Roberto “Freak" Antoni se ne è andato da poco, ma dalle
reazioni percepite nella quotidiana vita di rete, appare palese che il segno
lasciato è di quelli indelebili. Trattandosi - anche - di musicista, mi viene
spontaneo pensare ad un vinile comprato negli anni ’70, naturalmente modificato dal
tempo passato e dagli ascolti molteplici, con solchi insanabili provocati da
imperfette “puntine”, ma tutt’ora pronto a girare secondo i nostri desideri, e
ad ogni rotazione il piccolo e fastidioso salto ci ricorderà la bellezza di
momenti irripetibili.
Arriva rapidamente la testimonianza di Roberto Manfredi, che ci regala l’e-book
“Freak: odio il brodo”, pubblicato dalla casa
editrice digitale indipendente Wannaboo.
Non credo sia il caso di pubblicare una biografia
dell’autore, personaggio importante del mondo musicale/discografico/televisivo,
ma sarà lui stesso a parlare attraverso l’intervista a seguire, che permette di
sintetizzare le peculiarità di Freak, ma anche di sottolineare alcune idee
personali, spesso critiche, maturate vivendo dall’interno il fenomeno del
mercato, tra arte e businnes.
La picture che emerge dalla lettura mi pare abbastanza
precisa, e anche se le possibili interpretazioni possono indirizzare
verso differenti tracciati la risultante sarà sempre la stessa; c’è da dire che
quando non si conosce direttamente il personaggio di cui si vuol parlare
occorre estrarre disegni forniti da interposta persona. In questo caso
Manfredi, ed è un grande aiuto.
Utilizzo spesso un’immagine, trovata in rete, che ho
assunto come simbolo del cambiamento: due contenitori uguali, il primo carico
di acqua e pesciolini rossi e il secondo con il solo liquido. Tra le due
vasche, in volo, un altro pesce, pronto a saltare da un posto all’altro, forse
obbligato o magari spinto dalla visione di nuovi orizzonti, in fuga dal sicuro
alla ricerca dell’ignoto, in transizione tra folla e assoluto vuoto, almeno
momentaneo. Una sola cosa è certa, occorrerà far presto, perché senz’acqua non si
può vivere.
L’anticonformismo di Freak ha a che fare con la voglia
di cambiamento continuo e di innovazione, con il bisogno di proporre l’arte
sotto ottiche diverse, non facilmente comprensibili, un po’ settoriali ma non
snob.
Un uomo geniale, in grado di stupire chiunque -
l’introduzione di Patrizio Fariselli mi pare un buon esempio - in continua
antitesi con il sistema, non per il gusto di essere a tutti i costi “contro”, ma piuttosto per seguire
una via fatta di coerenza, di applicazione e arte pura.
Il Punk, la rottura di ogni schema, gli Skiantos…
chiunque si accertasse della loro catalogazione di genere troverebbe la seguente definizione, “Rock Demenziale”, un’etichetta appiccicata anche all’ultimo
loro album - 2009 - “Dio ci deve delle spiegazioni”.
Roberto Manfredi corre in aiuto del lettore spiegando
come sia in realtà profondo il pensiero che si cela dietro all’ironia del
titolo, una ricerca tesa alla scoperta di quel mistero capace di condizionarci,
a fasi alterne, dal momento in cui riusciamo a far crescere i nostri pensieri
sino alla fine dei nostri giorni: il senso della vita.
Nell’immaginario comune questa forte spiritualità,
questa attenzione per gli aspetti trascendenti, non era palese,
molto meglio collocare, lui e i suoi "amici", nella nicchia precostituita.
Autore del book e protagonista si conoscono negli anni ’90 e la
loro amicizia - e stima reciproca - non conoscerà momenti di crisi, e questa
profonda e intima corrispondenza di idee e sentimenti ha permesso a Manfredi di visualizzare possibili
vite vissute precedentemente, figure artistiche e di alto sapere, allineate al
pensiero di Freak, situazioni che per lui, da lassù, risulteranno vere chicche.
Eppure… traspare un discreta delusione, che nessuna
filosofia di vita può controbilanciare, e di questo faccio accenno nello
scambio di battute con Roberto Manfredi.
L’impressione è quella che, se su molte cose si può passar
oltre senza grandi scossoni, su altre la frustrazione sale e non fa sconti.
L’impossibilità di partecipare al Festival di Sanremo,
ad esempio, è qualcosa che supera il mero incidente di percorso.
Contraddittorio pensare - ho annotato io - che quello fosse un obiettivo “alla
Freak”. Errore - mi risponde Manfredi - perchè la contraddizione è da attribuire a quel
sistema malato, gestito con la logica che normalmente vige nel nostro paese, e lui, se
accettato, avrebbe potuto rappresentare se stesso, ovvero un modello diverso
dallo standard, una sorta di cavallo di troia, probabilmente pericoloso per il
sistema.
E cosa avrebbe mai potuto fare Freak se fosse stato
assunto ad X Factor (ruolo poi affibbiato a Elio)? Sarebbe stato libero di
scegliere o incatenato al ruolo di burattino?
