Luca Scherani è un
tastierista genovese, un grande musicista il cui impegno è indissolubilmente
legato alla sfera prog, immagine riduttiva, ma giustificata dalle sue
collaborazioni con Fabio Zuffanti e dall’esperienza in corso, quella che lo
lega a La Coscienza di Zeno.
Ho provato ad
approfondire e le risposte alle mie domande svelano un mondo musicale
sorprendente…
Come diventa musicista Luca Scherani? Che tipo di percorso hai intrapreso
e proseguito nel tempo?
Penso si diventi musicisti quando qualcuno ci trasmette la
passione e l’amore verso un linguaggio universale che, anche se ancora non
comprendiamo del tutto, diventa parte imprescindibile della nostra vita. A me è
successo a cinque anni: avevo un Hit Organ arancione, della Bontempi, un papà
che ascoltava tantissima musica classica e suonava la fisarmonica e che posso
dire essere stato il mio primo maestro. La sua preparazione tecnica era molto
scarsa, non avendo potuto studiare musica quando era ragazzo. Un buon orecchio
e tanta passione gli hanno permesso di costruire un buon bagaglio di esperienza
da autodidatta, ma la cosa più preziosa che mi ha trasmesso è la capacità di
assecondare l’emozione, il brivido lungo la schiena.. E di non nasconderlo mai.
Di piangere anche per una musica che squarcia il cuore. A sei anni ho
intrapreso con continuità lo studio classico del pianoforte, ho avuto molti
maestri bravissimi che hanno forgiato gli aspetti tecnici. Ma la prima
scintilla, quella della fiamma che tuttora resta accesa, l’ha accesa mio papà.
Ami e suoni in ambito prog: quali sono stati i gruppi e gli artisti che
hanno rappresentato per te un punto di riferimento, dagli inizi sino ad oggi?
La prima persona che mi ha parlato di prog, quando ero in
terza media, è stato quel Gabriele Guidi Colombi che oggi è bassista de La
Coscienza di Zeno. All’epoca i miei gusti erano monopolizzati dal genere blues,
soul, rhythm & blues, poi l’incontro artistico con un ottimo
chitarrista/arrangiatore, Maurizio Magnasciutti, mi ha fatto apprezzare
parecchio pop anni 70 e 80, ho curiosato e studiato molti arrangiamenti
realizzati come giochi d’incastro, alla luce degli insegnamenti ricevuti. E
intanto tuttavia continuavo ad approfondire lo studio dei classici e dei canoni
del rock progressivo. La svolta decisiva e l’amore incondizionato per il genere
sono arrivati nel 1999, all’epoca dell’incontro con Fabio Zuffanti e tutti il
nugolo di grandi appassionati che da sempre lo seguono: alla base di quelle
belle amicizie c’era anche una continua ricerca di dischi, novità, rarità. Ad
ogni incontro volavano sacchetti di dischi che ci prestavamo e ci scambiavamo
in continuazione, il clima era sempre molto stimolante e ho trovato fra loro
quella stessa passione che già avevo iniziato ad assaporare guardando mio papà.
Potresti raccontare qualcosa della tua produzione con Fabio Zuffanti?
Parlo sempre molto volentieri dell’incontro con Fabio, perché
lo considero una svolta importante nel mio percorso artistico. Con Fabio si
lavora bene, e la mia gratitudine verso di lui è tale che sono sempre
contentissimo di mettermi a sua disposizione per ogni progetto che mi propone:
sia nei progetti dove sono coinvolto fino alla punta dei capelli (come
Hostsonaten), sia nei progetti in cui non suono, ma scrivo arrangiamenti,
orchestrazioni e quartetti d’archi, fino ai lavori in cui compaio in una
ospitata magari solo da 10 secondi! Per me è sempre un grande onore! Per
raccontare gli albori di questa collaborazione bisogna andare indietro fino al
1998: stavo muovendo i miei primi passi discografici con i Trama e con la
Mellow Records, mentre i Finisterre andavano forte ed erano ormai una bella
realtà a livello mondiale! Fabio mi parlò di un musical in lavorazione, mi
chiese se volevo fare parte della band: avevano già iniziato le prove con un
tastierista, l’orchestrazione ne richiedeva due. Il progetto era quel “Merlin –
The Rock Opera” che portò grosse soddisfazioni, altro tastierista era Agostino
Macor, collega che tuttora stimo tantissimo e dal quale ho imparato molto!
