Il 29 maggio del 1997,
a Memphis, perdeva la vita, a soli 31 anni, Jeff Buckley, figlio del già famoso
Tim, e musicista da un probabile futuro luminoso.
Lo ricordo ripresentando un post di un po’ di tempo fa.
Volendo parlare di una
famiglia di musicisti sarebbe corretto iniziare dal capostipite, dal più
vecchio, da chi ha aperto la strada.
Non posso farlo, in
questo caso, perché attraverso la musica del figlio ho scoperto quella del
padre.
Mi riferisco ai Buckley,
Jeff il figlio e Tim il padre.
Sono arrivato a Jeff leggendo
un’intervista al chitarrista Steve Vai, che diceva, più o meno: “L’ultima volta che mi sono emozionato per un disco è stato quando ho
ascoltato ”Grace”, di Jeff Buckley".
Incuriosito ho cercato
“Grace” e… ne sono rimasto incantato.
Da Jeff a Tim, il
passo a ritroso è stato il frutto della curiosità alimentata da un libro che narra
la vita di un padre e di un figlio che non si conosceranno mai.
Jeff Buckley stava per
diventare un mito con un solo disco," Grace",
destinato a rimanere uno dei capolavori degli anni '90, quando una morte
assurda lo portò via. Ma tutta la sua vita è segnata da un destino negativo.
Jeffrey Scott Moorhead
nasce il 17 novembre 1966, a Orange County, da Mary Guibert e da Tim Buckley. Suo
padre, uno dei più grandi cantanti e compositori della storia del rock,
iniziava proprio in quel periodo la sua carriera, incidendo il primo disco e
separandosi, dopo poche settimane, dal piccolo Jeff e da sua madre.
Tim morì per overdose
all'età di 28 anni, entrando nella leggenda della musica americana e
trascinando suo malgrado il figlio, che vide per la prima volta poche settimane
prima di morire, inconsapevole di un destino altrettanto avverso che si
prospettava anche per Jeff.
A 17 anni Jeff forma
il suo primo gruppo, gli Shinehead, a Los Angeles.
Nel 1990 ritorna a New
York e con l'amico Gary Lucas costituisce i Gods & Amp; Monsters. Ma i
dissidi interni portano il progetto ben presto al fallimento.
Jeff Buckley inizia
allora una carriera solista suonando nel circuito del Greenwich Village e
rendendosi noto soprattutto per la partecipazione al concerto tributo in onore
del padre, di cui interpreta “Once I Was” (da “Goodbye and Hello”).
Le sue prime
esibizioni avvengono in un piccolo club dell'East Village di New York chiamato
Sin-E'. Nel 1993, dopo alcuni anni di gavetta, Jeff ha la possibilità, tramite
la Columbia, di registrare il suo primo disco, inciso dal vivo, proprio nel
"suo" club.
" Live at
Sin-E'", contiene solo quattro pezzi, due dei quali sono cover, una di
Edith Piaf e l'altra di Van Morrison, e due suoi pezzi, "Mojo Pin" ed
"Eternal Life".
Per promuovere il
disco Jeff e la sua band partono per una tournée nel Nord America e in Europa.
Visto il discreto
successo, la sua casa discografica avvia una campagna promozionale per il suo
primo disco completo "Grace", pubblicato negli Usa nell'agosto del
1994.
Nell’album si rivela
tutto il talento di Jeff: la sua voce invocante sembra prendere coraggio per
strada, finendo in un crescendo, intenso e doloroso. I testi - veri tormenti
dell'anima e del profondo - pescano nel repertorio del padre Tim, ma anche di
Bob Dylan, Leonard Cohen e Van Morrison.
Il lavoro contiene
dieci tracce: tre composte da Jeff, due in collaborazione con l'amico Gary
Lucas, una con Michael Tighe e una con Mick Grondahl e Matt Johnson, più tre
cover, tra le quali, da brivido, la meravigliosa "Halleluja" di
Cohen.
Nell'album, Jeff
Buckley suona chitarra, harmonium, organo e dulcimer, accompagnato da Mick
Grondahl al basso, Matt Johnson alla batteria e percussioni, Michael Tighe e
l'amico Gary Lucas alle chitarre.
"Grace" risulta davvero un'opera
carica di grazia, eseguita da un gruppo di tutto rispetto, con pezzi che
esaltano le doti vocali di Jeff (in particolare le altre due cover, "Liliac Wine", "Corpus Christi Carol") tali da
raggiungere una struggente intensità.
Il canto di Buckley
parte piano, modulando le inflessioni nello stile dei folk-singer, ma finisce
sempre in un crescendo drammatico e “mistico”, lambendo blues e gospel. Uno
stile ad effetto, che lascia senza fiato in ballate come “Lover”, “Ethernal Life” e
“Dream Borother”, oltre che nella
struggente title track.
Musicalmente, sono il
tintinnio della chitarra di Gary Lucas e i soffici sottofondi delle tastiere di
Buckley a esaltare il senso di religiosità dei brani (metà dei quali sono di
ispirazione liturgica). Arrangiamenti eleganti, a volte sinfonici, in bilico
tra folk e rock, pop e soul, si combinano bene con l’esile trama delle melodie.
Nel 1997 viene avviato
il progetto per la realizzazione del nuovo disco "My sweetheart the drunk", che uscirà postumo, in una veste
piuttosto grezza e visibilmente incompleta, con il titolo di "Sketches" .
La notte del 29 maggio
l'artista si reca con un amico a Mud Island Harbor (Tennessee), dove decide di
fare una nuotata nel Mississippi e si getta nel fiume completamente vestito.
Qualche minuto più
tardi, forse travolto dall’ondata di una nave, sparisce tra le acque.
La polizia interviene
immediatamente, ma senza risultati.
Il suo corpo viene
ritrovato il 4 giugno, vicino alla rinomata Beale Street Area.
Aveva solo 30 anni. Le
indagini stabiliranno che il musicista non era sotto l’effetto né di droghe né
di alcol.
Nel 2000, la Columbia,
dietro la supervisione di Michael Tighe e della madre di Jeff, pubblica "Mistery White Boy", una raccolta
dal vivo, e "Live in Chicago" (su dvd e vhs), concerto del 1995,
registrato al Cabaret Metro di Chicago.
Nel 2001, esce invece
"Live à l'Olimpya",
ritratto del giovane Jeff nella sua Parigi, contenente brani del primo disco e
qualche cover.
Emerso dal circuito
folkie e bohemien newyorkese, Jeff Buckley si è dimostrato musicista di razza
nonché musa ispiratrice di molti artisti rock, anche in epoca recente. Seppur
meno geniale del padre, ha saputo in qualche modo tramandarne lo spirito
fragile e disperato, rivelandosi uno dei “personaggi” di culto del decennio
Novanta.
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