Avrebbe potuto estrarre dal quel “brodo tanto odiato”,
una fantastica “soupe francaise”?
Non resta che leggere per sorridere e riflettere,
partendo dalla “Felice Lichene” descritta da Fariselli (e proposta a fine articolo), per
poi passare a tutti i risvolti messi a fuoco magistralmente da Roberto
Manfredi.
A quelli come me, che non hanno avuto la fortuna di
conoscerlo personalmente, non resta che attendere, magari indagare, nella speranza di trovare sul percorso di vita un altro genio un po’ fuori dagli schemi, come
Frank Zappa, Carmelo Bene, John Cage, o magari con nome meno altisonante… non
sarà poi un titolo, un soprannome, uno stato sociale, a dirci se Freak è
tornato tra noi!
Quattro chiacchiere con Roberto Manfredi…
L’impressione che ho avuto
leggendo le vicende di Freak è quella che, a dispetto del suo saper prendere la
vita nel modo giusto, la frustrazione - da cui nessuno è immune - abbia avuto
un discreto peso: vista la vostra stretta conoscenza, lo potresti considerare
un uomo che ha vissuto mediamente felice?
Sì. Non c’è dubbio che
Freak sia riuscito a fare quello che voleva. Era felice come tutti gli artisti
che riescono a diffondere e a comunicare un pensiero, una filosofia, una
pratica artistica fuori dal comune e dal convenzionale. La frustrazione nasce
dal fatto che un paese come l’Italia rinneghi la sua storia, annegando spesso
nel brodo conformista. Non a caso il
motto di Freak più conosciuto è : “Non
c’è gusto in Italia a essere intelligenti”.
Consideriamo il suo
anticonformismo e il suo modo alternativo di porsi, di non sempre facile
accettazione: è possibile dare una valutazione nel tempo, una sorta di evoluzione
delle reazioni da parte dell’audience?
Rispondo con un altro
motto di Freak: “La storia ci darà
ragione”. Freak era ed è tuttora un artista molto amato. Lo show business
lo considerava un artista “di nicchia” ma lui , come spesso mi ha confessato
“tendeva al tabernacolo”. Freak è parte della storia dello spettacolo italiano.
In lui convivevano molte vite, dai dadaisti agli artisti futuristi come Rodolfo
De Angelis. Adorava Ettore Petrolini, Pippo Starnazza, il quartetto Radar, Fred
Buscaglione, I Brutos… tutti gli autori che hanno usato l’ironia e la
trasgressione nell’arte e nella canzone italiana.
Il vostro rapporto appare
di grande affetto ed estrema stima (reciproca): aveva qualche difetto evidente?
Diciamo che le sue
qualità erano più superiori ai suoi difetti, ma a pensarci bene, non ne ricordo
uno, né come artista né come uomo. Era una persona estremamente educata e
gentile, di stampo quasi anglosassone. Aveva stile, cultura, eleganza anche
quando urlava al pubblico “ Pubblico di
merda”. Forse il suo difetto più grande è stato quello di pensare a
un’Italia migliore di quello che è. Ma non lo considero un difetto. Era una
speranza, un sogno, una missione.
Se dovessi scegliere alcune
cose che Freak ha lasciato come significativa eredità alla comunità, che cosa
ricorderesti?
Freak ci ha insegnato che
la creatività e l’espressione artistica in genere non va considerata un
prodotto di largo consumo, ma qualcosa di profondamente più alto che quando
raggiunge l’apice va oltre a qualsiasi logica commerciale. Ha dimostrato come
l’accademismo musicale sia inutile e stantio. A un discografico che gli disse :
“I dischi sono come saponette”, rispose “ Sì,
ma le saponette, bisogna farle bene”.
Un episodio come quello
legato alle manfrine di Gianni Morandi (e a chi tirava i suoi fili) in
occasione dell’ultimo rifiuto al Festival di Sanremo, sono la conferma dei
tanti sospetti che da sempre circolano e che qualcuno fa passare per leggende
metropolitane: non fu questa una grande ferita che rimase aperta? Non vedi
contraddizione nel cercare a tutti i costi di esprimersi in un contesto molto
più legato allo standard, adatto, ad esempio, agli “odiati” Pooh?
Freak ha cercato di
andare tre volte al Festival di Sanremo. Voleva andarci con la sua identità e
libertà artistica. La seconda volta presentò una canzone contro il “giovanilismo”.
La commissione la bocciò con la seguente motivazione: “Non si può presentare al Festival
una canzone contro i giovani”. Non avevano capito un cazzo, ovviamente.
