Crime of the Rhyme è il secondo album di Marcello Chiaraluce, musicista alessandrino e
virtuoso della chitarra.
Sottolineo il talento applicato alla passione, perché la prima volta in
cui lo vidi all’opera - ed era giovanissimo - i suoi compagni di palco erano stellari:
era il 2006, e a Novi Ligure era di scena una buona fetta storia del rock, tra
nuovi e vecchi Jethro Tull presenti alla Convention. Mi colpì in particolare un
attimo che riuscii - maldestramente - a immortalare, quello in cui l’assolo di Aqualung vide una strettissima
interazione tra Marcello e Ian Anderson, con una disinvoltura del
primo - magari apparente, vista la sicura emozione - che mi portò
spontaneamente a fargli i complimenti, a fine concerto.
Da quel giorno è passata molta acqua sotto ai ponti, e il cammino è
proseguito, tra Beggar’s Farm e band autonoma, con la possibilità di toccare con
mano il gotha del rock, italiano ed internazionale, laddove il “toccare” ha il
senso della condivisione alla pari di un palco, spesso, di estremo valore.
Ma le vie da percorrere, per tutti i musicisti, sono sempre molteplici, e
il progetto “solo” è l’unico che può garantire l’espressione personale, senza i
normali condizionamenti che sono alla base del “mettersi al servizio”.
L’autarchismo musicale è anche sinonimo di maturità e di necessità di
rischiare in proprio: voglia di assumersi responsabilità, di prendere in mano
le redini di un’organizzazione, guidando un team che si è scelto, tra
sentimenti e razionalità.
Chiunque si fosse trovato a Novi Ligure quel giorno di settembre - mi
pare il 24 - del 2006, e avesse poi avuto l’opportunità di seguire l’evoluzione
concertistica della Beggar’s, di cui Marcello faceva parte, si sarebbe fatto
l’idea di un musicista dedito alla Musica Progressiva, intesa come principale amore musicale tra i tanti disponibili e seguiti.
A giudicare da questo “Crime of the
Rhyme” - ma anche dall’album precedente - l’anima di Marcello Chiaraluce è
innanzitutto rock, famiglia ampia in cui possiamo trovare differenti
sfaccettature.
Mi piace sottolineare - ed è oggetto dell’intervista - come nel nuovo
disco il talento chitarristico non sia l’oggetto principale su cui basare il
tema generale, ma solo uno degli elementi che fanno parte di un disegno
superiore, nella ricerca di un’armonia produttiva che permette di rivolgersi ad
un pubblico ampio e non alla nicchia.
Tutto questo potrebbe essere un preciso goal, una legittima pianificazione
a tavolino, ma ciò che invece è assolutamente spontaneo è il contenitore,
costituito da dieci tracce che dimostrano quale sia il volto dell’autore, in
buona oscillazione tra il rock, il pop, il blues, con qualche souvenir legato a
certa spensieratezza californiana che riporta indietro nel tempo.
Non c’è brano che non resti intrappolato nella testa, non c’è ritmo che
non solleciti un dejà vu, con un passaggio frequente tra “durezza e ballad”,
gradevole per ogni tipo di palato.
La voce è condivisa con Serena
Torti e le liriche sono in lingua inglese (tranne la conclusiva “Solo Me”, versione italiana di “Me and my Bag”).
Apprezzabile l’applicazione e il miglioramento della dizione english, nota
dolente per qualsiasi italiano si voglia cimentare con la lingua di Albione.
Il resto della band è per me
familiare: Oltre alla già citata Serena
Torti alla voce, Luca Grosso
alla batteria, Kenny Valle alle
tastiere e Daniele Piglione al basso.
In più una serie di ospiti,
comprensivi di un quartetto di fiati, il Nassau
Horns Quartet.
Un album piacevole, scorrevole,
afferrabile all’impatto, e sicuramente vincente dal vivo, momento in cui è
possibile lasciare spazio alle variazioni sul tema e al coinvolgimento.
La strada sembra quella giusta, resa agevole da un rinnovato ottimismo.
Anche quando si è molto giovani
arrivano momenti dal forte sapore simbolico, dove piccoli segnali propongono l’immagine
del “punto e a capo”… la direzione e il verso diventano improvvisamente chiari
e il percorso pieno di luce. E mi verrebbe da dire...nomen omen!
L’INTERVISTA
Riepiloghiamo, che cosa ti è accaduto, restando nel campo della musica, nel
periodo che va dall’uscita di “On a
winter walk” (2007) sino ad oggi, giorni in cui nasce “Crime of the Rhyme”?
“On a winter walk” nasceva dall’esigenza
di concludere finalmente qualcosa di reale. Ero sempre arrivato ad un passo
dalla realizzazione di un album, poi le formazioni si dividevano, perdevano
entusiasmo e io rimanevo con in mano un pugno di mosche. “Crime” invece è la naturale continuazione e il consolidamento del
mio nuovo progetto solista. Ne registrai una prima versione l’anno successivo a
OAWW (2008), ma non ne ero soddisfatto e seguì un periodo di abbandono/depressione
artistica fino a che non trovai la giusta formazione per lavorare all’album con
una chiave diversa. In mezzo ci sono stati molto concerti e impegni con i
Beggar’s Farm che hanno vissuto il loro vero periodo d’oro.
Raccontami qualcosa della tua nuova etichetta e del motivo per cui hai
deciso di diventare musicalmente autarchico.
Circa tre anni fa
organizzai un Festival sulla chitarra Pop, Rock, Blues intitolato GUIT-AL,
gioco di parole tra GUITAR e AL che è la targa di Alessandria, la città in cui
vivo. Visto il successo dell’evento, che apriva le porte soprattutto a coloro
che proponevano brani originali, mi sono detto… perché non estendere questo
marchio anche alla discografia, cominciando dalle mie produzione e legarlo in
futuro al fermento della mia città che è più interessante di quello che possa
sembrare?
Come hai modificato la line up?
In un progetto
solista la cosa più difficile è fare affezionare i musicisti alle canzoni
facendo in modo che le sentano proprie. Spesso le persone intravedono un
possibile successo, o ti usano da trampolino per situazioni più remunerative.
Quando trovi le persone giuste che credono come te in quello che fanno allora
lì, senti scattare una marcia lavorativa diversa, e a quel punto è il momento
di entrare in studio. Purtroppo in così tanti anni nemmeno i migliori matrimoni
reggono, perciò qualche elemento lo perdi per strada. “Crime” è partito dall’idea di mettere su disco ciò che avrebbe
suonato una band dal vivo senza rimaneggiare troppo e così è stato. Rispetto a
OAWW in cui mi sono avvalso di session men, in “Crime” abbiamo suonato i brani dal vivo per diversi concerti con
una formazione stabile e poi siamo entrati in studio con le parti calde!
La musica che proponi in questo nuovo disco mi appare come molto
trasversale, tra generi e sonorità variegate, capace di spaziare in lungo e in
largo tra le differenti epoche: sono fuori strada?
No ... anzi, il
disco è diviso in metà, tra una proposta più POP e una decisamente più Indie e
sperimentale! E’ colpa del mio eclettismo musicale. Ascolto da Elton John ai
Megadeth passando per i Genesis e Bob Marley… ultimamente anche Mozart e
Stravinsky… come posso decidermi, se mi piace tutta la musica bella? E come
faccio a non farmi influenzare… non lo so. Infatti i miei dischi vanno presi
per quello che sono, tante stanze dalle quali si entra e si esce senza sapere
esattamente dove si sta andando.
Sei un virtuoso della chitarra, ma mi pare che nell’album sia forte
l’intento di rendere il tuo strumento parte “dell’orchestra”, al servizio di un
obiettivo più ampio della dimostrazione di bravura. Anche in questo caso chiedo
il tuo aiuto.
Sono contento che
sia arrivato questo intento. E’ un album di canzoni e non di un chitarrista.
Volevo guardare la mia musica dalla prospettiva delle mie orecchie e non delle
mie dita. La bravura, se vogliamo chiamarla poco umilmente così, è anche la
capacità di fare un passo indietro in funzione del prodotto generale.
Che cosa lega i vari brani tra di loro? Esiste un legame concettuale?
“Crime of the Rhyme” è il risultato di un incontro con una persona
che mi ha trascinato nella parte più edonistica della mia esistenza. Dormivo
poco e vivevo molto, a volte anche con frange estreme che toccavano il
decadentismo. Il filo conduttore è il dualismo tra autoconservazione e
autodistruzione.
Riesci a comparare “Crime of the
Rhyme” con le tue creazioni precedenti?
Rispetto a OAWW, “Crime”
è un disco apparentemente più frivolo, dove la frivolezza non deve essere
intesa come un difetto, ma come sinonimo di leggerezza di intenti. Rispetto ai
dischi con gli Interra Straniera, il gruppo con il quale iniziai la mia
carriera discografica nel 2001, il rapporto è ancora più ampio, dunque sarebbero
incomparabili. Sicuramente in questo disco avevo le idee più chiare e la band
aveva un “suo suono”; il risultato a mio parere supera qualunque cosa io abbia
prodotto precedentemente. In questo disco inoltre mi sono avvalso della
collaborazione di Ermello “Lello” Calorio, grande appassionato di musica e
residente a Londra da circa vent’anni anni, credo. Ha curato i testi e la
pronuncia con un entusiasmo tale che si è creato un rapporto di collaborazione
importante. Diciamo che con “Crime”
non sono più da solo, ho perso molti compagni, ma quelli che sono rimasti ora
formano con me una squadra importante e affiatata, come Luca Grosso, il
batterista e Claudio Cattero, l’ingegnere del suono.
Che cosa ti soddisfa di più a questo punto del percorso: il live? La
composizione? L’interpretazione? L’organizzazione e il pieno controllo del
progetto?
Eh… è come
chiedermi, cosa ti piace di più della donna che ami? Portarla a cena, vederla
muoversi per casa, sentirle dire che ti ama o farci l’amore? Ho bisogno di tutte
le fasi che hai descritto sopra. Il live è il cuore, la composizione la testa,
l’interpretazione è la pelle e l’organizzazione sono gli occhi con cui cerco di
guardare da fuori il risultato finale.
Nove brani in inglese ed uno solo, “Solo me”, in italiano: non voglio
certo entrare nel personale, ma… trattasi di necessità di estrema chiarezza?
Si evince con
facilità che “Solo Me” è la versione
italiana di “Me and my Bag”, altra
traccia contenuta nell’album. Durante la produzione e l’incontro con vari
produttori, mi consigliarono di proporre versioni in italiano di alcuni brani.
Lavorandoci sopra “Solo Me” era
l’unica che mi convincesse davvero, inoltre l’apporto di Max “Big Harp” è stato
talmente geniale e brillante che non potevo esimermi da inserirla nell’album.
Rispetto agli altri brani, il testo di “Solo
Me” è stato scritto più recentemente e rappresentava meglio il mio stato
d’animo più riflessivo e pacato rispetto agli altri brani del disco.
Ed ora cosa potrebbe accadere a Marcello Chiaraluce e alla sua band?
Ti anticipo che
Marcello Chiaraluce ha già registrato parte del suo nuovo album, il terzo, e
sta continuando a suonare live con un progetto in trio che spacca. Dopo alcuni
lavori che prevedevano addirittura l’Orchestra Sinfonica, ci siamo guardati in
faccia e di riflesso ci siamo detti “qui
bisogna tornare a menare come dei fabbri”, e così, rifuggendo orpelli e
barocchismi, siamo tornati alla figura geometrica più semplice… il triangolo.
Non amoroso però… non siamo così legati! Oltre a questo progetto, stiamo
promuovendo anche Crime con un’ottima formazione live e sto terminando addirittura
un’opera lirica che andrà in scena l’anno prossimo. Non riesco mica a stare
fermo!