Il 15 settembre ha compiuto gli anni Gianni Leone.
Un pò in ritardo pubblico il regalo che lui ha fatto a me (e ora a tutti
il lettori) e non viceversa! Parlo di esperienze musicali
e di vita che solo i protagonisti di quei momenti magici possono tenere accesi.
Grazie Gianni.
1975: fuga dal
progressive - di Gianni Leone (Balletto di Bronzo)
Prefazione al libro di Donato Zoppo di prossima pubblicazione.
Il rock progressivo (o progressive, prog) fu un genere musicale dalla
vita breve ma intensa e rivoluzionaria. Si sviluppò e si esaurì nell’arco
temporale di appena cinque-sei anni. Ciononostante lasciò un segno ben netto e
indelebile nella storia della musica. Si può certamente datarne la nascita
intorno al 1970, anche se i germi di questo genere sono riscontrabili in alcune
produzioni discografiche inglesi fin dalla seconda metà degli Anni 60: basti
pensare ai Procol Harum, ai Nice, persino -secondo alcuni- ai Beatles in
certe atmosfere di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Ebbe anche un
sottogenere denominato “symphonic rock”, in quanto molto ispirato alla musica
classica ma prediligendo l’utilizzo di strumenti moderni come il moog, il
mellotron, l’organo Hammond distorto. A mio avviso, però, il rock sinfonico
spesso era un elemento della miscela di ingredienti che costituivano l’ossatura
e l’identità stessa del progressive. I giornalisti italiani -chissà mai perché-
coniarono per questo genere musicale la definizione “pop italiano”, totalmente
inappropriata e fuorviante. Stranezze tutte italiche… Erano gli anni in cui
gruppi come Yes, Genesis, Emerson Lake and Palmer, King Crimson, Jethro Tull,
solo per citarne alcuni, davano davvero il meglio di sé. Io li vidi quasi tutti
dal vivo nel periodo del loro massimo splendore nei pochi spazi allora
disponibili, come il Teatro Brancaccio o il Palasport di Roma, nonostante la
proverbiale acustica pessima di quel luogo, ma non c’era altra scelta. Ogni
nuovo album che producevano era assolutamente coinvolgente, appassionante,
emozionante, rivoluzionario, una vera miniera di virtuosismi tecnici e di
invenzioni sonore da cui attingere, a cui ispirarsi. Ma non c’erano solo i
grandi gruppi, i più noti, i più celebrati. Conservo ancora un disco in vinile,
dai solchi ormai consunti per l’uso, che all’epoca acquistai in un primo
momento solo per l’inquietante copertina (non a caso realizzata dalla
Hipgnosis…) raffigurante degli pterodattili volanti fra grattacieli
ultramoderni e che, dopo averlo ascoltato, mi entusiasmò in modo folgorante:
l’album dei Quatermass –l’unico che realizzarono, datato 1970- di certo uno dei
migliori dischi di prog di quel periodo, forse addirittura di tutti i tempi.
Poi, quasi senza che me ne rendessi conto razionalmente, già prima del 1975
cominciai ad allontanarmi dal prog. Sempre più spesso, infatti, perfino i nuovi
lavori di gruppi un tempo gloriosi mi apparivano ed effettivamente lo erano-
pesanti, pretenziosi ogni oltre limite di sopportazione, ripetitivi, seriosi e,
soprattutto, dalle sonorità terribilmente datate, finché lasciai il progressive
definitivamente alle mie spalle. Poi in Italia accadde un fenomeno
sconcertante: i ragazzi cominciarono a pretendere di non voler più pagare per
assistere ai concerti. Ci furono grandi contestazioni. Una per tutte: il
concerto di Lou Reed al Palasport di Roma il 15 febbraio del 1975. Poco dopo
l’inizio dell’esibizione, la polizia irruppe all’interno e cominciò a lanciare
fumogeni e gas lacrimogeni indiscriminatamente. Io ero fra i paganti
naturalmente, ciononostante fui trascinato dalla calca umana impazzita verso
l’esterno e mi ritrovai nel bel mezzo di una vera e propria guerriglia urbana
violentissima. Fine del concerto. La conseguenza? Da quel momento tutti gli
artisti stranieri diedero precise disposizioni ai loro promoters affinché
evitassero in modo categorico di fissare date in Italia durante i loro tour.
