giovedì 25 dicembre 2025

“Sdraiato sull’arcobaleno”, Maurizio Ciro Donnarumma

 


 “Sdraiato sull’arcobaleno”, di Maurizio Ciro Donnarumma

(a partire dall’ascolto del singolo “Momenti”)


A volte basta un link condiviso con semplicità per aprire una porta inattesa. “Spero però che vorrai ascoltare questo brano scritto e cantato da me”, scrive Maurizio Ciro Donnarumma presentando Momenti, accompagnato da un augurio di buone feste e dal link al suo video su YouTube. È un invito gentile, quasi timido, che non lascia intuire la profondità del progetto da cui il brano proviene: l’album Sdraiato sull’arcobaleno, disponibile su tutte le piattaforme streaming.

Ed è proprio partendo da Momenti che si comprende la natura del lavoro di Donnarumma: un cantautore che arriva tardi alla pubblicazione, ma con una voce già pienamente formata, nutrita da vita vissuta, ricordi, lutti e passioni coltivate per decenni.

 

Sdraiato sull’arcobaleno non è un disco costruito per il mercato: è un atto di restituzione. Donnarumma raccoglie quindici brani scritti in momenti diversi della sua esistenza e li porta finalmente alla luce grazie a un lavoro artigianale svolto nel suo studio domestico. Il titolo richiama il brano dedicato al figlio Nicola, scomparso nel 2002: una canzone che non cerca la tragedia, ma la luce, come se la musica potesse trasformare il dolore in un gesto di continuità.

Il singolo che l’autore propone come primo ascolto è emblematico del suo stile: una scrittura diretta, melodie immediate, una voce che non punta alla perfezione ma alla sincerità. È un brano che funziona come chiave d’accesso all’intero album: semplice in superficie, ma attraversato da una malinconia gentile che invita a esplorare il resto del repertorio.

L’album si muove tra un rock morbido, profumo di blues e funky, ballate cantautorali e incursioni latine.

Questa varietà è uno dei punti di forza del progetto, anche se talvolta rischia di frammentare l’ascolto. Ma è una scelta coerente con la natura dell’autore: Donnarumma non costruisce un “concept”, ma un mosaico di esperienze.

Il vero centro dell’album sono i testi. Donnarumma scrive come chi ha attraversato stagioni diverse della vita e ha imparato a guardarle con lucidità. Non c’è retorica, non c’è artificio: solo storie, ricordi, riflessioni. La voce, pur non essendo tecnicamente impeccabile, ha una qualità rara: credibilità.

Il disco porta con sé la firma di una produzione domestica, con il pregio dell’autenticità, spontaneità, assenza di sovrastrutture; a cercare qualche limite si potrebbe indicare qualche rigidità negli arrangiamenti e un mix non sempre equilibrato.

Ma questi aspetti non indeboliscono il progetto: lo caratterizzano. È un album che non finge di essere ciò che non è.

Donnarumma usa questa definizione con ironia, ma è perfetta: non è un giovane in cerca di visibilità, è un autore che ha finalmente trovato il coraggio di condividere ciò che ha scritto per una vita intera.

Sdraiato sull’arcobaleno è un album sincero, emotivo, imperfetto e profondamente umano. Non punta alla spettacolarità, ma alla verità.

E proprio per questo merita ascolto.


ASCOLTO DELL'ALBUM




mercoledì 24 dicembre 2025

"Fairytale of New York", la migliore canzone natalizia di tutti i tempi

 

Fairytale of New York è una canzone natalizia del gruppo irlandese The Pogues, pubblicata nel 1987, ed eseguita insieme alla cantante Kirsty MacColl.

Il brano, una ballata in stile folk irlandese, è stato scritto da Jem Finer e Shane MacGowan (che ci ha lasciato pochi giorni fa) e fa parte dell'album del gruppo intitolato If I Should Fall from Grace with God. L'arrangiamento è di Fiachra Trench.

È stata votata come migliore canzone natalizia di tutti i tempi in vari sondaggi televisivi, radiofonici e giornalistici effettuati nel Regno Unito e in Irlanda.

