“Bob Dylan è stato grande nel rivolgersi ai suoi detrattori.
Quando qualcuno gli ha urlato ‘Giuda!’, si è avvicinato con
calma al microfono e ha tranquillamente replicato: sei un bugiardo… "
Oldham EveningChronicle
25 maggio 1966
Bob Dylan And The Hawks
Free Trade Hall, Manchester, 17 maggio 1966
“GIUDA!”
Il più famoso epiteto nella storia della musica venne
pronunciato da uno studente ventenne di nome Keith Butler, indignato per la plateale infatuazione di Bob Dylan nei
confronti del rock ad alto volume.
Se Butler impiegò trent’anni per assumersi ufficialmente le
proprie responsabilità, a Dylan bastarono pochi istanti per sibilare una
replica carica di fastidio: “Non ti
credo! Sei un bugiardo!”, poi si girò irritato verso il gruppo e gridò: “Suonate forte, cazzo!”. Fu la scintilla
da cui scaturì un infuocato finale di concerto sulle note di Like A Rolling Stone, la canzone che,
l’estate precedente, aveva svelato al mondo il nuovo Dylan elettrico.
Like A Rolling Stones portò al culmine il dibattito sul
“tradimento” dylaniano, scatenato dal sempre più rapido allontanamento del
musicista dalle canzoni di protesta di inizio carriera. Già nel 1965 i suoi
versi erano legati più al surrealismo che a Woody Guthrie e i semplici arpeggi
di chitarra che lo avevano reso celebre erano ormai supportati da un
accompagnamento rock. Persino la classica immagine da vagabondo romantico era
stata abbandonata in favore di una mise più urbana: cespuglio di capelli
arruffati, abiti attillati e occhiali scuri. Sembrava che Dylan non si sentisse
più al servizio del Piccolo Uomo o della Grande Idea ma di se stesso e basta.
Il musicista arrivato a Manchester nella primavera del 1966,
dall’agosto precedente era accompagnato da un gruppo elettrico (la futura Band)
che… suonava rock. La maggior parte del pubblico aveva accettato il cambiamento
ma negli ambienti più estremisti la polemica avvampava. I “folkettari”duri e
puri erano ancora legati all’idea di Dylan come voce del (sempre più
indefinibile) movimento di protesta. Altri lo consideravano il santone che
stava trasformando la musica pop in una nuova ed emozionante forma d’arte.
I Beatles, i Rolling Stones, i nuovi arrivati Byrds e tutti
coloro che aspiravano alla grandezza in ambito pop erano stati profondamente
influenzati - e intimiditi - da quella trasformazione. Bob Dylan rispondeva
solo alle sue leggi. Tuttavia anche un iconoclasta come lui capiva quanto fosse
importante non alienarsi completamente le simpatie del pubblico degli esordi.
Come tutti i concerti britannici della tournèe, infatti, anche quello di
Manchester era diviso in due parti ben distinte: una sezione acustica, con in
scaletta soprattutto materiale nuovo o comunque recente, seguita da una
performance elettrica di otto canzoni tratte dai suoi album folk e
drasticamente modificate.
La prima fu accolta dal reverente silenzio che aveva
caratterizzato i concerti di un tempo. La poesia di Vision Of Johanna e Desolation
Row era lontanissima dalla nitidezza di inni come Blowin’ In The Wind (significativamente assente nelle scalette del
1966), ma si trattava comunque di un Dylan scarno e questo poteva bastare.
Coloro che consideravano l’utilizzo del gruppo come un artificio di cattivo
gusto pensarono di averla avuta vinta.
L’atmosfera cambiò completamente dopo l’intermezzo. Dylan si
ripresentò sul palco imbracciando una Fender Stratocaster e recando ben
visibili nella gestualità e nei modi nervosi le ferite emotive dei concerti
precedenti, disturbati da fischi di disapprovazione e talora interrotti da
uscite di scena prima del tempo. Già alla fine del secondo brano, I Don’t Believe You, trasformata da
brillante ballata folk in potente aggressione verbale rock, una parte del
pubblico cominciò a diradare i propri applausi. Dylan rispose accennando un
motivo folk all’armonica prima di lanciarsi in una rivisitazione radicale di
una delle sue prime registrazioni, Baby,
Let Me FollowYou Down. Verso la fine
del set lo si sentì bisbigliare al microfono un’incomprensibile storiella,
quasi a sfidare il pubblico.
Poi arriva il fantasma di Giuda e un concerto già di per sé
notevole entrò nella leggenda.
Da “Io
C’ERO”, di Mark Paytress
Curiosità:
Esiste in Italia (e
magari ce ne saranno altre nel mondo!) una band denominata "Keith
Butler & The Judas", un vero e proprio tributo a Bob Dylan
proposto da questi cinque musicisti che suonano versioni al fulmicotone del
menestrello di Duluth, dai classicissimi degli anni ‘60 fino a gemme oscure da
Dylanologi incalliti, ogni volta in versione diversa, come insegna il maestro.
Il leader della band è Giancarlo Frigieri, tutti i componenti sono della zona
di Modena e Reggio Emilia.
Questa la formazione
nel 2017: Giancarlo Frigeri chitarra e voce, Rigo Righetti basso, Lele Borghi
batteria, Gianni Campovecchi tastiere.