Fine anche della musica. Si sciolsero un’infinità di gruppi. Nessuno osò più
nemmeno pronunciare la parola rock. Cominciò un periodo triste e buio. Partii per Londra e New York. Era, appunto,
il 1975. Negli anni immediatamente successivi ci tornai ancora. Mi trovai nel
bel mezzo della nascita di due generi musicali che al momento sottovalutai, la
disco music e il punk, anzi, nel caso della disco music, addirittura
disprezzai, salvo poi rivalutarla per certi versi. Passavo con estrema
disinvoltura da serate al Sombrero’s in Kensington High Street
-gloriosa Gay Discodove potevi incontrare Brian Ferry o David Bowie- ai
concerti punk nei posti più improbabili. Per esempio, a quello di un gruppo che
stava nascendo proprio in quel periodo: i Sex Pistols. Questo aneddoto va
raccontato. A Londra abitavo in una traversa di King’s Road, al 34 Meek Street
off Lots Road, proprio a due passi dalla boutique SEX di Vivienne
Westwood e Malcom McLaren situata, appunto, al 430 King's Road. Un pomeriggio
umido e freddo passai, come facevo spesso, in negozio. Era il 14 novembre del
1976. Nonostante fosse domenica, era aperto. In un angolo vidi Johnny Rotten
buttato su un mucchio di cuscini, solo e taciturno. Un juke-box d’annata urlava
a volume altissimo brani di rock’n roll Anni 50. Attorno a noi, stand
carichi di abiti fetish in latex e pelle nera borchiata. La
direttrice, l’ineffabile Jordan, mi rivelò che quella sera i Sex Pistols si
sarebbero esibiti in un posto non meglio identificato in Leicester Square a
Soho, ma erano stati avvertiti a voce solo i fans più intimi. Ci andai anch’io.
Quello fu il mio primo concerto punk. Fu un’esperienza molto eccitante. Sebbene
quel tipo di musica non richiedesse un talento artistico particolare o doti
tecniche (anzi!), l’energia rabbiosa che sprigionava era irresistibile. C’era
tutta le scena punk londinese. Successe qualunque cosa: risse, sputi, vomito,
ma soprattutto riuscii a sopravvivere agli ininterrotti lanci di bottiglie che
mi sibilavano ai lati della testa durante tutto il concerto, lanciate dal fondo
della sala verso il palco.
Anche a New York passavo indifferentemente da serate allo Studio 54, dove
potevo ballare tutta la notte sui ritmi della più scintillante
disco music del momento-quella che ti dava energie positive, che ti faceva
sentire irresistibilmente desiderabile agli occhi di chi sarebbe stata la tua
preda di turno per quella notte (in tempi pre-AIDS la regola era il sesso
occasionale e spensierato)- ai concerti di gruppi punk e new wave al CBGB,
leggendario e oggi purtroppo non più esistente locale al numero 315 della
malfamata Bowery oppure al Max's Kansas City al 216 Park Avenue South,
anch'esso poi chiuso nel 1981. Mi trovai proprio al CBGB una delle sere in cui
Brian Eno stava selezionando e registrando le bands che poi sarebbero apparse
nell’album-manifesto No New York, pubblicato nel 1978: Contortions,
Mars, D.N.A., Lydia Lunch and Teenage Jesus & the Jerks, esponenti
della nascente no wave. Sere prima avevo assistito all’esibizione dei Dead
Boys, il cui climax fu quando il cantante Stiv Bators tentò d’impiccarsi col
filo del microfono a fine concerto (Bators è poi morto per un incidente nel
1990). Ricordo che una notte il chitarrista Neon Leon, Syl Sylvain delle New
York Dolls e io stavamo parlottando proprio davanti al CBGB durante
l'intervallo fra un set e l'altro quando da un'auto che passava di corsa dei
teppisti ci lanciarono una bomba che, dopo essere
fortunatamente rimbalzata sul ciglio del marciapiede, esplose sotto
un'auto parcheggiata lasciandoci illesi. Nessuno di noi si scompose più di
tanto. "Just assholes...", commentò Leon. E riprendemmo a parlare.
