Why Aye Men è una Tribute Band dei Dire Straits che nasce nella Val Bormida, nell’entroterra ligure.
Dura la vita
di chi decide di riproporre l’esistente, anche se la strada appare con meno
ostacoli rispetto a chi presenta brani propri, perché sembra che non ci sia più
il tempo o la voglia per ascoltare e giudicare ciò che ancora non si conosce.
In fondo è
solo questione di obiettivi che, a tavolino, si decidono preventivamente, e
alla fine conterà il talento e la qualità della musica che si riuscirà a
creare. Esistono casi in cui la cover band assume un’immagine propria e riesce
ad eguagliare -a volte superare come gradimento- l’originale, che probabilmente
non esiste più, e quindi resta questo un modo importante per mantenere in vita,
in fase live, ciò che è ormai legato alla storia e alle registrazioni del
passato.
Ci sono casi
clamorosi, come i The Musical Box e i The Watch che interpretano- anche – i
Genesis, o i Big One, capaci di realizzare un incredibile show dei Pink Floyd,
superandoli come visibilità attraverso i filmati su youtube, e in molti casi
alcuni dei protagonisti originali stringono reale amicizia con i loro
prosecutori, dando loro una sorta di patente che li autorizza a continuare con
grande entusiasmo.
Sono arrivato agli Why Aye Men attraverso la conoscenza di Roberto Faccio, attuale batterista, ma
anche valente tecnico del suono e, credo, polistrumentista. Ho scoperto cose numericamente interessanti sul loro seguito-cosa non
facile da avere di questi tempi- e, incuriosito li ho ascoltati, anche se mi
manca l’occasione live.
Niente da
dire dal punto di vista tecnico… senza un know how elevato risulterebbe difficile
proporre brani tutt’altro che semplici,
con la complicazione di una tecnica chitarristica inusuale, così come la
timbrica unica, inventata da Mark Knopfler, e divenuta segno distintivo dell’intera
produzione dei Dire Straits.
Brani
rivisitati nei dettagli e ricerca della completa similitudine mi sembrano i
cardini dei Why
Aye Men, e a giudicare da ciò che ho
visto/sentito, si è raggiunto un buon amalgama, situazione che non si
improvvisa, ma si ottiene col duro lavoro.
Per sapere qualcosa in più sulla
loro filosofia musicale, sulla storia e sui programmi futuri, leggiamo il
pensiero del chitarrista/cantante Luigi Pesce.
E alla prima occasione …
ascoltiamo una loro performance live!
L’INTERVISTA
Come nasce l’idea di realizzare un tributo ai Dire
Straits?
A livello embrionale l’idea saltò fuori a metà del 2008. Ci
trovammo a suonare insieme io, Paolo (il tastierista) e Francesco (il
chitarrista ritmico), proprio un paio di brani dei Dire Straits. Paolo fu il primo
a lanciare l’idea: “Ma lo sai che li
suoni bene i Dire Straits? Non ci starebbe male una band tributo...”, ma io
decisi di “lasciare cadere la cosa” a causa dei troppi altri impegni. Nel
gennaio 2009, durante una nottata in cui fui preda dei deliri della febbre da
influenza, mi tornò alla mente questa “malsana” idea e decisi di approfondire
l’argomento. Contattai quindi il “colpevole” di aver lanciato il sasso e
formammo il primo nucleo del gruppo. Come chitarra ritmica decidemmo di
contattare Francesco (che già conoscevamo) e per il ruolo di bassista decisi di
contattare Franco, un altro amico dei “bei vecchi tempi andati”. Non ci incontravamo da anni... ridiamo ancora
adesso dei deliranti messaggi che gli lasciai nella segreteria telefonica!
Trovare un bravo batterista è stata un’impresa ardua ed ha
richiesto il coinvolgimento di vari musicisti. Ora alla batteria è passato
stabilmente Roberto, che prima ricopriva, da buon polistrumentista, svariati
ruoli a seconda del brano.
Per decisione unanime cominciammo a scegliere anche
brani meno conosciuti ma, per qualche motivo, comunque importanti, sia dei Dire
Straits che di Mark Knopfler come solista.
La line up attuale del gruppo è la seguente:
- Luigi Pesce - Lead Guitar & Voice
- Paolo Bertolissi - Keyboards, Sax and Chorus
- Francesco Pazzaglia - Rhythm Guitar and Chorus
- Franco Cavallo - Bass
- Roberto Faccio - Drums
Che tipo di percorso musicale avete alle spalle?
Siamo tutti piuttosto rodati e tutti, a parte Francesco che è il
più giovane, abbiamo militato in vari gruppi della zona. Io sono passato dal
blues/rock alla musica anni ’60, Paolo faceva parte di un gruppo prog rock che
proponeva brani propri (ma ha anche suonato in varie orchestre e si diletta
anche in serate di pianobar); Franco è passato dal blues allo swing; Roberto si
è dedicato principalmente ai musical, passando con scioltezza dal canto a tutti
gli strumenti che sa suonare; Francesco insegna chitarra a Savona, alla Music
Project Park school.
Nella vostra riproposizione di brani musicali famosi, cercate la
maggior fedeltà possibile rispetto all’originale o preferite dare un tocco
personale?
Solitamente cerchiamo la maggior fedeltà possibile, ma capita di
dover scendere a compromessi e riarrangiare certi brani, sempre nel rispetto
della versione originale o delle varie versioni live. In pratica, se il brano è
riproducibile in modo fedele, facciamo del nostro meglio per rendere il brano
alla perfezione... chi ci ascolta deve chiudere gli occhi e immaginare i Dire
Straits sul palco al posto nostro. Capita però che alcuni brani necessitino di
più strumenti, per cui vengono riadattati alla nostra line up. Le nostre
personalizzazioni riguardano principalmente la creazione di versioni
particolari, prendendo spunto, ad esempio, dall’introduzione di una particolare
versione live, il brano da una versione diversa e la chiusura da un’ulteriore
versione. In ogni caso restiamo il più possibile fedeli alle varie versioni
suonate dai Dire Straits, è una questione di serietà verso il pubblico, che
pretende (giustamente) di ascoltare un live dei Dire Straits.
Ho notato che avete un buon seguito in Val Bormida
e i vostri concerti sono numerosi. Che cosa significa per voi la performance
live? Riuscite sempre a trovare la chiave giusta per entrare in sintonia con
l’audience?
Ogni serata è un’esperienza a sé... difficile prevedere cosa
succederà e come reagirà il pubblico. Ogni scaletta viene preparata in modo da
andare incontro a quella che presumiamo sarà l’inclinazione musicale del
pubblico del locale (o piazza) in cui andremo a suonare; cerchiamo di
accontentare i fan più competenti (proponendo brani meno famosi ma, in certi
casi, anche più interessanti) e le persone che conoscono solo le hit, come Sultans of Swing e Money for Nothing, ad esempio.
Sul palco cerchiamo di divertirci e di divertire chi ci
ascolta... in modo serio e professionale però! Il rispetto verso il gestore e il
pubblico porta sempre ad un esito positivo, che soddisfa un po’ tutti;
riusciamo a convincere anche coloro che, inizialmente, magari erano più
dubbiosi... del resto un tributo ai Dire Straits non si improvvisa, e molti
temono di trovarsi di fronte ad una brutta copia. I complimenti a fine serata
ci confermano che stiamo seguendo la strada giusta.
Facciamo del nostro meglio per proporre un live ad alto livello,
migliorando continuamente la strumentazione e la resa dei brani. È un lavoro
costante che, sul medio lungo periodo, ripaga sicuramente degli sforzi, anche
economici, sostenuti.
Per citare il buon Mark: “siamo
un gruppo di uomini sposati che fa un gran bel gioco di società”.
Spesso si polemizza sul ruolo delle “tribute band”,
a volte in concorrenza con chi fa musica propria. Qual è il vostro pensiero a
tal proposito?
Secondo noi la musica va distinta tra “ben suonata” e “mal
suonata”, indifferentemente dal fatto che si tratti della riproduzione di un
brano scritto da altri o da una propria creazione.
Meglio un gruppo fracassone e disordinato, ma che propone brani
propri o un tributo ben fatto? Meglio un gruppo che esegue magistralmente brani
propri o un tributo mal fatto?
Io mi fermerei ad ascoltare quelli che suonano meglio.
Creare un brano è uno sforzo notevole, ma si può scrivere musica
che si adatti alle nostre esigenze e possibilità; per contro riprodurre
fedelmente un brano esistente ci permette di saltare la fase creativa, ma
aggiunge una notevole fase di studio del brano e delle sue particolarità, alle
quali siamo noi che dobbiamo adeguarci. In pratica c’è un grosso lavoro
comunque. Consideriamo anche il fatto che, quando suona un tributo, il pubblico
è maggiormente esigenze, conosce i brani che stai suonando e si aspetta proprio
quelli, suonati in un certo modo. Mi è capitato l’estate scorsa di assistere al
concerto di un tributo ai Beatles... uno strazio... a metà serata ho sentito
l’esigenza di andarmene; stavano praticamente demolendo l’opera omnia di Paul e
soci.
Allo stato attuale è comunque praticamente impossibile creare
qualcosa di totalmente nuovo... dal Canone di Pachelbel in poi le “citazioni”,
o ispirazioni da qualcosa di scritto precedentemente, sono state la norma.
Avete mai pensato di poter presentare materiale di
vostra realizzazione?
In effetti è un’idea che ci portiamo avanti dalla nascita del
progetto Why Aye Men. Fino ad ora ci è mancato il tempo per impegnarci
seriamente nella creazione di brani nostri, ma qualche buona idea sta cuocendo
a fuoco lento.
Qual è il brano dei D.S. che vi da maggiori
soddisfazioni in fase live?
Difficile rispondere. Da parte nostra cerchiamo di trarre
soddisfazione da ogni brano, ma è vero che in alcuni c’è maggiore interazione
tra i vari componenti, dialoghi tra chitarra e pianoforte, come in Tunnel of
love, oppure tra chitarre, come in Solid
Rock, o tra chitarra e sax, come in Sultans of Swing. Anche brani con
strutture particolari, come Once upon a
time in the west, riescono a darci una certa carica. Dal punto di vista del
pubblico sono principalmente certi brani a strappare l’applauso... Sultans of swing, Tunnel of love, Money for
nothing... ma anche Telegraph road...
dipende da molti fattori... la musica è materia viva e imprevedibile!
Dal punto di vista prettamente tecnico, esiste una
trama musicale che vi ha fatto penare di più per arrivare a proporla con
soddisfazione?
Telegraph road ci ha dato parecchio filo da torcere. Si tratta di
un brano della durata di oltre 14 minuti, che alterna parti movimentate a
momenti tranquilli. Viene suonata live da almeno 6 persone, mentre noi la
proponiamo in 5; devo ammettere che Paolo, il tastierista, fa veramente
l’impossibile... credo che un giorno o l’altro si sdoppierà davanti a noi
durante l’esecuzione del brano...
Ci sono poi brani apparentemente semplici, ma che vanno
affrontati col giusto pathos, soprattutto sul palco, brani d’atmosfera come Private Investigations o Brothers in arms... La concentrazione
deve essere massima, altrimenti il brano sfugge al controllo e son dolori.
Anche in questo caso è una questione di rispetto, verso la musica.
Qual è secondo voi il maggior pregio di Mark
Knopfler, tra tecnica, gusto e innovazione?
Mark ha saputo mescolare diversi generi (blues, rock, country,
folk...) aggiungendo il suo tocco e stile particolare. Il risultato è davvero
stupefacente! È riuscito a creare un genere “Knopfler”, molto singolare e
riconoscibile, passando con scioltezza dal rock al country, dal blues alla
musica scozzese/irlandese. Ha affinato la sua tecnica nel corso degli anni,
mantenendo comunque il suo particolare gusto per la buona musica. Non a caso
compare in moltissime registrazioni di altri artisti: Sting, Randy Newman,
Chieftains, B.B. King, Bob Dylan, Chet Atkins, Van Morrison. È noto anche il
suo impegno sociale (Ferry Aid, spot contro l’alcolismo, contro
l’apartheid...). Credo che un personaggio pubblico vada valutato anche per la
sua statura morale, oltre che per la sua arte.
Che obiettivi vi ponete per l’immediato futuro?
Oltre al continuo perfezionamento e all’evoluzione del
repertorio, abbiamo in programma il superamento dei confini nazionali. Per noi
rimane comunque fondamentale il suonare più possibile, soprattutto a contatto
col pubblico.