L’esperienza fu bellissima: dopo una serie di rappresentazioni in Liguria, una
data a Roma in apertura agli Indaco (con special guest Francesco Di Giacomo che
ricordo come un personaggio di una gentilezza e mitezza esemplari), un concerto
in Francia alla prima edizione del Crescendo Festival e la registrazione di un
album doppio che tuttora è molto quotato fra gli appassionati.
Esaurita l’esperienza “Merlin”, rifiutai la proposta di Fabio
di entrare a far parte dei Finisterre. Il motivo del mio rifiuto oggi lo trovo
molto sciocco, e infatti penso di aver fatto la scelta sbagliata! All’epoca
Boris Valle era uscito dal gruppo, il tastierista dei Finisterre era Agostino:
Fabio voleva portare anche lì la situazione a due tastieristi che aveva ben
funzionato in Merlin. La mia paura era quella di trovarmi fuori dal gruppo nel
momento in cui Boris avesse deciso di tornare, perché in fondo ero convinto di
essere il più scarso fra i tre. Ho avuto pochissima fiducia nei miei mezzi.
Sicuramente facevo bene a dubitare della mia strumentazione non molto
competitiva (poi col tempo ho potuto rifarmi). Considero dei super tastieristi
sia Boris che Agostino e da giovani a volte il lato competitivo spaventa un po’.
Col senno di poi penso che se fossi entrato nel gruppo, probabilmente sarei
stato comunque bene accolto e rispettato: sono persone con le quali mi sono
sempre trovato molto bene, la competizione esiste solo nella testa di chi a
priori nutre insicurezze. La maturità ha poi tradotto queste sensazioni in
stima e ammirazione per i colleghi tastieristi. E comunque, quandanche avessi
passato con loro anche un solo anno, sono sicuro che sarebbe stata una bella
esperienza, una di quelle che insegnano molto. Ma la collaborazione con Fabio è
ripresa quasi 10 anni dopo Merlin, però stavolta in modo assiduo e
continuativo: sono rientrato in gioco nel 2010, scrivendo arrangiamenti per
quartetto d’archi per l’album “Double Reign” degli Aries. Poi di lì a poco sono
entrato stabilmente negli Hostsonaten come tastierista unico e arrangiatore di
tutta la parte orchestrale (di quel periodo l’album Summereve dove è presente
il brano Glares of Light, il cui incastro di pianoforte/flauto/quartetto
d’archi è quello che considero un po’ il mio biglietto da visita!). Dopo
Summereve ho scritto quartetti d’archi anche per “La foce del ladrone” (terzo
album solista a nome Zuffanti) e ho accompagnato Fabio in parecchi appuntamenti
dal vivo nella promozione di quest’ultimo fortunato album. Da qui in poi le
occasioni per collaborare si sono ulteriormente moltiplicate, tuttora siamo al
lavoro su diversi fronti! Si tratta di una parte della mia produzione che porto
avanti sempre con grande passione, perché considero la musica di Fabio una
garanzia di qualità e (per me) di soddisfazione.
Hai anche realizzato un paio di album solisti: me ne parli?