In quegli anni ero anche un instancabile frequentatore di discoteche, in
qualsiasi parte del mondo mi trovassi. Intendiamoci, la disco music che a me
piaceva era quella suonata da artisti come gli O’Jays, gli Chic, i
Blue Notes, Barry White, A Taste of Honey, Sylvester, Diana Ross, Sister
Sledge (non a caso per un periodo prodotte proprio da Nile Rodgers e Bernard
Edwards degli Chic e successivamente da Narada Michael Walden), alcune
produzioni di Giorgio Moroder, non certo quella fatta da NON-musicisti o da
semplici dj incapaci di programmare bene perfino la drum machine o quella delle
canzonette leggerine e commerciali più note, beninteso!...
Poi nell’autunno del 1979 mi trasferii per un periodo di quasi
un anno e mezzo a Los Angeles, frequentando anche lì gli ambienti artistici più
disparati. Uno dei miei più cari amici, anzi, certamente il mio più caro amico
-per il quale scrissi anche alcune canzoni (apparse poi nel film di René
Daalder ”Population:One”)- era Tomata du Plenty degli Screamers, il gruppo
più cult della new wave californiana. Tomata e io
spesso amavamo frequentare i posti più antitetici fra loro: dai
piano-bar per vecchi signori alle balere latino americane con spettacolo di
drag queens, dagli scalcinati mercatini dell’usato ai lussuosi negozi di
Beverly Hills, dalle discoteche gay più patinate ai localacci sadomaso più
malfamati. E poi parties e ancora parties. Una sera andammo al
concerto dei Manhattan Transfer al Figaro Café di Pasadena. Poi Tim Hauser,
Tomata e io passammo qualche ora assieme a casa mia parlando di musica.
Un’altra sera andammo in un localino a vedere le simpaticissime Go-Go’s, che
solo un anno più tardi sarebbero letteralmente esplose raggiungendo il primo
posto nelle classifiche americane con l’album“Beauty and the Beat”.
Un’altra sera ancora andammo ad assistere a uno degli spettacoli truculenti
della performance artist Johanna Went, la quale fra l’altro, molto
altro- amava lanciare sul pubblico interiora sanguinolente di animali
e gatti morti raccolti per strada e tenuti nel congelatore di casa, oppure
tirava lunghi nastri colorati fuori dalle narici di teste mozzate di maiale
fresche di macello, il tutto fra urla e lamenti strazianti al microfono o al
megafono. Volli conoscere Johanna, per cui la invitammo alla grande
festa per il mio compleanno che avrei dato a casa pochi giorni dopo, il 15
settembre. Io abitavo al Trianon, al 1759 North Serrano Avenue all’angolo
con Hollywood Boulevard, appartamento 402, già dimora delle stelle del cinema
muto Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Per raccontare cosa poi successe al mio
party - conclusosi con l'arrivo della polizia e di un'ambulanza in piena notte
- ci vorrebbe un capitolo a parte, per cui desisto e vado oltre.
Che persona straordinaria era Tomata! Dotato di un senso
dell’umorismo e di un talento artistico davvero rari, anzi unici. Io lo vedevo
un pò come una specie di ibrido fra Iggy Pop e Topo Gigio e lui si divertiva
molto quando glielo dicevo. Purtroppo Tomata è morto il 21 agosto del 2000.
