mercoledì 11 giugno 2014

"Freak: odio il brodo”, di Roberto Manfredi


Roberto “Freak" Antoni se ne è andato da poco, ma dalle reazioni percepite nella quotidiana vita di rete, appare palese che il segno lasciato è di quelli indelebili. Trattandosi - anche - di musicista, mi viene spontaneo pensare ad un vinile comprato negli anni ’70, naturalmente modificato dal tempo passato e dagli ascolti molteplici, con solchi insanabili provocati da imperfette “puntine”, ma tutt’ora pronto a girare secondo i nostri desideri, e ad ogni rotazione il piccolo e fastidioso salto ci ricorderà la bellezza di momenti irripetibili.
Arriva rapidamente la testimonianza di Roberto Manfredi, che ci regala l’e-book “Freak: odio il brodo”, pubblicato dalla casa editrice digitale indipendente Wannaboo.
Non credo sia il caso di pubblicare una biografia dell’autore, personaggio importante del mondo musicale/discografico/televisivo, ma sarà lui stesso a parlare attraverso l’intervista a seguire, che permette di sintetizzare le peculiarità di Freak, ma anche di sottolineare alcune idee personali, spesso critiche, maturate vivendo dall’interno il fenomeno del mercato, tra arte e businnes.
La picture che emerge dalla lettura mi pare abbastanza precisa, e anche se le possibili interpretazioni possono indirizzare verso differenti tracciati la risultante sarà sempre la stessa; c’è da dire che quando non si conosce direttamente il personaggio di cui si vuol parlare occorre estrarre disegni forniti da interposta persona. In questo caso Manfredi, ed è un grande aiuto.
Utilizzo spesso un’immagine, trovata in rete, che ho assunto come simbolo del cambiamento: due contenitori uguali, il primo carico di acqua e pesciolini rossi e il secondo con il solo liquido. Tra le due vasche, in volo, un altro pesce, pronto a saltare da un posto all’altro, forse obbligato o magari spinto dalla visione di nuovi orizzonti, in fuga dal sicuro alla ricerca dell’ignoto, in transizione tra folla e assoluto vuoto, almeno momentaneo. Una sola cosa è certa, occorrerà far presto, perché senz’acqua non si può vivere.
L’anticonformismo di Freak ha a che fare con la voglia di cambiamento continuo e di innovazione, con il bisogno di proporre l’arte sotto ottiche diverse, non facilmente comprensibili, un po’ settoriali ma non snob.
Un uomo geniale, in grado di stupire chiunque - l’introduzione di Patrizio Fariselli mi pare un buon esempio - in continua antitesi con il sistema, non per il gusto di essere a tutti i costi “contro”, ma piuttosto per seguire una via fatta di coerenza, di applicazione e arte pura.
Il Punk, la rottura di ogni schema, gli Skiantos… chiunque si accertasse della loro catalogazione di genere troverebbe la seguente definizione, “Rock Demenziale”, un’etichetta appiccicata anche all’ultimo loro album - 2009 -  “Dio ci deve delle spiegazioni”.
Roberto Manfredi corre in aiuto del lettore spiegando come sia in realtà profondo il pensiero che si cela dietro all’ironia del titolo, una ricerca tesa alla scoperta di quel mistero capace di condizionarci, a fasi alterne, dal momento in cui riusciamo a far crescere i nostri pensieri sino alla fine dei nostri giorni: il senso della vita.
Nell’immaginario comune questa forte spiritualità, questa attenzione per gli aspetti trascendenti,  non era palese, molto meglio collocare, lui e i suoi "amici", nella nicchia precostituita.
Autore del book e protagonista si conoscono negli anni ’90 e la loro amicizia - e stima reciproca - non conoscerà momenti di crisi, e questa profonda e intima corrispondenza di idee e sentimenti ha permesso a Manfredi di visualizzare possibili vite vissute precedentemente, figure artistiche e di alto sapere, allineate al pensiero di Freak, situazioni che per lui, da lassù, risulteranno vere chicche.
Eppure… traspare un discreta delusione, che nessuna filosofia di vita può controbilanciare, e di questo faccio accenno nello scambio di battute con Roberto Manfredi.
L’impressione è quella che, se su molte cose si può passar oltre senza grandi scossoni, su altre la frustrazione sale e non fa sconti.
L’impossibilità di partecipare al Festival di Sanremo, ad esempio, è qualcosa che supera il mero incidente di percorso. Contraddittorio pensare - ho annotato io - che quello fosse un obiettivo “alla Freak”. Errore - mi risponde Manfredi - perchè la contraddizione  è da attribuire a quel sistema malato, gestito con la logica che normalmente vige nel nostro paese, e lui, se accettato, avrebbe potuto rappresentare se stesso, ovvero un modello diverso dallo standard, una sorta di cavallo di troia, probabilmente pericoloso per il sistema.
E cosa avrebbe mai potuto fare Freak se fosse stato assunto ad X Factor (ruolo poi affibbiato a Elio)? Sarebbe stato libero di scegliere o incatenato al ruolo di burattino?
Avrebbe potuto estrarre dal quel “brodo tanto odiato”, una fantastica “soupe francaise”?
Non resta che leggere per sorridere e riflettere, partendo dalla “Felice Lichene” descritta da Fariselli (e proposta a fine articolo), per poi passare a tutti i risvolti messi a fuoco magistralmente da Roberto Manfredi.
A quelli come me, che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, non resta che attendere, magari indagare, nella speranza di trovare sul percorso di vita un altro genio un po’ fuori dagli schemi, come Frank Zappa, Carmelo Bene, John Cage, o magari con nome meno altisonante… non sarà poi un titolo, un soprannome, uno stato sociale,  a dirci se Freak è tornato tra noi!



Quattro chiacchiere con Roberto Manfredi…

L’impressione che ho avuto leggendo le vicende di Freak è quella che, a dispetto del suo saper prendere la vita nel modo giusto, la frustrazione - da cui nessuno è immune - abbia avuto un discreto peso: vista la vostra stretta conoscenza, lo potresti considerare un uomo che ha vissuto mediamente felice?
Sì. Non c’è dubbio che Freak sia riuscito a fare quello che voleva. Era felice come tutti gli artisti che riescono a diffondere e a comunicare un pensiero, una filosofia, una pratica artistica fuori dal comune e dal convenzionale. La frustrazione nasce dal fatto che un paese come l’Italia rinneghi la sua storia, annegando spesso nel brodo conformista. Non a caso  il motto di Freak più conosciuto è : “Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti”.

Consideriamo il suo anticonformismo e il suo modo alternativo di porsi, di non sempre facile accettazione: è possibile dare una valutazione nel tempo, una sorta di evoluzione delle reazioni da parte dell’audience?
Rispondo con un altro motto di Freak: “La storia ci darà ragione”. Freak era ed è tuttora un artista molto amato. Lo show business lo considerava un artista “di nicchia” ma lui , come spesso mi ha confessato “tendeva al tabernacolo”. Freak è parte della storia dello spettacolo italiano. In lui convivevano molte vite, dai dadaisti agli artisti futuristi come Rodolfo De Angelis. Adorava Ettore Petrolini, Pippo Starnazza, il quartetto Radar, Fred Buscaglione, I Brutos… tutti gli autori che hanno usato l’ironia e la trasgressione nell’arte e nella canzone italiana.

Il vostro rapporto appare di grande affetto ed estrema stima (reciproca): aveva qualche difetto evidente?
Diciamo che le sue qualità erano più superiori ai suoi difetti, ma a pensarci bene, non ne ricordo uno, né come artista né come uomo. Era una persona estremamente educata e gentile, di stampo quasi anglosassone. Aveva stile, cultura, eleganza anche quando urlava al pubblico “ Pubblico di merda”. Forse il suo difetto più grande è stato quello di pensare a un’Italia migliore di quello che è. Ma non lo considero un difetto. Era una speranza, un sogno, una missione.

Se dovessi scegliere alcune cose che Freak ha lasciato come significativa eredità alla comunità, che cosa ricorderesti?
Freak ci ha insegnato che la creatività e l’espressione artistica in genere non va considerata un prodotto di largo consumo, ma qualcosa di profondamente più alto che quando raggiunge l’apice va oltre a qualsiasi logica commerciale. Ha dimostrato come l’accademismo musicale sia inutile e stantio. A un discografico che gli disse : “I dischi sono come saponette”, rispose “ Sì, ma le saponette, bisogna farle bene”. 

Un episodio come quello legato alle manfrine di Gianni Morandi (e a chi tirava i suoi fili) in occasione dell’ultimo rifiuto al Festival di Sanremo, sono la conferma dei tanti sospetti che da sempre circolano e che qualcuno fa passare per leggende metropolitane: non fu questa una grande ferita che rimase aperta? Non vedi contraddizione nel cercare a tutti i costi di esprimersi in un contesto molto più legato allo standard, adatto, ad esempio, agli “odiati” Pooh?
Freak ha cercato di andare tre volte al Festival di Sanremo. Voleva andarci con la sua identità e libertà artistica. La seconda volta presentò una canzone contro il “giovanilismo”. La commissione la bocciò con la seguente motivazione: “Non si può presentare al Festival una canzone contro i giovani”. Non avevano capito un cazzo, ovviamente. L’ultima volta andò ancora peggio, perché la sua partecipazione era vincolata a un big. Come dire…”dato che sei uno di nicchia, portati con te uno importante, così gli fai da spalla”. Proposta indecente, arrogante e offensiva. Non si invita una persona a cena solo se viene accompagnato da un vip. La contraddizione non è di Freak, quanto di quell’odioso apparato miliardario che è il Festival di Sanremo. Un apparato costruito da funzionari compiacenti, servi di regime,  faccendieri di ogni risma e discografici falliti. Sanremo è come Miss Italia, i brogli alle elezioni, i televoti truccati, gli scandali e gli appalti mafiosi. Tutti ingredienti di quel brodo grasso e andato a male, che Freak, giustamente odiava.

Approfitto della tua esperienza: come è cambiato l’ambiente della Musica dai tuoi esordi sino ad oggi?
L’ambiente è cambiato in peggio. Si è deteriorato fino al fallimento. Io ho avuto la fortuna di conoscere e di lavorare con discografici come Nanni Ricordi, Gianni Sassi, Tony Casetta, Claudio Fabi… tutta gente che conosceva lo spettacolo e la musica e aveva un gran fiuto per riconoscere il talento altrui. Nella discografia attuale è scomparsa la figura del direttore artistico. Oggi decide il marketing che di artistico non ha nulla. Resistono ancora delle piccole riserve indiane… alcune etichette indipendenti, singoli promoter e produttori che non esito a definire eroi. Siamo tribù indiane che vivono nelle riserve, lanciando frecce acuminate verso i visi pallidi del pop, i nuovi colonialisti giovanilisti che mostrano il culo in faccia a teen-agers intossicati da cazzate. Le loro divise sono il nudo, le mutande in vista, le loro faccine da bravi ragazzi vendute alla pubblicità. I vincitori dei talent show canori finiscono in pasta ai prodotti del Supermarket. Vedere quel gruppetto hip hop, chiamato I moderni, fare le telepromozioni a Mac Donalds mi ha dato il voltastomaco. Questo è il nuovo scenario. Uno tsunami di idiozie inutili che con la musica non hanno niente a che fare.

Ho provato ad immaginare la scena in cui gli Skiantos si prepararono la tavola sul palco, anziché suonare, con le conseguenze del caso: non pensi che per interagire con questa forma espressiva, così come con quella di Cage o Bene, occorra una buona preparazione all’evento?

La preparazione sta nella proposta. Vidi John Cage al teatro Lirico di Milano nei lontani anni settanta, che stava immobile sul palco seduto su una sedia. Non aveva bisogno di alcuna preparazione tecnica se non quella di mostrarsi oggetto sacrificale della protesta del pubblico. Aveva rovesciato completamente il significato dello spettacolo. La performance la faceva il pubblico urlando, offendendo, lanciando oggetti sul palco. Lui impersonificava il silenzio. Sublime provocazione.

La genialità, secondo te, è qualcosa che ha a che fare con la difficoltà di comprensione o può risiedere nell’acquisizione all’impatto, di pancia?
Domanda difficile per una risposta non facile. L’artista propone. Il pubblico può capire o non capire o vedere nell’opera esposta un qualcosa di sé. Spesso alle mostre, sento dire davanti a un quadro astratto frasi come: “Cosa vuol dire questo?”. Si pretende che l’artista debba fornire delle spiegazioni. Nessuno si pone il problema di chiedersi invece cosa vede o intravede in quell’opera. L’opera è come uno specchio e nello specchio ognuno ci vede quello che vuole.

Leggendo il tuo libro, arrivato al punto in cui si descrive il colloquio col dirigente milanese che gli parla di X Factor, ho pensato che solo Freak avrebbe potuto promuovere Bob Dylan e Neil Young, qual’ora si fossero presentati sotto mentite spoglie ad un talent dei nostri giorni: sono lontano dalla verità?
Credo che Freak al posto di Elio o di Morgan a X Factor, avrebbe potuto rovesciare le carte del gioco fino a far saltare il banco. Non credo che avrebbe scelto Dylan o Neil Young, ma magari pezzi di Buscaglione o di Clem Sacco o di Ugolino. Pezzi come “Ma che bella giornata” o “Birimbo Birambo”. Avrebbe puntato tutto sull’ironia e sulla trasgressione demenziale e avrebbe scelto giovani “fuori di testa” che non facevano gli artisti, ma che lo erano veramente. La differenza è sostanziale.

Un ultima cosa… riesci ad intravedere qualcuno assimilabile - per comportamenti e genialità -  a Freak?
Al momento no, almeno in Italia. C’è un artista e musicista bravissimo, geniale e versatile, che in Italia non è mai stato considerato come avrebbe meritato. E’ Sandro Oliva, che è riuscito persino a sostituire Frank Zappa nelle Mothers of Invention. E’ il protagonista del mio prossimo libro. Una storia incredibile che sintetizzo in uno slogan: Sandro Oliva, la seconda vita di Frank Zappa. Non a caso Sandro era un amico di Freak Antoni.

Patrizio Fariselli, nella sua introduzione racconta nei dettagli la costruzione di “Felice Lichene”: