lunedì 29 maggio 2023

Nel ricordo di Jeff Buckley


Il 29 maggio del 1997, a Memphis, perdeva la vita, a soli 31 anni, Jeff Buckley, figlio del già famoso Tim, e musicista da un probabile futuro luminoso.
Lo ricordo ripresentando un post di un po’ di tempo fa.

Volendo parlare di una famiglia di musicisti sarebbe corretto iniziare dal capostipite, dal più vecchio, da chi ha aperto la strada.
Non posso farlo, in questo caso, perché attraverso la musica del figlio ho scoperto quella del padre.
Mi riferisco ai Buckley, Jeff il figlio e Tim il padre.

Sono arrivato a Jeff leggendo un’intervista al chitarrista Steve Vai, che diceva, più o meno: L’ultima volta che mi sono emozionato per un disco è stato quando ho ascoltato ”Grace”, di Jeff Buckley".

Incuriosito ho cercato “Grace” e… ne sono rimasto incantato.
Da Jeff a Tim, il passo a ritroso è stato il frutto della curiosità alimentata da un libro che narra la vita di un padre e di un figlio che non si conosceranno mai.
Jeff Buckley stava per diventare un mito con un solo disco," Grace", destinato a rimanere uno dei capolavori degli anni '90, quando una morte assurda lo portò via. Ma tutta la sua vita è segnata da un destino negativo.

Jeffrey Scott Moorhead nasce il 17 novembre 1966, a Orange County, da Mary Guibert e da Tim Buckley. Suo padre, uno dei più grandi cantanti e compositori della storia del rock, iniziava proprio in quel periodo la sua carriera, incidendo il primo disco e separandosi, dopo poche settimane, dal piccolo Jeff e da sua madre.
Tim morì per overdose all'età di 28 anni, entrando nella leggenda della musica americana e trascinando suo malgrado il figlio, che vide per la prima volta poche settimane prima di morire, inconsapevole di un destino altrettanto avverso che si prospettava anche per Jeff.
A 17 anni Jeff forma il suo primo gruppo, gli Shinehead, a Los Angeles.

Nel 1990 ritorna a New York e con l'amico Gary Lucas costituisce i Gods & Amp; Monsters. Ma i dissidi interni portano il progetto ben presto al fallimento.
Jeff Buckley inizia allora una carriera solista suonando nel circuito del Greenwich Village e rendendosi noto soprattutto per la partecipazione al concerto tributo in onore del padre, di cui interpreta “Once I Was” (da “Goodbye and Hello”).
Le sue prime esibizioni avvengono in un piccolo club dell'East Village di New York chiamato Sin-E'. Nel 1993, dopo alcuni anni di gavetta, Jeff ha la possibilità, tramite la Columbia, di registrare il suo primo disco, inciso dal vivo, proprio nel "suo" club.

" Live at Sin-E'", contiene solo quattro pezzi, due dei quali sono cover, una di Edith Piaf e l'altra di Van Morrison, e due suoi pezzi, "Mojo Pin" ed "Eternal Life".
Per promuovere il disco Jeff e la sua band partono per una tournée nel Nord America e in Europa.
Visto il discreto successo, la sua casa discografica avvia una campagna promozionale per il suo primo disco completo "Grace", pubblicato negli Usa nell'agosto del 1994.
Nell’album si rivela tutto il talento di Jeff: la sua voce invocante sembra prendere coraggio per strada, finendo in un crescendo, intenso e doloroso. I testi - veri tormenti dell'anima e del profondo - pescano nel repertorio del padre Tim, ma anche di Bob Dylan, Leonard Cohen e Van Morrison.

Il lavoro contiene dieci tracce: tre composte da Jeff, due in collaborazione con l'amico Gary Lucas, una con Michael Tighe e una con Mick Grondahl e Matt Johnson, più tre cover, tra le quali, da brivido, la meravigliosa "Halleluja" di Cohen.
Nell'album, Jeff Buckley suona chitarra, harmonium, organo e dulcimer, accompagnato da Mick Grondahl al basso, Matt Johnson alla batteria e percussioni, Michael Tighe e l'amico Gary Lucas alle chitarre.

"Grace" risulta davvero un'opera carica di grazia, eseguita da un gruppo di tutto rispetto, con pezzi che esaltano le doti vocali di Jeff (in particolare le altre due cover, "Liliac Wine", "Corpus Christi Carol") tali da raggiungere una struggente intensità.
Il canto di Buckley parte piano, modulando le inflessioni nello stile dei folk-singer, ma finisce sempre in un crescendo drammatico e “mistico”, lambendo blues e gospel. Uno stile ad effetto, che lascia senza fiato in ballate come “Lover”, “Ethernal Life” e “Dream Borother”, oltre che nella struggente title track.

Musicalmente, sono il tintinnio della chitarra di Gary Lucas e i soffici sottofondi delle tastiere di Buckley a esaltare il senso di religiosità dei brani (metà dei quali sono di ispirazione liturgica). Arrangiamenti eleganti, a volte sinfonici, in bilico tra folk e rock, pop e soul, si combinano bene con l’esile trama delle melodie.
Nel 1997 viene avviato il progetto per la realizzazione del nuovo disco "My sweetheart the drunk", che uscirà postumo, in una veste piuttosto grezza e visibilmente incompleta, con il titolo di "Sketches" .

La notte del 29 maggio l'artista si reca con un amico a Mud Island Harbor (Tennessee), dove decide di fare una nuotata nel Mississippi e si getta nel fiume completamente vestito.
Qualche minuto più tardi, forse travolto dall’ondata di una nave, sparisce tra le acque.
La polizia interviene immediatamente, ma senza risultati.
Il suo corpo viene ritrovato il 4 giugno, vicino alla rinomata Beale Street Area.
Aveva solo 30 anni. Le indagini stabiliranno che il musicista non era sotto l’effetto né di droghe né di alcol.
Nel 2000, la Columbia, dietro la supervisione di Michael Tighe e della madre di Jeff, pubblica "Mistery White Boy", una raccolta dal vivo, e "Live in Chicago" (su dvd e vhs), concerto del 1995, registrato al Cabaret Metro di Chicago.
Nel 2001, esce invece "Live à l'Olimpya", ritratto del giovane Jeff nella sua Parigi, contenente brani del primo disco e qualche cover.

Emerso dal circuito folkie e bohemien newyorkese, Jeff Buckley si è dimostrato musicista di razza nonché musa ispiratrice di molti artisti rock, anche in epoca recente. Seppur meno geniale del padre, ha saputo in qualche modo tramandarne lo spirito fragile e disperato, rivelandosi uno dei “personaggi” di culto del decennio Novanta.

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