Originariamente la canzone doveva essere un duetto tra Shane MacGowan e la bassista dei Pogues Cait O'Riordan, ma quest'ultima lasciò il gruppo nel 1986, prima che il brano fosse stato completato. All'epoca il produttore dei Pogues era Steve Lillywhite, che chiese a sua moglie Kirsty MacColl di registrare una traccia per la voce femminile che fungesse da linea guida in una versione demo del pezzo. L'esecuzione della MacColl piacque così tanto ai Pogues che le chiesero di interpretare il brano anche nella sua versione definitiva.

Il brano descrive una sorta di sogno ad occhi aperti di un immigrato irlandese che sta passando la vigilia di Natale smaltendo una sbornia chiuso in una cella da ubriachi a New York. Quando un altro ubriaco chiuso con lui nella cella si mette a cantare una strofa della ballata irlandese The Rare Auld Mountain Dew il narratore (MacGowan) inizia a sognare il personaggio femminile del brano. Il resto della canzone (che può essere interpretato come un monologo interiore) prende la forma di un botta e risposta tra la coppia, che la vigilia di Natale, litigando, parla delle proprie speranze giovanili distrutte dall'alcolismo e dalla dipendenza dalla droga.

Il canto melodioso della MacColl crea un forte contrasto con la voce rauca e impastata di MacGowan, e le strofe sono di tono talvolta dolce-amaro altre semplicemente amareggiato: es. Happy Christmas your arse/I pray God it's our last (It. "Buon Natale stronzo! / Prego Dio che sia l'ultimo insieme"). I versi Sinatra was swinging e cars as big as bars (It. "Sinatra cantava lo swing" e "Automobili grandi come bar") lasciano intendere che la storia sia ambientata verso la fine degli anni quaranta.

Il titolo, ripreso dal romanzo A Fairy Tale of New York dello scrittore James Patrick Donleavy, venne scelto dopo che il brano era stato già registrato.

Il video

Nel brano MacGowan e la MacColl intonano per due volte, "The boys of the NYPD choir still singing "'Galway Bay" (It. "I ragazzi del coro della NYPD stanno cantando 'Galway Bay'"). Il Dipartimento di polizia di New York in realtà non ha un coro, ma dispone di una banda di percussioni e cornamuse che ha partecipato alla realizzazione del video. La banda non sapeva suonare Galway Bay e, mentre veniva filmata, suonò invece la sigla del Mickey Mouse Club; il filmato venne poi opportunamente rallentato in fase di produzione per adattarlo al ritmo del brano.

Al video ha preso parte l'attore Matt Dillon, che ha interpretato il poliziotto che arresta lo sbronzo MacGowan.

 

Censura

Il 18 dicembre 2007 l'emittente radiofonica BBC Radio 1 censurò le parole "faggot" (it. frocio) e "slut" (it. puttana) da Fairytale of New York per "evitare di commettere un reato". Le parole, cantate dalla MacColl e da MacGowan come insulti reciproci, furono coperte da un suono. La madre di Kirsty MacColl definì la censura "ridicola", mentre i Pogues dissero di averla trovata "divertente". La BBC in un comunicato disse: "Abbiamo trasmesso una versione modificata perché alcuni ascoltatori potrebbero trovare l'originale offensivo". Più tardi, la stessa sera, l'emittente fece marcia indietro e fece sapere che, dopo una giornata passata a sentire le critiche di artisti e ascoltatori, avevano deciso di ritornare sulla propria decisione. Sempre la stessa sera andò quindi in onda anche la versione integrale. Gli altri canali della BBC, tra cui la tendenzialmente conservatrice BBC Radio 2, continuarono a trasmettere la versione originale.

Anche MTV ha rimosso e reso incomprensibili le parole "slut", "faggot" e "arse" al momento di trasmettere il brano.

