Per
motivi professionali mi capita spesso di raccontare, a chi è obbligato ad
ascoltarmi, che cosa significhi lavorare in modo sicuro.
Ho
usato appositamente il termine “obbligato”, perché è alla base dello scarso
successo di argomenti che, nel pensiero generale sono, cito testualmente frasi
raccolte in rete, “… le invenzioni dello
stato per creare bisogni inesistenti in chi già svolge il proprio mestiere
seriamente”.
E’
una visione errata della realtà, se si pensa alla materia in questione, perchè la maggior parte dei problemi che minano la
nostra salute avvengono in luoghi a noi cari e ritenuti sicuri, lontano da quel
demone che ha le sembianze del luogo di lavoro, e il motivo è, nella maggior
parte dei casi, un comportamento inadeguato.
E’ a
mio giudizio un problema sociale che riguarda la persona in ogni sua azione, al lavoro, nel tempo
libero, tra ozio e attività, e andrebbe trattato come tale, proponendo un
argomento così importante, che ha che fare con il nostro benessere, attraverso un
impegno scolastico, per riuscire a creare una cultura adeguata, anziché imporre
delle leggi.
La
vita privata si mischia quindi alle professioni e la mia lunga esperienza
lavorativa -non è un vanto affermare di essere “antichi”!-, spesso in giro per
il mondo, mi porta ad affermare con assoluta certezza che non esiste una
separazione netta in grado di sezionare e modificare i nostri comportamenti a seconda della
porzione di giornata.
L’esempio
di cui voglio parlare è legato alla musica, mia vera passione, e nelle mie
docenze si arriva spesso a toccare il topic "rumore" -che sconfina nel suono- con
esempi relativi.
L’esposizione
prolungata al rumore è causa di una malattia professionale, l’ipoacusia, e la
presa di coscienza del problema ha fatto sì che siano stati stabiliti dei
limiti, oltrepassati i quali diventa un obbligo la protezione.
E’
bene dire intanto che il suono/rumore è… rappresentato
dalla propagazione di energia meccanica in un fluido elastico (gas, liquido,
solido) che è in grado di eccitare il senso dell’udito. Ma non esiste una
precisa distinzione tra i due stati, in quanto la sgradevolezza del rumore ed il
piacere sonoro sono fattori soggettivi, e se è vero che una bella melodia
proposta ad elevato volume può infastidire, la percussione di un martello su
lamiere di diverso spessore può diventare “agreable”, se il “picchiare” è
contenuto.
C’è
stato un tempo in cui i palchi di tutto il mondo regalavano migliaia di watt a
folle oceaniche, le stesse potenze che investivano i musicisti a pochi passi di
distanza.
Erano
quelli suonatori ventenni o giù di lì, quell’età in cui si pensa che niente
possa fare male, non certo la musica rock, anche se suonata ai massimi volumi.
Ma immaginare un rock soffuso sembrerebbe cosa di poco senso!
Sono
molti i “sordi” provenienti dai seventies, ma quello che prendo sempre come
esempio durante i corsi è Pete Townshend,
mitico chitarrista dei The Who, gruppo conosciuto anche dai più giovani per effetto della colonna sonora di C.S.I.
Pete
è sordo come una campana, e non sono serviti i suoi notevoli mezzi economici per risolvergli il grave problema.
Pete
è sempre stato anche un po’… irascibile, e nel filmato a seguire, relativo
credo al 2000, si spazientisce quando vede spuntare tra il pubblico gli
earplugs “usa e getta”, quelli che, se usati dalla pluralità delle persone,
colorano significativamente l’ambiente.
Townshend
si rivolge a loro con la famosa frase: “It’s too late”, it’s always too late!”,
ed è abbastanza facile pensare ad un'audience formata da non più giovani, secondo il chitarrista corsi ai ripari troppo tardi.
Pete Townshend soffre di
TINNITUS, che è il nome latino dell’acufene, che è una patologia che
colpisce l’orecchio umano, portandolo a percepire rumori costanti, in forma
diversa (che siano fischi, ronzii, pulsazioni o fruscii) ed è causata da
molteplici fattori, uno dei quali è l’esposizione continua a suoni di forte
intensità (come nel caso del chitarrista) che provocano una progressiva perdita
dell’udito. E quando il danno diventa definitivo, non solo non si sente più, ma
nell’orecchio si forma un ronzio permanente, che si accompagna al fenomeno del recruitment («rafforzamento»)
che abbassa la soglia di fastidio alla presenza di un rumore molto forte. In
pratica, si sente dolore molto prima degli altri.