Il percorso solista è quasi un’esigenza. Ci sono molte idee
che considero troppo intime, sia per i temi trattati nei testi, sia per le
soluzioni armoniche un po’ strane e personali. Il primo album a mio nome è
stato “Everyday’s Life”, uscito nel 2007: realizzato praticamente a budget
zero, registrato quasi per disperazione e frustrazione vista la scarsa attività
del periodo (poi ho recuperato per fortuna!). Si tratta di un album povero per
realizzazione, ma con parecchi spunti compositivi di cui vado molto fiero
tuttora: mi piacerebbe un giorno riprendere quei brani, forte dell’esperienza e
della strumentazione che nel frattempo hanno dato qualche freccia in più al mio
arco. Ho trovato l’etichetta disposta a pubblicare il mio primo album solista
quando già avevo scritto metà del secondo, che si sarebbe chiamato “Everybody’s
Waiting”. Nel frattempo le collaborazioni discografiche e live avevano preso
una bella piega: ho potuto rinnovare il parco strumenti, accumulare una bella
esperienza in vari studi di registrazione e contare su molte collaborazioni,
alcune anche piuttosto illustri, grazie a una rete di amicizie e stima che
andava via via fortificandosi. Il secondo album, rappresenta un balzo per me molto
grande rispetto al primo. Da quasi due anni ho finito di scrivere il terzo
album, che si chiamerà “Everything’s Changing”, ho iniziato a far registrare
alcuni ospiti. Ma il lavoro prosegue molto a rilento, per via dei crescenti
impegni su altri fronti (la situazione è diametralmente opposta rispetto a
quella vissuta nel primo solista!).
So che hai anche un’attività che ha come obiettivo un fine nobile e
benefico…
Più che una attività a scopo benefico si tratta di un forte
legame di amicizia con Fabrizio Pagliettini e la sua famiglia: Fabrizio è stato
per molti anni vice presidente della Associazione Genitori Ragazzi non Vedenti
di Genova, e oggi suo figlio Nicolò è molto impegnato nella promozione di
iniziative della Unione Italiana Ciechi. Entrambi sono dotati anche di un
grande talento musicale, oltre che di grande entusiasmo. Portano in giro
messaggi importanti e lo fanno con grande gusto e coerenza artistica. Per me è
sempre una gioia condividere con loro percorsi musicali che spesso hanno
portato alla pubblicazioni di ottimi album, impreziositi da ospiti illustri: è
grazie a loro se ho potuto registrare due brani dirigendo una bellissima
orchestra di 16 elementi classici, accompagnare sia in studio che dal vivo
artisti come Aleandro Baldi, Enrique Balbontin, Mauro Culotta, arrangiare e
suonare un brano con bellissimo cameo da parte di Franco Califano. E la lista
degli ospiti illustri con i quali mi sono confrontato facendo musica con
Fabrizio e Nicolò è lunga! Quindi se mettiamo bene sulla bilancia tutto quello
che è successo da quando ho iniziato ad aderire con gioia ai progetti targati
Pagliettini, direi che chi ci ha guadagnato sono io! In termini di amicizia,
stima, soddisfazione, “curriculum” musicale. Con Fabrizio e Nicolò abbiamo
potuto portare messaggi di solidarietà e fratellanza anche nel mondo dello
sport, con l’album “Chiavari si illumina” che contiene anche l’inno ufficiale
della Virtus Entella, scritto da noi. La squadra ora milita nel campionato di
Serie B, dopo una serie di promozioni inanellate da quando è supportata dalla
nostra canzone… eh eh, una bella coincidenza!
E arriviamo a La Coscienza di Zeno: come definiresti il progetto?
È difficilissimo definire questo gruppo. Esiste dal 2007, ma
io ne faccio parte dal 2012. Penso che già il giorno dopo la sua fondazione
fosse un gruppo in crisi: partecipai al primo album in veste di ospite, e notai
difficoltà di gestione del progetto innanzitutto dal punto di vista umano.
