di David Lynch che non vengono affatto attenuate dalla sospensione rokeggiante a metà brano, che anzi ne accentua il fascino ambiguo ed etereo. Intrigante. Con Rise ci si immerge nuovamente in quella parte fiabesca del progressive rock che tanto bene hanno saputo rappresentare band come Jethro Tull e Genesis. Fuochi d’artificio dietro ogni piega. Felicità e gioia che viene fuori da dita, mani, braccia, ugola e cuore dei ragazzi. Pirotecnica. Landmines è un puntello. È la conferma di quanto sentito fin ora. Una stretta di bulloni. È come se a questo punto gli HPF volessero sottolineare di che pasta sono fatti. Rassicurante. Un riff metal caratterizza la prima parte di Cool Water. Sesto pezzo, siamo a metà dell’opera. Ma non è tutto. Il pezzo segue i tornanti della vena immaginifica dei musicisti e passando da un epico assolo di chitarra, che sembra richiamare le gesta di eroi del passato, si apre ad una conclusione dal gusto sinfonico e marziale per poi ripercorrere i passi iniziali. Fantasiosa. Impressioni di metà album. I ragazzi sono musicisti veri, dotati di buona tecnica che mettono al servizio di una fantasia ed inventiva che li rende decisamente al di sopra della media. Kyree Vibrant è una cantante eccelsa. Ha la capacità dei grandi di saper modulare la voce riuscendo a farla essere sempre parte dell’insieme musicale. Una voce che fa gioco di squadra, ma capace di tocchi da vero fuoriclasse. Andiamo avanti allora. Spin The Girl pare essere un omaggio alle radici est europee di parte dei membri della band. Da quel ritmo sospeso tra steppa e free jazz sembra debbano prendere forma da un momento all’altro cosacchi al galoppo sfrenato nella steppa, guidati dalla spada-voce sguainata di Kyree. Folkloristica. Siamo a Fate, un vero e proprio colpo di classe. Arrangiata con cura maniacale la canzone è bella in tutte le sue parti, dall’accompagnamento di pianoforte all’assolo di chitarra e trascina l’ascoltatore in un’atmosfera da film in bianco e nero. Charmant. L’atmosfera resta affascinante anche nel brano seguente, I Am Lion, con l’aggiunta però di tratti sperimentali e psichedelici che le conferiscono una personalità tutta sua. Peculiare. Proseguendo il filone animalistico si arriva a Wolf, un divertente giro di giostra che rallegra lo spirito di chi ascolta ma anche di chi la esegue. “Crazy song” si sente dire alla fine del pezzo. Sono d’accordo. Spumeggiante. Se ancora ce ne fosse bisogno, Darkness Knew è un’ulteriore conferma di quanto detto nella riflessione di metà album. Tecnica al servizio dell’immaginazione. Qui l’impronta progressive è piuttosto marcata e in alcuni passaggi sembra di risentire i Genesis. Talentuosa. E siamo alla fine. Su The Earth scorrono i titoli di coda e il pezzo sembra essere un compendio di tutto l’album. Un brano che corre a perdifiato, rincorso da tutte le caratteristiche proprie dell’album. Riepilogativo.
Gli Half Past Four con Good Thing, regalano al pubblico un album che sarebbe troppo semplice definire progressive, perché c’è di più. Ma la loro vera grandezza sta nel riuscire a dare così tanto senza strafare, senza canzoni da dodici, tredici, quindici minuti. Il brano più lungo dura sei minuti e trentaquattro secondi, ma ci sono anche pezzi da due o tre minuti. Bravi, penso sull’ultimo vibrare di piatti. Luci in sala, lo show è finito. Il pubblico applaude e lentamente abbandona il teatro. Soddisfatto.