Dice il Dottor Claudio Albizzati: “«Cure vere e proprie
per l’acufene non ve ne sono. Le medicine fanno poco, per non dire nulla, e gli
stessi “mascheratori”, che sono simili agli apparecchi acustici e producono una
serie di rumori bianchi o rosa, funzionano poco e male e sono più teorici che
pratici. L’unico rimedio possibile è la prevenzione, ovvero non ascoltare la
musica ad un volume altissimo, come invece purtroppo fanno oggi molti ragazzini
con le cuffiette dell’ipod, né esporsi volontariamente a suoni di elevata
intensità per lungo tempo. Solo il rispetto per le nostre orecchie può, quindi,
aiutarci a tenere lontano l’acufene per il quale, lo ripeto, non c’è soluzione
ma su cui, al contrario, c’è molta superficialità e disinformazione».
Ammesso
che si tenga alla propria pelle -tutto da dimostrare in moltissimi casi- possiamo
dire che non è necessario dotarsi di un fonometro (anche se esistono app
gratuite per i nostri telefonini) per misurare i decibel, giacchè siamo in grado
di proteggerci seguendo il nostro eventuale disagio personale, quei segnali che
ci arrivano direttamente dal nostro corpo.
Ma
quanto vale un decibel? Non è facile riconoscerlo, come facciamo con il
chilogrammo o il metro, unità di misura con cui abbiamo dimestichezza!
Facile.
Sto svolgendo una lezione in aula e per farmi ascoltare da tutti alzo un po’ la
voce: mediamente raggiungerò i 65 decibel e quindi una normale conversazione ne prevede circa 60, mentre ai 30 rilevati in una biblioteca silenziosa si
possono contrapporre gli oltre 130 caratteristici del decollo di un aereo.
Non
so esattamente a cosa corrisponda la TECHNO sparata al massimo in discoteca, ma
è facile presupporre un altissimo rischio legato ad esposizione prolungata.
Il
primo limite di legge, quello che in ambiente lavorativo produce le azioni
iniziali, è quello degli 80 decibel -gli step successivi sono 85 e 87-, valore
che, senza entrare nel dettaglio, produce una serie di precauzioni che partono in
primis dalla protezione individuale, sempre e ovunque possibile, e in modo
relativamente semplice.
Io
sono un assiduo frequentatore di concerti e riflettendo su situazioni simili
vissute da adolescente, quanto la tecnologia non era certo dalla nostra parte,
mi viene da pensare che a quei tempi mai avrei avuto cura del mio udito -anche se…
mi volevo molto bene-, perché si era culturalmente impreparati al
riconoscimento del pericolo e ai risvolti negativi verso la persona, e chi fa
parte della mia generazione ricorderà bene, probabilmente con nessuna
nostalgia, il tempo in cui si assisteva al cinema domenicale con una cappa bianca
sopra la testa, prodotta dalla valanga dei fumatori che nel tempo
avrebbero poi pagato le ovvie conseguenze -così come probabilmente pagheremo in
parte anche noi, fumatori passivi.
Ora
che sono “saggio” viaggio sempre con in tasca i miei protettori auricolari, colorati e cool.
Lo
scorso anno, ad un concerto dei Big One, mi si avvicina un amico fotografo,
nell’occasione impegnato professionalmente; ha dimenticato i suoi tappini a casa e mi
chiede se ne ho un paio per lui perché, prosegue: “…
non posso ascoltare il concerto, ma devo lavorare, e la musica alta mi
infastidisce”.
Questo
è un aspetto pericoloso, che in qualche modo contraddice una mia affermazione
precedente, quella relativa alla possibilità di autoregolarsi per mantenere il
giusto livello.
Traduco:
se ascolto concentrato e rilassato qualcosa di “pericoloso” nei volumi, ma
piacevole per la tipologia di ascolto, non avverto fastidio mentre la stessa
atmosfera sonora, subita mentre l’attenzione è rivolta alla professione, diventa
inaccettabile?
Da rifletterci su, io intanto suggerisco a tutti i miei amici
musicisti e frequentatori di eventi live di avere cura del proprio udito, di
pensare per tempo alle conseguenze di azioni inaccettabili nel momento in cui
nasce la consapevolezza dei rischi a cui si va incontro.
E quando le probabilità diventano certezze forse è davvero… “too
late”, come Pete Townshend sentenziava.
Ma qualcosa forse si sta
muovendo, e il messaggio di speranza mi è arrivato proprio in questi giorni, quando ho assistito alla performance di una band vicentina, i
Syncage, il cui giovanissimo bassista, Daniele Tarabini, sotto ai lunghi
capelli nascondeva i famosi “tappini colorati”, per attenuare la potenza che
certa musica richiede.
Un ragazzo saggio, che
d’ora in poi porterò con me come esempio, nella speranza che l’opera di
sensibilizzazione proposta con un sample calzante possa essere ancora più efficacie, e che l’immagine
diventi complementare al verbo.
Dice
Tarabini:" Occore avere consapevolezza dei danni che un sistema di amplificazione
tradizionale causa alle orecchie, che altro non sono che i nostri principali
strumenti di lavoro...".
Grazie
Daniele!