L’ultima volta andò ancora peggio, perché la sua partecipazione era vincolata a
un big. Come dire…”dato che sei uno di
nicchia, portati con te uno importante, così gli fai da spalla”. Proposta
indecente, arrogante e offensiva. Non si invita una persona a cena solo se
viene accompagnato da un vip. La contraddizione non è di Freak, quanto di
quell’odioso apparato miliardario che è il Festival di Sanremo. Un apparato
costruito da funzionari compiacenti, servi di regime, faccendieri di ogni risma e discografici
falliti. Sanremo è come Miss Italia, i brogli alle elezioni, i televoti
truccati, gli scandali e gli appalti mafiosi. Tutti ingredienti di quel brodo
grasso e andato a male, che Freak, giustamente odiava.
Approfitto della tua
esperienza: come è cambiato l’ambiente della Musica dai tuoi esordi sino ad
oggi?
L’ambiente è cambiato in
peggio. Si è deteriorato fino al fallimento. Io ho avuto la fortuna di
conoscere e di lavorare con discografici come Nanni Ricordi, Gianni Sassi, Tony
Casetta, Claudio Fabi… tutta gente che conosceva lo spettacolo e la musica e
aveva un gran fiuto per riconoscere il talento altrui. Nella discografia
attuale è scomparsa la figura del direttore artistico. Oggi decide il marketing
che di artistico non ha nulla. Resistono ancora delle piccole riserve indiane… alcune
etichette indipendenti, singoli promoter e produttori che non esito a definire
eroi. Siamo tribù indiane che vivono nelle riserve, lanciando frecce acuminate
verso i visi pallidi del pop, i nuovi colonialisti giovanilisti che mostrano il
culo in faccia a teen-agers intossicati da cazzate. Le loro divise sono il
nudo, le mutande in vista, le loro faccine da bravi ragazzi vendute alla
pubblicità. I vincitori dei talent show canori finiscono in pasta ai prodotti
del Supermarket. Vedere quel gruppetto hip hop, chiamato I moderni, fare le telepromozioni a Mac Donalds mi ha dato il
voltastomaco. Questo è il nuovo scenario. Uno tsunami di idiozie inutili che
con la musica non hanno niente a che fare.
Ho provato ad immaginare la
scena in cui gli Skiantos si prepararono la tavola sul palco, anziché suonare,
con le conseguenze del caso: non pensi che per interagire con questa forma espressiva,
così come con quella di Cage o Bene, occorra una buona preparazione all’evento?
La preparazione sta nella
proposta. Vidi John Cage al teatro Lirico di Milano nei lontani anni settanta,
che stava immobile sul palco seduto su una sedia. Non aveva bisogno di alcuna
preparazione tecnica se non quella di mostrarsi oggetto sacrificale della
protesta del pubblico. Aveva rovesciato completamente il significato dello
spettacolo. La performance la faceva il pubblico urlando, offendendo, lanciando
oggetti sul palco. Lui impersonificava il silenzio. Sublime provocazione.
La genialità, secondo te, è
qualcosa che ha a che fare con la difficoltà di comprensione o può risiedere
nell’acquisizione all’impatto, di pancia?
Domanda difficile per una
risposta non facile. L’artista propone. Il pubblico può capire o non capire o
vedere nell’opera esposta un qualcosa di sé. Spesso alle mostre, sento dire
davanti a un quadro astratto frasi come: “Cosa
vuol dire questo?”. Si pretende che l’artista debba fornire delle
spiegazioni. Nessuno si pone il problema di chiedersi invece cosa vede o
intravede in quell’opera. L’opera è come uno specchio e nello specchio ognuno
ci vede quello che vuole.
Leggendo il tuo libro,
arrivato al punto in cui si descrive il colloquio col dirigente milanese che
gli parla di X Factor, ho pensato che solo Freak avrebbe potuto promuovere Bob
Dylan e Neil Young, qual’ora si fossero presentati sotto mentite spoglie ad un
talent dei nostri giorni: sono lontano dalla verità?
Credo che Freak al posto
di Elio o di Morgan a X Factor, avrebbe potuto rovesciare le carte del gioco
fino a far saltare il banco. Non credo che avrebbe scelto Dylan o Neil Young,
ma magari pezzi di Buscaglione o di Clem Sacco o di Ugolino. Pezzi come “Ma che
bella giornata” o “Birimbo Birambo”. Avrebbe puntato tutto sull’ironia e sulla
trasgressione demenziale e avrebbe scelto giovani “fuori di testa” che non
facevano gli artisti, ma che lo erano veramente. La differenza è sostanziale.
Un ultima cosa… riesci ad
intravedere qualcuno assimilabile - per comportamenti e genialità - a Freak?
Al momento no, almeno in
Italia. C’è un artista e musicista bravissimo, geniale e versatile, che in
Italia non è mai stato considerato come avrebbe meritato. E’ Sandro Oliva, che
è riuscito persino a sostituire Frank Zappa nelle Mothers of Invention. E’ il
protagonista del mio prossimo libro. Una storia incredibile che sintetizzo in
uno slogan: Sandro Oliva, la seconda vita di Frank Zappa. Non a caso Sandro era
un amico di Freak Antoni.
Patrizio Fariselli, nella sua introduzione racconta nei
dettagli la costruzione di “Felice Lichene”: