“Sdraiato sull’arcobaleno”, di Maurizio Ciro Donnarumma
(a partire dall’ascolto del singolo “Momenti”)
A volte basta un link condiviso con semplicità per aprire una
porta inattesa. “Spero però che vorrai ascoltare questo brano scritto e
cantato da me”, scrive Maurizio Ciro
Donnarummapresentando Momenti, accompagnato da un augurio di
buone feste e dal link al suo video su YouTube. È un invito gentile, quasi
timido, che non lascia intuire la profondità del progetto da cui il brano
proviene: l’album Sdraiato sull’arcobaleno, disponibile su tutte
le piattaforme streaming.
Ed è proprio partendo da Momenti che si comprende la
natura del lavoro di Donnarumma: un cantautore che arriva tardi alla
pubblicazione, ma con una voce già pienamente formata, nutrita da vita vissuta,
ricordi, lutti e passioni coltivate per decenni.
Sdraiato sull’arcobaleno non è un disco costruito per il mercato: è un atto di
restituzione. Donnarumma raccoglie quindici brani scritti in momenti diversi
della sua esistenza e li porta finalmente alla luce grazie a un lavoro
artigianale svolto nel suo studio domestico. Il titolo richiama il brano
dedicato al figlio Nicola, scomparso nel 2002: una canzone che non cerca la
tragedia, ma la luce, come se la musica potesse trasformare il dolore in un
gesto di continuità.
Il singolo che l’autore propone come primo ascolto è
emblematico del suo stile: una scrittura diretta, melodie immediate, una voce
che non punta alla perfezione ma alla sincerità. È un brano che funziona come
chiave d’accesso all’intero album: semplice in superficie, ma attraversato da
una malinconia gentile che invita a esplorare il resto del repertorio.
L’album si muove tra un rock morbido, profumo di blues e
funky, ballate cantautorali e incursioni latine.
Questa varietà è uno dei punti di forza del progetto, anche
se talvolta rischia di frammentare l’ascolto. Ma è una scelta coerente con la
natura dell’autore: Donnarumma non costruisce un “concept”, ma un mosaico di
esperienze.
Il vero centro dell’album sono i testi. Donnarumma scrive
come chi ha attraversato stagioni diverse della vita e ha imparato a guardarle
con lucidità. Non c’è retorica, non c’è artificio: solo storie, ricordi,
riflessioni. La voce, pur non essendo tecnicamente impeccabile, ha una qualità
rara: credibilità.
Il disco porta con sé la firma di una produzione domestica,
con il pregio dell’autenticità, spontaneità, assenza di sovrastrutture; a
cercare qualche limite si potrebbe indicare qualche rigidità negli
arrangiamenti e un mix non sempre equilibrato.
Ma questi aspetti non indeboliscono il progetto: lo
caratterizzano. È un album che non finge di essere ciò che non è.
Donnarumma usa questa definizione con ironia, ma è perfetta:
non è un giovane in cerca di visibilità, è un autore che ha finalmente trovato
il coraggio di condividere ciò che ha scritto per una vita intera.
Sdraiato sull’arcobaleno è un album sincero, emotivo, imperfetto e
profondamente umano. Non punta alla spettacolarità, ma alla verità.
Fairytale of New Yorkè una canzone natalizia del gruppo
irlandese The Pogues, pubblicata nel
1987, ed eseguita insieme alla cantante Kirsty
MacColl.
Il brano, una ballata in stile folk
irlandese, è stato scritto da Jem Finer e Shane MacGowan (che ci ha lasciato pochi giorni fa) e fa
parte dell'album del gruppo intitolato If I Should Fall from Grace with God.
L'arrangiamento è di Fiachra Trench.
È stata votata come migliore canzone
natalizia di tutti i tempi in vari sondaggi televisivi, radiofonici e
giornalistici effettuati nel Regno Unito e in Irlanda.
Originariamente la canzone doveva
essere un duetto tra Shane MacGowan e la bassista dei Pogues Cait O'Riordan, ma
quest'ultima lasciò il gruppo nel 1986, prima che il brano fosse stato
completato. All'epoca il produttore dei Pogues era Steve Lillywhite, che chiese
a sua moglie Kirsty MacColl di registrare una traccia per la voce femminile che
fungesse da linea guida in una versione demo del pezzo. L'esecuzione della
MacColl piacque così tanto ai Pogues che le chiesero di interpretare il brano
anche nella sua versione definitiva.
Il brano descrive una sorta di sogno
ad occhi aperti di un immigrato irlandese che sta passando la vigilia di Natale
smaltendo una sbornia chiuso in una cella da ubriachi a New York. Quando un
altro ubriaco chiuso con lui nella cella si mette a cantare una strofa della
ballata irlandese The Rare Auld Mountain Dew il narratore (MacGowan) inizia a
sognare il personaggio femminile del brano. Il resto della canzone (che può
essere interpretato come un monologo interiore) prende la forma di un botta e
risposta tra la coppia, che la vigilia di Natale, litigando, parla delle
proprie speranze giovanili distrutte dall'alcolismo e dalla dipendenza dalla
droga.
Il canto melodioso della MacColl crea
un forte contrasto con la voce rauca e impastata di MacGowan, e le strofe sono
di tono talvolta dolce-amaro altre semplicemente amareggiato: es. Happy
Christmas your arse/I pray God it's our last (It. "Buon Natale stronzo! / Prego
Dio che sia l'ultimo insieme"). I versi Sinatra was swinging e cars
as big as bars (It. "Sinatra cantava lo swing" e "Automobili
grandi come bar") lasciano intendere che la storia sia ambientata verso la
fine degli anni quaranta.
Il titolo, ripreso dal romanzo A
Fairy Tale of New York dello scrittore James Patrick Donleavy, venne scelto
dopo che il brano era stato già registrato.
Il
video
Nel
brano MacGowan e la MacColl intonano per due volte, "The boys of the
NYPD choir still singing "'Galway Bay" (It. "I ragazzi del coro della
NYPD stanno cantando 'Galway Bay'"). Il Dipartimento di polizia di New
York in realtà non ha un coro, ma dispone di una banda di percussioni e
cornamuse che ha partecipato alla realizzazione del video. La banda non sapeva
suonare Galway Bay e, mentre veniva filmata, suonò invece la sigla del Mickey
Mouse Club; il filmato venne poi opportunamente rallentato in fase di
produzione per adattarlo al ritmo del brano.
Al video ha preso parte l'attore Matt
Dillon, che ha interpretato il poliziotto che arresta lo sbronzo MacGowan.
Censura
Il 18 dicembre 2007 l'emittente
radiofonica BBC Radio 1 censurò le parole "faggot" (it.
frocio) e "slut" (it. puttana) da Fairytale of New York
per "evitare di commettere un reato". Le parole, cantate dalla
MacColl e da MacGowan come insulti reciproci, furono coperte da un suono. La
madre di Kirsty MacColl definì la censura "ridicola", mentre i
Pogues dissero di averla trovata "divertente". La BBC in un
comunicato disse: "Abbiamo trasmesso una versione modificata perché
alcuni ascoltatori potrebbero trovare l'originale offensivo". Più
tardi, la stessa sera, l'emittente fece marcia indietro e fece sapere che, dopo
una giornata passata a sentire le critiche di artisti e ascoltatori, avevano
deciso di ritornare sulla propria decisione. Sempre la stessa sera andò quindi
in onda anche la versione integrale. Gli altri canali della BBC, tra cui la
tendenzialmente conservatrice BBC Radio 2, continuarono a trasmettere la
versione originale.
Anche MTV ha rimosso e reso
incomprensibili le parole "slut", "faggot" e
"arse" al momento di trasmettere il brano.
Popolarità
La canzone fu lanciata nel Regno
Unito e in Irlanda nel novembre 1987 e divenne rapidamente un successo,
trascorrendo cinque settimane al primo posto della classifica di vendita
irlandese. Il 17 dicembre 1987 i Pogues e la MacColl eseguirono il brano nel
popolare spettacolo televisivo della BBC Top of the Pops, esibizione che spinse
Fairytale of New York al secondo posto della classifica ufficiale UK Top 75.
Il brano concluse al 48º posto tra i
più venduti del 1987 nonostante fosse stato in vendita solo per un mese e non
ottenne il primo posto nella Classifica britannica dei singoli natalizi, andato
alla cover di Always on My Mind dei Pet Shop Boys. Sembra che MacGowan abbia
commentato il fatto con la sua tipica "delicatezza" affermando:
"Siamo stati battuti da due checche e una drum machine". In seguito,
la Mac Coll dichiarò di non essersi in realtà mai sentita in competizione con i
Pet Shop Boys, in quanto facevano un genere di musica completamente diverso.
La canzone fu ripubblicata dai Pogues
nel Regno Unito nel 1991 (raggiungendo il 36º posto) e nuovamente nel Regno
Unito e in Irlanda per il Natale 2005, raggiungendo il 3º posto della
classifica nel Regno Unito. Tutti i proventi di quest'ultima edizione furono
devoluti parte a varie associazioni che si occupano dei senzatetto e parte a
Justice for Kirsty, una campagna di sensibilizzazione organizzata per far
emergere la verità riguardo alla morte della MacColl, avvenuta nel 2000.
Nel 1996 è stata usata come brano
introduttivo del film Basquiat.
Con l'avvento del fenomeno del
download, che ha permesso a un brano di entrare nelle classifiche di vendita
anche senza la presenza di un supporto fisico, Fairytale of New York ha
fatto regolarmente il suo ingresso nella classifica dei singoli più venduti nel
Regno Unito e in Irlanda nel dicembre di ogni anno a partire dal 2005. Verso la
fine del 2012 ha raggiunto il milione di copie vendute nel Regno Unito.
Il 22 dicembre 2005 i Pogues hanno
eseguito il brano in uno speciale televisivo condotto da Jonathan Ross su BBC
One; il posto della MacColl come interprete femminile fu preso dalla cantante
Katie Melua. Si trattò della prima esecuzione televisiva del pezzo da parte dei
Pogues dopo il 1988.
Nel dicembre 2012 la canzone è stata
ripubblicata per celebrarne il venticinquennale.
Il brano, eseguito dal cantante folk
irlandese Christy Moore, è presente sul suo album del 1991 Smoke and Strong
Whiskey.
Nel 2011 Angelo Branduardi ne ha
scritto una versione in italiano intitolata Favola di Natale a New York,
cantata con Fawzia Selama e inclusa nell'album Così è se mi pare.
A volte gli incontri più interessanti avvengono per puro
caso. Pochi giorni fa ho conosciuto Gianna
Williams, una musicista dalla solida formazione come arpista che,
negli ultimi due anni, ha intrapreso un viaggio affascinante verso un oggetto
sonoro tanto raro quanto suggestivo: il Dulcimer
appalachiano(o mountain dulcimer).
Inutile dire che sono rimasto immediatamente incantato dalle potenzialità di
questo antico cordofono, dalla sua apparente semplicità e dall’entusiasmo
contagioso di Gianna.
Sapevo che, negli anni '70, il dulcimer era stato il compagno
di viaggio di miti del rock e del folk come Joni Mitchell (che ne fece
l'ossatura dell'album Blue) e Brian Jones dei Rolling Stones. Ma vederlo
dal vivo rivela una magia tecnica del tutto particolare. Si suona disteso sulle
ginocchia e, a differenza della chitarra, presenta una tastiera diatonica
(simile ai soli tasti bianchi del pianoforte); questa caratteristica gli
conferisce quel sapore arcaico e dolce tipico della musica celtica e folk.
La sua voce è resa unica dal sistema "a bordone":
mentre si modula la melodia su una corda, le altre emettono una nota costante,
creando un tappeto sonoro ipnotico simile a quello delle cornamuse. Ma
descriverlo solo tecnicamente, pensando ad un solo metodo performativo, sarebbe
limitativo: Gianna Williams, che ha alle spalle una storia personale
incredibile e intensa, ha trovato in questo "legno" una nuova forma di
espressione.
Ecco l'intervista che le ho fatto per scoprire questo mondo.
Gianna, tu vieni da uno strumento regale e complesso come
l’arpa. Cosa ha fatto scattare la scintilla per il dulcimer appalachiano? È
stato un incontro casuale o una ricerca deliberata?
Avevo già incontrato il dulcimer cantando in uno spettacolo
celtico a Genova vent’anni fa, ma non aveva catturato la mia attenzione più di
tanto, proprio mentre avevo appena iniziato a suonare l’arpa celtica. Poi,
esattamente due anni fa, la Vigilia di Natale, mi trovavo a casa di mio cognato
irlandese, che colleziona strumenti musicali. Notando un dulcimer appeso al
muro, gli chiesi se potessi provarlo. Lui lo staccò, me lo mise in braccio e
disse: “Te lo puoi prendere!”. In quel momento me ne sono innamorata. Poco dopo
ho scoperto, grazie a una virtuosa americana dello strumento, Jessica Comeau,
il modo moderno di suonare il dulcimer, cioè con gli accordi e non solo a
bordone. La facilità tecnica dello strumento (che può comunque raggiungere
vette di virtuosismo impressionanti nelle mani esperte) non impedisce di creare
arrangiamenti capaci di arricchire anche le melodie più semplici. Un
principiante si sente subito gratificato, e non è un caso che in molte scuole
americane il dulcimer venga usato come introduzione alla musica, al posto del
flauto dolce. Per esempio, viene dato ai bambini che vorrebbero suonare la
chitarra ma non riescono ancora a maneggiarla.
Da quanto mi hai raccontato, la tua storia personale è carica
di vissuto. Puoi sintetizzare il tuo percorso? E in che modo le tue esperienze
di vita hanno influenzato la necessità di abbandonare la “perfezione” dell’arpa
per cercare un suono più nudo e ancestrale come quello del dulcimer?
Sono un’italiana nata in Australia; da lì ci siamo trasferiti
prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra. È proprio a Chicago, da bambina,
che mi sono innamorata della musica irlandese. A quei tempi si diceva che ci
fossero più irlandesi a Chicago che in Irlanda… In seconda elementare portarono
in classe un’arpa classica, e ricordo che, seduta ad ascoltarla, pensai: “È lo
strumento più bello del mondo, ma sarà troppo difficile per me”. A otto anni mi
sembrava enorme, con tutte quelle corde di colori diversi e sette pedali:
impossibile. Così, ogni volta che pensavo a quale strumento volessi suonare,
scrivevo “arpa” in cima alla lista, ma poi la cancellavo subito, scoraggiata da
quella prima impressione. Tutto cambiò mentre preparavamo quello spettacolo a Genova.
Ero stata coinvolta come cantante dopo essermi esibita in uno spettacolo
amatoriale in onore di Fabrizio De André a Ceriana, dove abitavo, un paese
famoso per i suoi cori e la tradizione dei canti dialettali. Un’attrice che
collaborava con il flautista Gian Castello mi “scoprì” e mi propose di
partecipare allo spettacolo Merlino l’Incantatore al Teatro Garage di
Genova. In quell’ensemble mi trovai davanti per la prima volta un’arpa celtica
e, ormai adulta, mi resi conto che non era affatto così complicata come avevo
pensato. A 35 anni iniziai a studiarla con tale assiduità che compagno e familiari
cercavano di dissuadermi: dicevano che trascuravo il lavoro, che spendevo
troppo (le arpe, soprattutto quelle classiche, costano!). Ma la passione era
troppo forte. Con l’arpa celtica riaffiorarono anche le canzoni irlandesi della
mia infanzia. Il mio percorso arpistico è sempre stato fortemente folk-celtico:
una musica che sa di antico, essenziale, ma anche di delicatezza. Quando
un’arpista classica prende in mano la mia arpa, a volte mi viene da mettermi le
mani nei capelli per l’eccessiva forza e ricchezza del loro stile, che trovo un
po’ istrionico e melodrammatico. Una volta un’arpista classica mi ha persino
spaccato la cassa armonica, strappando gli accordi con troppa violenza… Per
questo il dulcimer si inserisce perfettamente nella mia concezione della musica
antica, celtica, sognante, delicata, giocosa come un folletto.
Passare dalla postura verticale dell’arpa a quella
orizzontale del dulcimer cambia completamente il rapporto fisico con la musica.
Come è stato rieducare il corpo a questo nuovo modo di “abbracciare” lo
strumento?
Sia l’arpa che il dulcimer possono risultare difficili da
tenere in equilibrio all’inizio. L’arpa deve rimanere sospesa, appoggiata
appena sulla spalla destra del musicista, in bilico. Il dulcimer, invece,
tenuto sulle gambe, spesso sembra scivolare via, soprattutto quando un
principiante tende a premere troppo forte per compensare l’imprecisione delle
dita vicino ai tasti. Esistono però vari accorgimenti per migliorarne la
stabilità, come la cintura da chitarra o i possum pads, cuscinetti
antiscivolo applicati alla base. La mia difficoltà maggiore deriva dalle dita
iperflessibili, che non riescono a mantenere la forma curva quando devono
premere qualcosa. Con l’arpa non ho problemi, perché le dita tirano le corde;
con il dulcimer, invece, devono premere, e tendono a cedere. Mia sorella ha
dovuto rinunciare al violino per la stessa ragione. Disperata, mi sono rivolta
a Internet e ho scoperto degli anelli che aiutano a sostenere le dita. Non
risolvono completamente il problema, ma insieme alla ridotta necessità di
pressione tipica dei principianti, mi permettono di gestirlo. All’inizio mi
imbarazzavano, ma poi ho notato che suscitano curiosità negli ascoltatori e
negli altri musicisti.
Il dulcimer è caratterizzato dal sistema “a bordone”, quel
ronzio costante che accompagna la melodia. Cosa provi quando quel tappeto
sonoro ipnotico inizia a vibrare sotto le dita?
Il bordone è un suono ancestrale. In un gruppo dove suono con
una ghironda e una piva emiliana, anch’esse a bordone, la combinazione colpisce
davvero tutti. La natura ritmica del bordone del dulcimer, unita alla trompette
della ghironda, crea un’energia e uno slancio sorprendenti, perché non
appartengono ad altri generi musicali, dal pop alla classica. È un suono
antico, folk, che evoca visioni di guerrieri nella nebbia delle foreste
nordiche. Nelle session di dulcimer, inoltre, il bordone permette ai
principianti di suonare insieme ai più esperti: basta fare il bordone e
funziona. Ma ciò che mi entusiasma di più è la facilità con cui posso prendere
una melodia semplice e, giocando con i tasti, far emergere arrangiamenti ricchi
e sorprendenti, che non mi vengono quando arrangio la stessa melodia all’arpa.
È il piccolo miracolo di queste tre umili corde: metà delle volte trovo accordi
stupendi senza sapere nemmeno come si chiamano.
A differenza della chitarra, il dulcimer è uno strumento
diatonico. Questo limite è per te un ostacolo o una libertà?
Esiste anche il dulcimer cromatico, ma molti musicisti
obiettano che, a quel punto, tanto vale comprarsi una chitarra. Per me,
abituata all’arpa celtica – anch’essa fondamentalmente diatonica, perché si può
modulare solo interrompendo l’esecuzione per alzare o abbassare una levetta –
il dulcimer è perfetto. I dulcimer moderni hanno adottato il tasto 6+, cioè un
tasto intermedio tra il sesto e il settimo, e, più raramente, il tasto 1+, che
mi ha cambiato la vita. Permette modulazioni tipiche della musica antica e
rinascimentale, modalità che amo inserire negli arrangiamenti. È molto più
facile creare nuovi arrangiamenti con uno strumento diatonico, soprattutto se
consente un minimo di modulazione.
Il dulcimer vive di accordature aperte. Come scegli
l’accordatura per i tuoi brani e quanto influisce sul “colore” della storia che
vuoi raccontare?
Oggi i dulcimer sono quasi sempre accordati in Re, talvolta
abbassati in Do a seconda dei musicisti o dei cantanti con cui si suona. Con il
capotasto al primo tasto si ottiene il Mi minore, e queste sono le tonalità
principali. Nella musica irlandese – che costituisce una parte importante del
repertorio tradizionale del dulcimer, grazie agli irlandesi e scozzesi emigrati
negli Appalachi – molti brani sono in Re, Sol o Mi minore. Nella musica
tradizionale celtica la tonalità non si cambia, ed è anche per questo che
musicisti che non si conoscono possono suonare insieme immediatamente: una giga
nata in Re sarà sempre suonata in Re. Niente spartiti, niente leggii. Mi è
capitato di trovarmi in un pub nell’Irlanda del Nord con un’arpa e di suonare
insieme a perfetti sconosciuti: le melodie della tradizione sono impresse nelle
dita. È una conversazione tra estranei in un’unica lingua comune, l’esperanto
della musica.
Negli anni ’70 artisti come Joni Mitchell e Brian Jones hanno
portato il dulcimer nel rock. Ti senti parte di quella tradizione o stai
cercando nuove sonorità?
C’è un grande interesse per la musica antica e
rinascimentale, che sta rivoluzionando il repertorio dello strumento,
tradizionalmente legato al folk irlandese e scozzese. Questo mi entusiasma
molto, ma ho anche l’ambizione personale di inserire brani popolari italiani
nel repertorio del dulcimer. Con il mio gruppo Mormorè sto scoprendo molta
musica tradizionale piemontese e lombarda, e vedo che il dulcimer vi si
inserisce benissimo. Recentemente abbiamo registrato Calissun con
dulcimer, ghironda e piva: è stato accolto con grande entusiasmo dalla comunità
britannica del dulcimer e sarà incluso in una raccolta natalizia, cosa che mi
ha fatto molto piacere. Ad aprile spero di insegnare Calissun in un
festival nel nord dell’Inghilterra e di suonarlo dal vivo. Con una cantante
abbiamo musicato tre canzoni di Ceriana per dulcimer, presentate la scorsa
estate alla festa di musica tradizionale di Santa Brigida, a Dolcedo.
Un’insegnante americana di origini italiane, Nina Zanetti, sta lavorando per
recuperare e arrangiare canzoni italiane per dulcimer, organizzando lezioni nei
festival online – oggi il principale metodo di formazione per questo strumento
– e sta pubblicando un libro di arrangiamenti italiani. Con lei collaboro
correggendo le traduzioni dei testi e suggerendo brani.
Qual è l’ostacolo più grande nel far capire al pubblico
moderno il valore di uno strumento così antico?
Quando presento il dulcimer negli stage o suonando per
strada, la gente rimane sempre molto colpita e fa molte domande; spesso lo
prende in braccio e si entusiasma. Ho persino fatto stampare un bigliettino che
spiega le sue origini e include i contatti del gruppo Facebook Amici del
Mountain Dulcimer. Gli ostacoli, quindi, sono pochi, se si riesce a far
conoscere lo strumento. Quando l’anno scorso ho organizzato la visita di due
insegnanti americani, i loro concerti erano gremiti e rappresentavano i due
principali filoni dello strumento: uno legato alla cultura degli Appalachi e
l’altro alla musica medievale europea, che la seconda insegnante aveva
arrangiato per dulcimer.
Il dulcimer è spesso definito uno strumento “democratico” e
facile da approcciare. Concordi?
Io lo vedrei benissimo sostituire il flauto dolce come primo
approccio alla musica nelle scuole, come avviene in molte scuole americane. In
pochi minuti anche i bambini riescono a suonare semplici melodie, con grande
soddisfazione.
Qual è il tuo sogno o il tuo prossimo progetto per riportare
il dulcimer appalachiano al centro dell’attenzione?
Grazie all’influenza della musicista Jean Ritchie, negli anni
’50 il dulcimer ha vissuto una rinascita negli Stati Uniti, influenzando poi la
musica pop e rock, dai Rolling Stones a Joni Mitchell fino a Cyndi Lauper. Oggi
in Gran Bretagna c’è una bellissima comunità di dulcimer che mi sostiene da
quando ho iniziato. Il mio sogno è creare una comunità anche in Italia.
Qualunque strumento che riporti le persone – bambini e adulti – a fare musica,
per piacere personale o per condividerla, attingendo anche alla nostra
ricchissima tradizione, merita ogni sforzo. Esistono dulcimer per principianti
facilmente acquistabili e poco costosi, belli anche da appendere al muro e che
non occupano spazio. Dopo i due stage che ho organizzato nel Ponente ligure
l’anno scorso, stiamo preparando con il Sermig di Torino uno stage a giugno,
con un docente molto conosciuto e amato: Rob Brereton. L’evento includerà
lezioni, un concerto dei docenti (in contemporanea ci sarà anche uno stage di
cetra con Maguy Gerentet) e il saggio finale degli allievi. Spero anche di
coinvolgere i liutai italiani che costruiscono dulcimer da anni. La scorsa
estate ho scritto un articolo per la rivista del Nonsuch Dulcimer Club,
presentando il liutaio italiano Valerio Gorla, attivo da molto tempo. Spero che
al Sermig possa nascere un festival del dulcimer a 360 gradi, dove
partecipanti, liutai e pubblico possano condividere il loro entusiasmo per
questo strumento. Nel frattempo, sono felicissima di presentarlo ovunque: nelle
scuole, nei mercatini, nei festival. Vorrei solo essere più brava nel
dimostrare tutte le possibilità sonore e tecniche del dulcimer, davvero
infinite nelle mani giuste.
Da parte mia, l’auspicio è di poter approfondire
ulteriormente il dulcimer e, magari insieme a Gianna, dare vita a un workshop
che contribuisca a farlo conoscere e apprezzare anche nel nostro territorio.
Il 22
dicembre del 2020, all’età di 75 anni, a seguito di un attacco cardiaco, ci
lasciava Leslie West, cantante e
chitarrista statunitense noto per essere stato lo storico fondatore dei
Mountain, di cui fu anche il chitarrista.
Vediamo qualche nota storica della band.
I Mountain furono fra i primi complessi a enfatizzare il ruolo della chitarra nell'ambito del power-trio e ad allontanare l'hard-rock dalle sue matrici blues.
Posero così le basi per un genere che usasse le vibrazioni dure fini a se stesse, l'heavy-metal.
I Mountain furono formati dal chitarrista Leslie West (Weinstein), ex Vagrants, e dal produttore dei Cream Felix Pappalardi, (già chitarrista per Fred Neil e Tom Rush ai tempi del Greenwich Movement) di ritorno a New York, dove aveva appena prodotto l'album solista di West, intitolato appunto Mountain (Windfall, 1969).
Pubblicizzati come i "Cream d'America", la sincopata Mississippi Queen (1970) li catapultò subito nelle classifiche con un rock roccioso, affilato e fulmineo che rappresentava un passo avanti rispetto al modello originale. Quel brano e Theme For An Imaginary Western (il classico di Jack Bruce) sono i pezzi forte dell'album Mountain Climbing (Windfall, 1970). L'epica Nantucket Sleighride, sull'album omonimo (1971) coronò le loro ambizioni mitigando il sound con un melodismo reminescente della psichedelia. Pappalardi toccò il vertice della sua arte di produttore con l'album Flowers Of Evil (1971), nel segno di un raffinato pop barocco che al riff poderoso di Flowers Of Evil fa seguire le cadenze gotiche di One Last Cold Kiss e il blues sincopato Crossroader e chiude con l'onirica, orientale e rinascimentale Pride AndPassion, il loro ritornello piu` suggestivo.
West formò con Jack Bruce il power-trio West Bruce & Laing, che pubblicò Why Don'cha (Windfall, 1972 e Whatever Turns You On (Windfall, 1973), uno dei primi album di hard-rock con il sintetizzatore.
I Mountain si sciolsero dopo Avalanche (1974), e West formò un proprio complesso sullo stesso stile, che pubblicò The Great Fatsby (Phantom, 1975) e The Leslie West Band (1975).
Pappalardi morì nel 1983, ucciso dalla moglie. West riformò i Mountain per registrare Go ForYour Life (Scotti, 1985), ma, dopo gli album solisti Theme (Capitol, 1988) e Alligator (Capitol, 1989), scomparve nel nulla.
Tornò sulle scene con Dodgin' The Dirt (Blues Bureau, 1994) e As Phat as It Gets (Lightyear, 1999). Blood of the Sun (Raven, 1996) é un'antologia della sua carriera.
È una notizia che colpisce dritto al cuore, soprattutto per
il tempismo quasi surreale. Chris Reaci ha lasciati oggi, 22 dicembre 2025, a
74 anni, proprio nei giorni in cui la sua voce diventa la colonna sonora
universale di chiunque si metta in viaggio per riabbracciare i propri cari.
C’è un’ironia malinconica in tutto questo: l’uomo che ha
scritto l'inno definitivo del ritorno a casa per Natale se n'è andato proprio
mentre milioni di persone, in tutto il mondo, cantano insieme a lui "I'm
driving home for Christmas". Ma ridurre la sua carriera a quel
singolo brano sarebbe un errore imperdonabile, perché Chris Rea è stato uno dei
musicisti più autentici, complessi e sottovalutati degli ultimi quarant'anni.
Nato a Middlesbrough ma con il cuore legato alle radici
italiane del padre (originario di Arpino), Chris non ha mai amato le luci della
ribalta. Era un uomo schivo, un artigiano della chitarra che preferiva il
garage allo studio patinato. La sua carriera è stata una lunga fuga dalle
etichette: i discografici lo volevano trasformare in un damerino del pop, ma
lui rispondeva con la sua chitarra slide e quella voce roca, profonda,
che sembrava arrivare direttamente dal delta del Mississippi, nonostante fosse
cresciuto tra le nebbie dell'Inghilterra industriale.
Il suo capolavoro, The Road to Hell, non era
una canzoncina leggera, ma una critica feroce alla società moderna, nata mentre
era bloccato nel traffico sulla tangenziale di Londra. Era capace di passare da
riflessioni cupe sulla modernità a ballate dolcissime come Josephineo
Julia, dedicate alle figlie, con una naturalezza disarmante.
Negli ultimi vent'anni, la sua è stata anche una storia di
incredibile resilienza. Dopo aver sconfitto un grave tumore al pancreas
all'inizio degli anni 2000 – un'esperienza che lo aveva segnato fisicamente ma
fortificato nello spirito – aveva deciso di mandare al diavolo le classifiche
per dedicarsi esclusivamente al Blues più puro. Diceva spesso che la malattia
gli aveva fatto capire che non aveva più tempo da perdere con musica che non
sentisse sua.
Oggi il mondo della musica perde un gigante silenzioso. Ci
lascia una discografia sterminata e quella strana sensazione di conforto che
solo la sua voce sapeva dare. E per chi quest'anno accenderà la radio in
macchina durante il viaggio verso casa, quel verso "top to toe in
tailbacks" farà sorridere con un po' di commozione in più.
Chris Rea ha finalmente finito il suo viaggio, ma la sua
musica continuerà a guidarci lungo la strada, ovunque stiamo andando.
Il 22 dicembre 1968, per la storia del rock,
rappresenta il momento in cui il bozzolo dei The New Yardbirds iniziò
definitivamente a schiudersi per dare vita a una creatura mitologica: i Led Zeppelin.
Mentre il mondo si preparava al Natale, in un piccolo club
della periferia londinese o durante le ultime prove prima della traversata
oceanica, quattro musicisti stavano portando a termine la trasformazione più
radicale della musica moderna.
Tutto ebbe inizio dal collasso degli Yardbirds. Quando
la band si sciolse nell'estate del '68, il chitarrista Jimmy Page si
ritrovò con un pugno di mosche e una serie di contratti per concerti in
Scandinavia già firmati. Per onorare quegli impegni, reclutò il turnista
d'élite John Paul Jones, un giovane cantante di nome Robert Plant
e il martellante batterista John Bonham.
Per motivi legali e contrattuali, la formazione dovette
presentarsi inizialmente come "The New Yardbirds". Ma era chiaro fin
dal primo secondo di prove che quel suono non aveva più nulla a che fare con il
pop-blues psichedelico del passato.
Sebbene il nome "Led Zeppelin" fosse già stato
coniato (grazie a una battuta sarcastica di Keith Moon dei The Who, secondo cui
la band sarebbe "affondata come un pallone di piombo"), il dicembre
del 1968 fu il mese della transizione definitiva.
Il 22 dicembre segna la chiusura simbolica del loro
primo anno di attività live. In quei giorni, la band stava ultimando i
preparativi per il loro primo, storico tour americano che sarebbe iniziato il
26 dicembre a Denver. Fu in quel preciso frangente che il nome "The New
Yardbirds" venne definitivamente consegnato agli archivi.
"Avevamo un'energia che non riuscivamo a contenere.
Non eravamo i 'nuovi' Yardbirds, eravamo qualcosa di completamente diverso. Era
pesante, era viscerale, era elettrico". — Note dai diari
dell'epoca.
Il periodo intorno al 22 dicembre 1968 può essere
considerato a tutti gli effetti il vero "Big Bang" dell'Hard Rock. In
quei giorni frenetici, i Led Zeppelin non erano più solo una scommessa, ma una
forza della natura pronta a esplodere.
La band aveva ormai forgiato un repertorio d'acciaio: brani
come Dazed and Confused e Communication Breakdown erano già stati
messi a punto, diventando i pilastri di una scaletta destinata a sconvolgere il
pubblico. Ma la vera magia risiedeva nell'alchimia tra i quattro, che proprio
in quel momento aveva raggiunto una sintesi perfetta. La sezione ritmica,
formata dal basso solido di John Paul Jones e dalla batteria tellurica di John
Bonham, aveva dato vita a un "muro del suono" senza precedenti per
potenza e precisione.
Al centro di questo ingranaggio perfetto c'era Jimmy Page.
In veste di produttore e visionario, Page aveva ormai preso saldamente in mano
il timone del progetto, consapevole di avere tra le mani qualcosa di
rivoluzionario. Con il suono definito e l'intesa al massimo, la band era
finalmente pronta a imbarcarsi per gli Stati Uniti, decisa a esportare quel
nuovo linguaggio musicale che avrebbe cambiato per sempre la storia del rock.
Pochi giorni dopo quel fatidico 22 dicembre, i poster
americani avrebbero iniziato a riportare un nome che avrebbe cambiato la musica
per sempre. Il pubblico che li vide in quei giorni di fine '68 fu testimone di
un miracolo: la trasformazione di una band di "sostituti" nella più
grande rock band del pianeta.
Oggi ricordiamo il 22 dicembre come l'ultimo respiro di
un'epoca e il primo vagito del Dirigibile, pronto a spiccare il volo
verso l'immortalità.
La notizia della scomparsa di Mick
Abrahamsporta con sé il peso di
un’epoca che si chiude, quella del blues-rock britannico più autentico e
viscerale. Per chi ha avuto il privilegio di incrociare il suo cammino, come
accadde a me durante la Convention dei Jethro Tull ad Alessandria nel
2008, il ricordo dell'uomo non è meno vivido di quello del musicista. In
quell'occasione, Abrahams si era mostrato esattamente per ciò che era: una
persona schiva ma affabile, lontana anni luce dagli stereotipi della rockstar e
profondamente legata alla sostanza della musica.
Mick Abrahams è stato il primo chitarrista dei Jethro Tull,
colui che ha impresso il carattere blues e jazzato al loro album d'esordio, This Was (1968). Senza il suo tocco ruvido e la sua tecnica cristallina, brani
come "Cat's Squirrel" o "A Song for Jeffrey"
non avrebbero avuto lo stesso impatto.
Tuttavia, il suo percorso con la band fu segnato da una
scelta drastica che definì l'intera sua carriera. Mentre Ian Anderson spingeva
per un’evoluzione sonora che si allontanava dalle radici per abbracciare un
rock progressivo più complesso e barocco, Abrahams scelse di rimanere fedele
alla propria rettitudine artistica. Per lui, il blues non era una fase
passeggera, ma l'essenza stessa del fare musica. Questa divergenza
inconciliabile lo portò ad abbandonare il gruppo proprio nel momento del
successo nascente, preferendo la libertà espressiva alla popolarità di un
progetto che non sentiva più suo.
Dopo l'addio ai Tull, Abrahams non restò a guardare e fondò i
Blodwyn Pig, una formazione che riuscì a fondere rock, blues e jazz con
una libertà notevole. Album come Ahead Rings Out restano pietre
miliari per gli appassionati, dimostrando che la sua capacità di scrittura
poteva reggere il confronto con chiunque nella scena londinese di fine anni
'60.
La sua carriera non è stata fatta di grandi stadi, ma di una
costante ricerca della qualità. Negli anni ha continuato a pubblicare album
solisti e a collaborare con vari musicisti, mantenendo sempre quell'integrità
che lo aveva portato a preferire la coerenza alla fama facile.
La sua morte segna la perdita di un chitarrista che non ha
mai cercato di sovrastare la melodia con il virtuosismo fine a sé stesso. Chi
lo ha ascoltato dal vivo, o chi ha avuto la fortuna di scambiarci due
chiacchiere in contesti intimi come quello di Alessandria, sa che Mick parlava
attraverso le sue corde con la stessa onestà con cui aveva saputo dire
"no" a Ian Anderson per restare fedele a sé stesso.
Con Intimités,
pubblicato il 16 settembre 2025, Ivan
Jacquininaugura la sua carriera
solista con un lavoro che sorprende per delicatezza e sincerità. Dopo
trent’anni di attività in band e progetti dalle sonorità sinfoniche, prog e
metal (Foreign Rock Opera, The Raging Project, Psychanoïa), il musicista
francese sceglie di spogliarsi delle orchestrazioni monumentali per abbracciare
un registro intimo, quasi confessionale.
Jacquin, pianista, tastierista, cantante e compositore, ha
curato personalmente ogni fase del progetto: scrittura, registrazione,
mixaggio, mastering e persino la promozione. Questa radicale indipendenza
conferisce all’album un carattere autentico, quasi artigianale, che mette in
primo piano la voce e il pianoforte, strumenti con cui l’artista si espone
senza filtri. Le melodie sono semplici, accessibili, ma mai banali: rivelano un
lato più sobrio e pop-rock, con sfumature blues e soft jazz.
Pur trattandosi di un album solista, Jacquin ha voluto
arricchire il tessuto sonoro con la presenza di musicisti di rilievo
internazionale:
Amanda Lehmann (Steve Hackett Band) – chitarra
e voce
Maria Barbieri – chitarra
Henri-Pierre Prudent – batteria
Denis Codfert – batteria
Trev Turley –
basso
Richard
Lefranc – basso
Queste collaborazioni, provenienti da Francia, Inghilterra e
Italia, aggiungono sfumature preziose: la chitarra ariosa di Lehmann, il tocco
fluido di Barbieri, la solidità ritmica di Prudent e Codfert, il groove di
Turley e Lefranc.
I sette brani di Intimités nascono da esperienze
personali e da scritti di oltre vent’anni fa, concepiti in un periodo di
fragilità emotiva. L’album si muove tra amore, assenza, sogni e introspezione,
con testi prevalentemente in francese che, lungi dall’essere un limite, diventano
un punto di forza: la lingua madre restituisce autenticità e intensità. Brani
come “Un chemin”, “In the Air” e “Derrière la fenêtre”
mostrano la capacità di Jacquin di fondere la sua voce sottile con atmosfere
eteree e velate, mentre “Un prénom un visage” e “Autre départ”
rivelano un gusto melodico che avvicina l’ascoltatore a una dimensione quasi
terapeutica.
Se in passato Ivan si è definito eclettico, capace di
spaziare dal prog al metal, dalla musica celtica alla world music, con Intimités
dimostra di saper ridurre la complessità senza perdere profondità. È un album
che non rinnega il passato ma apre una nuova strada, più intima e personale,
senza rinunciare al dialogo con altri artisti. Il futuro sembra già tracciato:
un secondo album solista è in preparazione, accanto a nuovi capitoli di The
Raging Project e della rock opera Foreign. La dimensione collettiva resta
centrale, ma Intimités segna un momento di verità e di coraggio
artistico.
Intimités è un lavoro che conquista per la sua
sincerità: un disco che non cerca effetti spettacolari ma si affida alla forza
delle emozioni e alla fragilità della voce. Ivan Jacquin dimostra che la vera
intensità non sta sempre nella potenza sonora, ma nella capacità di raccontare
sé stessi con delicatezza. Un debutto solista che merita attenzione,
soprattutto per chi ama scoprire il lato umano dietro la tecnica e la storia di
un musicista.
Puoi raccontarci come sei entrato nella musica e
quali sono stati i tuoi primi progetti prima di Intimacies?
Ho iniziato a studiare musica a sette anni al
Conservatorio, dedicandomi per otto anni al solfeggio e al pianoforte classico.
Successivamente mi sono avvicinato al jazz e all’improvvisazione, che ho
approfondito per altri sette anni. Intorno ai 17 anni ho iniziato a suonare in
diverse band: dapprima come batterista, poi come cantante e tastierista. La mia
prima esperienza è stata con un gruppo extreme metal, gli Horrorified, ma ben
presto mi sono orientato verso il rock progressivo, più vicino ai miei gusti e
al desiderio di comporre musica originale. Con i Lifeseeker ho lavorato dal
1992 al 2001. In seguito, ho cantato e suonato in numerose formazioni, sempre
legate al prog, spesso con sfumature metal e sinfoniche (Acid Rain, Network,
Tribute to Hallyday, Symphonic Tribute to Pink Floyd, Aegirson, Psychanoia…),
oltre a band da me fondate come Projekt One, Project Rage, Amonya, Foreign Rock
Opera e The Raging Project. Ho collaborato con molti artisti, partecipando ai
loro album e invitandoli nei miei, e ho calcato i palchi di centinaia di concerti.
Oggi ho finalmente pubblicato il mio primo vero album solista, Intimités.
In cosa si differenzia Intimacy dalle tue
produzioni precedenti, più sinfoniche e rock/metal, come Foreign Rock Opera o The
Raging Project?
Intimacy rivela un
lato molto più sobrio della mia musica, quasi pop, che non avevo mai esplorato.
In passato mi sono sempre dedicato a grandi orchestrazioni e a collaborazioni
con musicisti prevalentemente rock e metal. Qui invece mi espongo maggiormente:
canto accompagnandomi al pianoforte, con melodie semplici e accessibili. Ho
lavorato sulla mia voce per renderla più sottile e meno aggressiva, e ho
ripreso le mie abilità pianistiche, che avevo trascurato a favore dei synth.
Hai sottolineato di aver curato quasi tutto da solo
(composizione, registrazione, missaggio, promozione). Cosa significa per te
questa scelta radicale di indipendenza?
Si tratta di brani scritti molto tempo fa, che non
avevo mai avuto occasione di finalizzare. Ho voluto sperimentare l’intero
processo creativo di un album: dalla composizione alla registrazione, fino al
mixaggio e al mastering. Il risultato, per essere una prima prova, credo sia
più che dignitoso. Naturalmente ci sono aspetti da migliorare, ma l’esperienza
mi servirà per crescere: non ho alcuna intenzione di fermarmi qui.
Come sono nate le collaborazioni con ospiti come
Amanda Lehmann, Maria Barbieri o Trev Turley?
Amanda Lehmann aveva già partecipato a due miei
album precedenti, Foreign e The Raging Project. L’ho conosciuta
grazie a un concerto di Steve Hackett, con cui suona da oltre dieci anni, e
sono rimasto colpito dal suo stile chitarristico e dalla sua voce. Nei miei
brani porta un tocco personale, arioso e melodico, oltre a una preziosa
sensibilità femminile. Trev Turley, noto bassista inglese, si è offerto
spontaneamente di collaborare e ho accettato con entusiasmo. Maria Barbieri
l’ho scoperta attraverso i suoi video di improvvisazione jazz e prog: mi ha
conquistato con il suo stile fluido e virtuoso. Nel mio album brilla sia nel
blues Derrière la fenêtre sia nel brano più prog Autre départ.
Hai scelto di cantare principalmente in francese.
Pensi che questo possa avvicinare o allontanare il pubblico internazionale?
All’inizio temevo fosse un ostacolo, perché non mi
sento del tutto a mio agio a cantare nella mia lingua madre. Tuttavia,
considerando che metà dei musicisti ospiti sono inglesi o italiani, credo possa
diventare un punto di forza. Le vendite e le recensioni, infatti, arrivano
soprattutto dall’estero: Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Norvegia, Polonia,
persino dagli Stati Uniti. In Francia, invece, è molto difficile raggiungere il
grande pubblico quando si è autoprodotti e indipendenti.
L’album è descritto come intimo, fragile, etereo.
Quali emozioni o esperienze personali ti hanno guidato nella scrittura?
Molti di questi brani risalgono a oltre vent’anni
fa. Li scrissi in un periodo in cui sentivo il bisogno di esprimere emozioni
più intime e personali: amore, assenza, sogni, la mancanza dell’altro. Uscivo
da due relazioni molto difficili e la scrittura fu per me una sorta di terapia,
un modo per liberare emozioni intense. Nonostante il tempo trascorso, i testi
restano ancora attuali.
Dopo Intimacies, pensi di proseguire su questa
strada più intima o tornerai alle grandi produzioni rock e metal?
Entrambe le dimensioni ormai convivono. Ho già
pronte alcune canzoni per un secondo album solista, forse ancora più raffinato,
e sto lavorando a un EP di The Raging Project. Inoltre, devo iniziare a
progettare la terza e ultima parte della rock opera Foreign. Tutto
questo avviene in parallelo alle collaborazioni con artisti che ammiro e che,
fortunatamente, ricambiano con entusiasmo. L’aspetto umano e collettivo della
musica è per me essenziale.
Alcuni ospiti sono italiani e il pubblico qui
potrebbe non conoscerti ancora. Hai in programma concerti o collaborazioni
specifiche in Italia?
È la prima volta che collaboro con un’artista
italiana e mi piacerebbe molto lavorare di nuovo con Maria Barbieri: è una
persona splendida e di grande talento. Per il futuro sogno di coinvolgere
Angela Di Vincenzo dei Secret Rule e Cristina Scabbia dei Lacuna Coil: sarebbe
un onore scrivere per voci così straordinarie. Sono anche in contatto con Andy
Menario, chitarrista dei Secret Rule, che probabilmente remixerà uno o due
brani del primo album dei Foreign, originariamente cantati da Amanda
Somerville. Questa nuova uscita è prevista per il 2026. Quanto ai concerti, al
momento non ci sono date fuori dalla Francia, ma mi piacerebbe molto portare la
mia musica anche in Italia.
Guardando alla tua carriera, dai tributi ai Pink
Floyd ai progetti prog e metal, come definiresti oggi la tua identità
artistica?
In una parola: eclettico. Ho gusti musicali molto
vari — rock, metal, classica, prog, jazz, fusion, elettronica, musica
medievale, celtica, world music — e sono felice di poter esplorare universi
diversi, sempre con passione e gioia. La cosa più importante è essere
circondato da artisti straordinari, ognuno capace di portare nuove energie e
stimoli.
Oggi è il 19 dicembre, data che segna l’anniversario
della nascita di Alvin Lee, nato a
Nottingham nel 1944. Considerato uno dei chitarristi più influenti della
sua generazione, Lee ha legato indissolubilmente il suo nome alla storia del
rock grazie alla sua velocità esecutiva e al sodalizio con i Ten Years After.
Cresciuto in una famiglia appassionata di jazz e blues, Alvin
Lee iniziò a suonare la chitarra a tredici anni. La sua formazione musicale,
influenzata da giganti come Chuck Berry e Scotty Moore, emerse chiaramente nel
suono dei Ten Years After, la band con cui raggiunse la fama internazionale
alla fine degli anni Sessanta. Il gruppo si distinse per una miscela di blues
rock e jazz, sorretta dalla tecnica virtuosistica di Lee.
L'evento che trasformò Alvin Lee in un'icona globale fu il
festival di Woodstock nel 1969. L'esibizione del brano I'm Going
Home rimane uno dei momenti più celebri del documentario dedicato
all'evento. In quell'occasione, Lee utilizzò la sua Gibson ES-335 rossa,
soprannominata "Big Red", decorata con simboli pacifisti, dimostrando
una velocità e un'energia che gli valsero il soprannome di "chitarrista
più veloce del West".
Nonostante il successo commerciale, Lee cercò spesso di
distanziarsi dall'etichetta di "velocista", preferendo esplorare
sonorità più vicine al rock’n’roll classico e al country rock. Dopo lo
scioglimento dei Ten Years After, intraprese una carriera solista che lo portò
a collaborare con artisti del calibro di George Harrison, Ronnie Wood e Mylon
LeFevre. La sua discografia successiva riflette il desiderio di mantenere un
approccio più essenziale e radicato nelle tradizioni musicali americane.
Alvin Lee è scomparso il 6 marzo 2013, all'età di 68
anni, a causa di complicazioni insorte dopo un intervento chirurgico di
routine. La sua eredità rimane custodita in una vasta produzione discografica e
nell'influenza esercitata su generazioni di chitarristi, che continuano a
guardare alla sua tecnica e alla sua capacità di fondere generi diversi come a
un punto di riferimento fondamentale per il rock moderno.
Compie oggi 82 anniKeith
Richards, nato a Dartford il 18 dicembre del 1943.