Con l’arrivo degli Anni 80 la disco music evolse in dance music e
successivamente in house music con tutte le infinite varianti. L’uso massivo
della drum machine e del synth bass cambiò radicalmente il modo di concepire la
ritmica, che divenne più incisiva, essenziale, efficace. Naturalmente, per fare
le cose come si deve, questi nuovi strumenti andavano programmati e suonati da
un signor musicista e non da un cretinetto qualsiasi. I batteristi, prima di
tutti, dovettero prendere atto di questa nuova realtà e furono costretti a
rivedere alcuni aspetti della tecnica batteristica e del loro stile musicale.
Una curiosità: inconsapevolmente fui proprio io ad anticipare l’uso del synth,
nella fattispecie il minimoog, per suonare la linea di basso: lo feci nel
brano Terzo incontro ed epilogo nell’album Ys del 72.
Scoprii e apprezzai gruppi come la SOS Band... Talvolta anche
artisti molto lontani da questo genere si cimentavano con successo in
produzioni perfette per le discoteche: basti pensare agli Earth Wind &
Fire, ai Kraftwerk e perfino a Herbie Hancock con Rock it, il cui video,
fra l’altro, lo considero uno dei più inquietanti dell’intera storia degli
audiovisivi.
In tutto questo, chi pensava più al prog? Per me ormai era un genere
morto e sepolto con tutte le sue ridondanze, le sue anacronistiche ampollosità.
A pensarci bene, il momento in cui cominciai ad allontanarmi da questo genere
musicale fu quando, nel settembre del 1973, lasciai definitivamente il casale
di Rimini dove avevo vissuto gli anni più folli e sconvolgenti con il Balletto
di Bronzo per trasferirmi a Roma e cominciare la carriera solistica. Meno di un
paio di anni più tardi, l’avevo ormai lasciato alle mie spalle senza rimpianti.
Fu solo verso la metà degli Anni ’90 che ricominciai a considerarlo. Riascoltai
alcuni dischi dell’epoca, compreso Ys naturalmente, e realizzai che
in fondo quel genere musicale poteva ancora emozionarmi, e molto; ma
andavano riviste, rivoluzionate e corrette alcune cosucce, prime fra tutte la
concezione ritmica e l’eliminazione di tutti gli inutili barocchismi. Non si
poteva più suonare come nel 1973: la tecnica, la tecnologia erano cambiate. E
ci eravamo evoluti anche noi musicisti, fortunatamente. Il rischio era di
ritrovarsi a fare la caricatura di se stessi, apparire come dei patetici
sopravvissuti. Un pò triste, no? Mi resi conto che fosse necessario, anzi
doveroso mantenere la purezza dell’ispirazione iniziale, ma reinterpretarla in
relazione al presente, facendo attenzione al tempo stesso a non tradire il
passato o travisarne l’identità. Non a caso, proprio quando verso la metà degli
Anni 70 il progressive cominciò ad accartocciarsi su se stesso raggiungendo
livelli di pretenziosità e seriosità insopportabili, come reazione la musica
virò verso generi tecnicamente elementari (il punk, fatto di quattro accordi) e
ritmicamente quadrati e ballabili (la disco music, con la famosa cassa in 4,
all’inizio da me alquanto detestata a dire il vero). Signori, nulla di nuovo
dopotutto: è l’eterna legge dei corsi e ricorsi storici, costantemente in
antitesi fra loro. Mi colpì molto positivamente l’apprendere che il
progressive, in special modo proprio quello ITALIANO, era ed è tuttora molto ben
considerato nel mondo intero. E’ un genere a sé, con una sua precisa
fisionomia. Chi l’avrebbe mai immaginato che noi, ragazzini italiani tagliati
fuori da tutto, in quei primi Anni 70, fra una Canzonissima e un Festival di
Sanremo che ci massacravano impietosamente, saremmo stati capaci di elaborare
un genere musicale riconoscibile e con una sua identità, in grado di competere
con fenomeni artistici e culturali a livello internazionale?
Gianni Leone