giovedì 18 maggio 2023

Bob Dylan "GIUDA!": Free Trade Hall, Manchester, 17 maggio 1966


Bob Dylan è stato grande nel rivolgersi ai suoi detrattori.
Quando qualcuno gli ha urlato ‘Giuda!’, si è avvicinato con calma al microfono e ha tranquillamente replicato: sei un bugiardo… "

Oldham EveningChronicle
25 maggio 1966

Bob Dylan And The Hawks
Free Trade Hall, Manchester, 17 maggio 1966
“GIUDA!”

Il più famoso epiteto nella storia della musica venne pronunciato da uno studente ventenne di nome Keith Butler, indignato per la plateale infatuazione di Bob Dylan nei confronti del rock ad alto volume.


Se Butler impiegò trent’anni per assumersi ufficialmente le proprie responsabilità, a Dylan bastarono pochi istanti per sibilare una replica carica di fastidio: “Non ti credo! Sei un bugiardo!”, poi si girò irritato verso il gruppo e gridò: “Suonate forte, cazzo!”. Fu la scintilla da cui scaturì un infuocato finale di concerto sulle note di Like A Rolling Stone, la canzone che, l’estate precedente, aveva svelato al mondo il nuovo Dylan elettrico.

Like A Rolling Stones portò al culmine il dibattito sul “tradimento” dylaniano, scatenato dal sempre più rapido allontanamento del musicista dalle canzoni di protesta di inizio carriera. Già nel 1965 i suoi versi erano legati più al surrealismo che a Woody Guthrie e i semplici arpeggi di chitarra che lo avevano reso celebre erano ormai supportati da un accompagnamento rock. Persino la classica immagine da vagabondo romantico era stata abbandonata in favore di una mise più urbana: cespuglio di capelli arruffati, abiti attillati e occhiali scuri. Sembrava che Dylan non si sentisse più al servizio del Piccolo Uomo o della Grande Idea ma di se stesso e basta.

Il musicista arrivato a Manchester nella primavera del 1966, dall’agosto precedente era accompagnato da un gruppo elettrico (la futura Band) che… suonava rock. La maggior parte del pubblico aveva accettato il cambiamento ma negli ambienti più estremisti la polemica avvampava. I “folkettari”duri e puri erano ancora legati all’idea di Dylan come voce del (sempre più indefinibile) movimento di protesta. Altri lo consideravano il santone che stava trasformando la musica pop in una nuova ed emozionante forma d’arte.

I Beatles, i Rolling Stones, i nuovi arrivati Byrds e tutti coloro che aspiravano alla grandezza in ambito pop erano stati profondamente influenzati - e intimiditi - da quella trasformazione. Bob Dylan rispondeva solo alle sue leggi. Tuttavia anche un iconoclasta come lui capiva quanto fosse importante non alienarsi completamente le simpatie del pubblico degli esordi. Come tutti i concerti britannici della tournèe, infatti, anche quello di Manchester era diviso in due parti ben distinte: una sezione acustica, con in scaletta soprattutto materiale nuovo o comunque recente, seguita da una performance elettrica di otto canzoni tratte dai suoi album folk e drasticamente modificate.


La prima fu accolta dal reverente silenzio che aveva caratterizzato i concerti di un tempo. La poesia di Vision Of Johanna e Desolation Row era lontanissima dalla nitidezza di inni come Blowin’ In The Wind (significativamente assente nelle scalette del 1966), ma si trattava comunque di un Dylan scarno e questo poteva bastare. Coloro che consideravano l’utilizzo del gruppo come un artificio di cattivo gusto pensarono di averla avuta vinta.
L’atmosfera cambiò completamente dopo l’intermezzo. Dylan si ripresentò sul palco imbracciando una Fender Stratocaster e recando ben visibili nella gestualità e nei modi nervosi le ferite emotive dei concerti precedenti, disturbati da fischi di disapprovazione e talora interrotti da uscite di scena prima del tempo. Già alla fine del secondo brano, I Don’t Believe You, trasformata da brillante ballata folk in potente aggressione verbale rock, una parte del pubblico cominciò a diradare i propri applausi. Dylan rispose accennando un motivo folk all’armonica prima di lanciarsi in una rivisitazione radicale di una delle sue prime registrazioni, Baby, Let Me FollowYou Down. Verso la fine del set lo si sentì bisbigliare al microfono un’incomprensibile storiella, quasi a sfidare il pubblico.
Poi arriva il fantasma di Giuda e un concerto già di per sé notevole entrò nella leggenda.

Da “Io C’ERO”, di Mark Paytress



Curiosità:

Esiste in Italia (e magari ce ne saranno altre nel mondo!) una band denominata "Keith Butler & The Judas", un vero e proprio tributo a Bob Dylan proposto da questi cinque musicisti che suonano versioni al fulmicotone del menestrello di Duluth, dai classicissimi degli anni ‘60 fino a gemme oscure da Dylanologi incalliti, ogni volta in versione diversa, come insegna il maestro. Il leader della band è Giancarlo Frigieri, tutti i componenti sono della zona di Modena e Reggio Emilia.

Questa la formazione nel 2017: Giancarlo Frigeri chitarra e voce, Rigo Righetti basso, Lele Borghi batteria, Gianni Campovecchi tastiere.