Quando sono entrato nella band, ho avvertito una situazione di profonda crisi,
e penso che tuttora possiamo dire di essere in crisi! Il gruppo tiene, le
soddisfazioni si fanno sempre più grandi e la musica che facciamo mi sembra
davvero bella! So che non dovrei dirlo io, ma sono il primo ad essere
stupitissimo del risultato: il mio lavoro con loro prosegue in un misto di
conferme, realizzazione personale… ma soprattutto incredulità! Il bacino di
consenso verso i nostri album è sempre più vasto, e allora ho provato a darmi
una spiegazione di questo risultato: penso che la nostra musica trasmetta a
parecchi ascoltatori (non a tutti, ci mancherebbe, è impossibile incontrare
pareri unanimi e il favore di tutti!) una cosa che noi stessi non possiamo
percepire: forse davvero qualcuno sente tutta la paura, la rabbia,
l’inquietudine, la delusione e la frustrazione che accompagna la nascita dei
nostri lavori. E allora forse la musica davvero è qualcosa di magico: davvero
serve a trasmettere emozioni e stati d’animo.
Ho avuto modo di ascoltare l’anteprima del nuovo album nel
concerto genovese di Dicembre, e ciò che ho percepito, come primo ascolto, è la
creazione di trame affascinanti ma complicate: atto di coraggio? Divulgazione
della qualità estrema? Semplice sintesi delle idee del gruppo?
“La notte anche di
giorno”, terzo album della band, è un lavoro complesso, ambizioso, che si
porta dentro tutta la densità emotiva di cui ho parlato. C’è un po’ di paura in
noi, per la delicatezza dei temi trattati: ho sempre avuto una grande
ammirazione verso i testi di Stefano Agnini, ma penso che con questo album si
sia superato. La cruda dolcezza con cui espone eventi anche tragici, mi riempie
di brividi e lacrime anche al millesimo ascolto. La complessità del lavoro
emerge anche dalla struttura musicale: si tratta di due storie reali, due
esistenze femminili che sono giunte a realizzazione, ma in maniera
diametralmente opposta. Quindi due lunghe suite: l’album è stato pensato a
priori come adatto alla pubblicazione su vinile. “Giovane Figlia”, divisa in
sei sotto-brani nel lato A e “Madre Antica”, divisa in quattro sotto-brani, sul
lato B. L’album vede poi l’ingresso stabile nel gruppo del violinista Domenico
Ingenito, oltre alla conferma delle due graditissime ospiti Joanne Roan al
flauto e Melissa Del Lucchese al violoncello. Il risultato mi sembra una buona
sintesi delle idee di tutti, che sono tante ed eterogenee, sicuramente non la
definirei una “divulgazione della qualità estrema”: quella è una definizione
che trovo più adatta a gruppi quali Syndone o Not a Good Sign, che consiglio
vivamente perché davvero incredibili (soprattutto dal vivo!). Sicuramente per
il gruppo è un lavoro più maturo dei precedenti: “confermarsi” è da sempre
l’obiettivo minimo. E dove si può, spingersi oltre e alzare l’asticella è
un’esigenza fondamentale per la sopravvivenza stessa di un progetto.
Appaiono di grande importanze le liriche curate da Stefano
Agnini: come avviene la creazione di un vostro brano? Esiste uno standard che
prevede, ad esempio, una trama musicale applicata ad una lirica?
I brani, da quando sono parte del gruppo, li ho visti nascere
nelle maniere più disparate! Per esempio, per l’album “Sensitività”, ci eravamo
prefissati l’obiettivo secondo cui ciascuno di noi doveva comporre almeno una
canzone: per esempio “La città di Dite”, brano secondo me molto riuscito, è
scritta al 90% dal nostro batterista Andrea Orlando. Il mio brano è “Chiusa
1915”, per il quale ho scritto anche il testo. Nella maggior parte dei casi è
nata prima la musica, con addirittura anche una linea di voce ben definita:
solo a quel punto è intervenuto Stefano aggiungendo le sue parole. Casi a parte
sono “Sensitività”, la title track, e “Tensegrità”: quelle sono al 100% “made
in Agnini”, per cui mi è difficile dire che tipo di approccio compositivo abbia
adottato. Di sicuro so che Stefano è molto istintivo: se penso a lui impegnato
a comporre, immagino una malcelata pulsione passionale dietro alla sua
proverbiale pacatezza. La sua scrittura musicale spesso sviluppa e scompone
trame complesse partendo da idee apparentemente semplicissime: anche se
difficilmente lo si vede sul palco dietro alle tastiere, stiamo parlando di un
elemento che in un gruppo fa la differenza!