Per ricordarlo propongo un mio post di qualche tempo fa, incentrato
su di un aspetto tecnico, per evidenziare quanto Keith sia stato innovativo, fatto
su cui non tutti sono d’accordo.
Nel corso della
lettura di“life”, il racconto della
vitadi Keith Richards,
sono rimasto colpito dalla storia riguardante il suo modo di suonare la
chitarra, delle cinque corde e dell’accordatura aperta in SOL da lui utilizzata
nel corso degli ultimi cinquant'anni.Non credo abbia fatto
proseliti, ma di sicuro è stato un innovatore. Richards non piace a
molti, musicalmente parlando, e molti lo detestano per il suo stile di vita mentre altri pensano che non sia tecnicamente degno di nota e che sia impropriamente
inserito nella lista dei migliori chitarristi esistenti. Ciò che descrivo a
seguire mi pare dimostri almeno la condizione oggettiva di archetipo del
chitarrista elettrico, e ciò non mi pare fatto privo di significato.
Tratto liberamente da
“life”, autobiografia diKeith Richards.
La grande scoperta
che feci alla fine del 1968 o nei primi mesi del ’69 fu l’accordatura aperta a
cinque corde. Mi cambiò la vita. E’ così che suono i riff e le canzoni per cui
gli Stones sono più conosciuti -Honkey
Tonk Woman, Brown Sugar, Tumbling Dice, Start Me Up e Satisfaction.
Ero giunto a un punto
morto ed ero convinto di non fare progressi con l’accordatura standard, da
concerto. Non imparavo più e certi sound che cercavo non riuscivo ad ottenerli.
Era da un pò che facevo esperimenti con le accordature. Il più delle volte le
cambiavo perché avevo in testa una canzone, eppure, per quanto mi impegnassi,
non ero in grado di tradurla in accordi con l’impostazione tradizionale. In più
volevo riprendere alcune cose tipiche dei vecchi chitarristi blues e trasporle
sull’elettrica mantenendone la semplicità di base e la purezza. Fu allora che
venni a sapere tutta quella roba sul banjo.
Di solito
l’accordatura del banjo veniva impiegata sulla chitarra per eseguire la tecnica
slide o utilizzare il collo di bottiglia. “Accordatura aperta” significa
semplicemente che la chitarra è stata impostata, in precedenza, su un accordo
maggiore (ma esistono modalità diverse).
Io avevo lavorato sul
RE e sul Mi aperti. Ero venuto a sapere
cheDon Everlyusava un’accordatura aperta in alcuni
brani. Si limitava a fare il
barrè, a far scorrere il dito sulla tastiera. Il primo a suonare un
SOL aperto davanti ai miei occhi fuRy
Cooder, malgrado se ne servisse esclusivamente per la tecnica slide, ancora
con il MI basso. Io decisi che era troppo limitante, e che il MI basso mi stava
tra i piedi. Mi accorsi che non ne avevo bisogno, non stava mai accordato e mi
era d’intralcio rispetto a ciò che volevo fare, così lo tolsi, e la 5° corda, e
il LA, divenne la nota più bassa. Se per caso colpivo quella corda non dovevo
più preoccuparmi, né dovevo regolare gli armonici e tutte quelle cose che
neppure mi servivano.
Cominciai a
strimpellare con l’accordatura aperta… territorio inesplorato. Cambi una corda e
d’un tratto ti ritrovi con un universo completamente nuovo sotto le dita. Tutto
ciò che pensavi di sapere è volato fuori dalla finestra. Nessuno aveva mai
pensato di suonare accordi minori su un’accordatura aperta maggiore, perché sei
costretto ad usare degli espedienti. Devi ripensare tutto, come se il tuo
pianoforte fosse stato capovolto, e i tasti neri fossero diventati bianchi, e
quelli bianchi neri. Oltre alla chitarra devi riaccordare la testa e le dita. E
abbandoni il regno della musica comune. La maestosità dell’accordatura
aperta in SOLsu una chitarra
elettrica a cinque corde è che ci sono solo tre note - le altre due sono
doppioni disposti su ottave diverse - .
Lasequenzaè:SOL- RE- SOL – SI- RE.
Certe corde
risuonano, quindi, per l’intera canzone tenendo sempre bordone, e dato che sei
su un’elettrica, producono un riverbero. Solo tre note, ma
grazie a quei doppioni su ottave diverse, la distanza tra note alte e basse è
colmata dal suono, con una magnifica risonanza squillante. A forza di suonare
con le accordature aperte mi sono reso conto che ci sono un milione di posti
dove non devi mettere le dite. Le note ci sono già. L’accordatura aperta
funziona se riesci a individuare i punti dove posizionare le dita, e se
azzecchi l’accordo giusto ne puoi sentire un altro sottostante che vibra anche
se non lo stai suonando. Eppure c’è, e sfida ogni logica. Ciò che conta è ciò
che lasci fuori. Fai risuonare tutto in modo che una nota si armonizzi con
l’altra, e vedrai che, se hai cambiato posizione delle dita, quella nota
riecheggerà ancora. Lascia che continui. Si chiama bordone, o almeno io la
chiamo così. Da un punto di vista logico sembra senza senso, ma quando stai
suonando e ti accorgi che la nota prosegue nonostante tu abbia cambiato
accordo, ecco, quella è la fondamentale della canzone, è il bordone. Imparare di nuovo a
suonare la chitarra mi appassionò e mi diede vigore. Era uno strumento diverso.
Feci costruire delle chitarre a cinque corde per me. Non ho mai voluto suonare
come qualcun altro, e dopo quella fase ho voluto scoprire ciò che la chitarra o
il piano avevano da insegnarmi. Le cinque corde
fecero piazza pulita del disordine. Mi consentirono di trovare nuovi lick e
intessere trame più ricche. Potevo quasi sovrapporre la linea melodica agli
accordi, grazie alla possibilità di aggiungere note qua è là.
E tutto a un tratto,
anziché avere due chitarre, era come se avessi un’intera orchestra. Non sapevi
più chi suonasse cosa… era fantastico.
Ian Stewartci chiamava
affettuosamente i suoi “prodigi da tre corde”, ma era un titolo onorevole. Che
cosa puoi fare con quei tre accordi? Chiedete aJohn LeeHooker, la maggior parte delle
sue canzoni ne aveva solo uno, così come i pezzi di Howlin’WolfeBob
Didley… solo un accordo. Fu ascoltando loro che compresi che la tela a mia
disposizione era il silenzio. Il genere di musica in cui si tappano tutti i
buchi in modo frenetico non era certo la mia passione, né ciò che ascoltavo
volentieri. Con cinque corde potevo essere sobrio, lasciando un vuoto tra un
accordo e un altro. Ecco cosa mi ha insegnato “Heart-break Hotel. Quella fu la
prima volta in cui sentii qualcosa di così spoglio. Allora non ragionavo come
adesso, ma quello mi rimase impresso, quell’incredibile profondità al posto di
un proliferare di fronzoli. Per un ragazzo della mia età fu una rivelazione.
Passare alla cinque
corde fu come voltare pagina: là iniziava un’altra storia e.. sto ancora
esplorando!