Quanto ami l’evoluzione tecnologia applicata ai “tuoi
strumenti”?
Suoniamo un genere che è nato quando ancora non esisteva il
midi: gli strumenti erano analogici, elettromeccanici o acustici. Nei musicisti
l’amore per un genere di musica spesso si traduce anche in amore per gli stessi
strumenti che così fortemente l’hanno caratterizzata! Per questo dal vivo e in
studio è importante per me usare, anche massicciamente, synth analogici, string
machines e quanto riesco ad avere a disposizione di riconducibile all’epoca cui
faccio riferimento. Di sicuro non possiamo ignorare che ogni decennio ha
portato innovazioni importanti per noi musicisti. Il sopracitato midi è stata
una vera rivoluzione all’inizio degli anni 80, e tuttora per me è una
invenzione importantissima, molto presente nel mio lavoro di tutti i giorni:
tutti gli arrangiamenti che scrivo, che siano per gruppo elettrico o che siano
per orchestra classica, nascono prima in midi! E nascono a tavolino, con il
mouse… non con uno strumento squisitamente musicale! Allo stesso modo oggi con
poche tastiere (anche solo due) e una pesante programmazione di virtual
instrument, si riesce ad emulare il set faraonico dei blasonati keyboard wizard
degli anni 70/80. La mia strumentazione live è un compromesso fra i due
approcci: utilizzo due elementi vintage, anche piuttosto pesantucci a dire il
vero. Congiuntamente ad altri strumenti del passato emulati via software o via
campionatore. Questo approccio è per me fondamentale, anche perché non portando
in giro solo ed esclusivamente musica rock progressiva, ho necessità di essere
competitivo anche su altre sonorità. Quindi, pur tenendo ben saldo l’amore per
i gloriosi strumenti del passato, e riconoscendone una purezza di suono e una
certa rischiosa randomicità non riproducibile dai cugini digitali, ben venga
anche la tecnologia! Che si traduce innanzitutto in parecchi chili in meno da
trasportare! Chiudo con una piccola esperienza personale: per anni ho usato
suoni di synth emulati in maniera digitale, tramite Vintage Keys della E-MU, o
una Korg Z1 o ancora una Yamaha CS1x. Da quando però utilizzo un synth
analogico “vero” non sono più riuscito a tornare al cugino digitale: davvero è
ben altra cosa.
Come disegneresti il futuro prossimo musicale di Luca Scherani?
Ci sono parecchie cose chiuse in pentola a bollire. A maggio
entrerò in studio con un nuovo album di Hostsonaten, questa volta ci sarà una
intera orchestra classica ad affiancare il gruppo. Sto poi lavorando a un album
di estrazione più classica/contemporanea, in duo con la violinista Sylvia
Trabucco… e poi c’è il mio terzo lavoro da solista! L’attività in studio con La
Coscienza di Zeno sicuramente si fermerà per un po’ di tempo: ora è il momento
di cercare concerti e promuovere il disco nuovo!
Sempre sul versante live, ci sono due progetti che fanno un po’ storcere il
naso a molti appassionati, ma che una volta saliti sul palco mi divertono e mi
emozionano tantissimo: si tratta di due tribute band, una dedicata a Peter
Gabriel e l’altra dedicata al tour del 1984 dei Marillion, in entrambe è
presente il cantante (e per me carissimo amico) Alessandro Corvaglia. Consiglio
anche a chi storce il naso, ma apprezza i nostri lavori inediti, di venire a
sentirci: le musiche sono sempre molto fedeli e curate, ma l’interpretazione di
Alessandro, in entrambi i gruppi, è da 10 e lode! La commistione fra artisti di
oggi e amori di ieri può risultare molto emozionante anche per chi è scettico e
magari ci guarda in maniera un po’ prevenuta!