Popolarità

La canzone fu lanciata nel Regno Unito e in Irlanda nel novembre 1987 e divenne rapidamente un successo, trascorrendo cinque settimane al primo posto della classifica di vendita irlandese. Il 17 dicembre 1987 i Pogues e la MacColl eseguirono il brano nel popolare spettacolo televisivo della BBC Top of the Pops, esibizione che spinse Fairytale of New York al secondo posto della classifica ufficiale UK Top 75.

Il brano concluse al 48º posto tra i più venduti del 1987 nonostante fosse stato in vendita solo per un mese e non ottenne il primo posto nella Classifica britannica dei singoli natalizi, andato alla cover di Always on My Mind dei Pet Shop Boys. Sembra che MacGowan abbia commentato il fatto con la sua tipica "delicatezza" affermando: "Siamo stati battuti da due checche e una drum machine". In seguito, la Mac Coll dichiarò di non essersi in realtà mai sentita in competizione con i Pet Shop Boys, in quanto facevano un genere di musica completamente diverso.

La canzone fu ripubblicata dai Pogues nel Regno Unito nel 1991 (raggiungendo il 36º posto) e nuovamente nel Regno Unito e in Irlanda per il Natale 2005, raggiungendo il 3º posto della classifica nel Regno Unito. Tutti i proventi di quest'ultima edizione furono devoluti parte a varie associazioni che si occupano dei senzatetto e parte a Justice for Kirsty, una campagna di sensibilizzazione organizzata per far emergere la verità riguardo alla morte della MacColl, avvenuta nel 2000.

Nel 1996 è stata usata come brano introduttivo del film Basquiat.

Con l'avvento del fenomeno del download, che ha permesso a un brano di entrare nelle classifiche di vendita anche senza la presenza di un supporto fisico, Fairytale of New York ha fatto regolarmente il suo ingresso nella classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito e in Irlanda nel dicembre di ogni anno a partire dal 2005. Verso la fine del 2012 ha raggiunto il milione di copie vendute nel Regno Unito.

Il 22 dicembre 2005 i Pogues hanno eseguito il brano in uno speciale televisivo condotto da Jonathan Ross su BBC One; il posto della MacColl come interprete femminile fu preso dalla cantante Katie Melua. Si trattò della prima esecuzione televisiva del pezzo da parte dei Pogues dopo il 1988.

Nel dicembre 2012 la canzone è stata ripubblicata per celebrarne il venticinquennale.

Il brano, eseguito dal cantante folk irlandese Christy Moore, è presente sul suo album del 1991 Smoke and Strong Whiskey.

Nel 2011 Angelo Branduardi ne ha scritto una versione in italiano intitolata Favola di Natale a New York, cantata con Fawzia Selama e inclusa nell'album Così è se mi pare.







martedì 23 dicembre 2025

Gianna Williams e il Dulcimer appalachiano-Intervista all'artista

 


A volte gli incontri più interessanti avvengono per puro caso. Pochi giorni fa ho conosciuto Gianna Williams, una musicista dalla solida formazione come arpista che, negli ultimi due anni, ha intrapreso un viaggio affascinante verso un oggetto sonoro tanto raro quanto suggestivo: il Dulcimer appalachiano (o mountain dulcimer). Inutile dire che sono rimasto immediatamente incantato dalle potenzialità di questo antico cordofono, dalla sua apparente semplicità e dall’entusiasmo contagioso di Gianna.

Sapevo che, negli anni '70, il dulcimer era stato il compagno di viaggio di miti del rock e del folk come Joni Mitchell (che ne fece l'ossatura dell'album Blue) e Brian Jones dei Rolling Stones. Ma vederlo dal vivo rivela una magia tecnica del tutto particolare. Si suona disteso sulle ginocchia e, a differenza della chitarra, presenta una tastiera diatonica (simile ai soli tasti bianchi del pianoforte); questa caratteristica gli conferisce quel sapore arcaico e dolce tipico della musica celtica e folk.

La sua voce è resa unica dal sistema "a bordone": mentre si modula la melodia su una corda, le altre emettono una nota costante, creando un tappeto sonoro ipnotico simile a quello delle cornamuse. Ma descriverlo solo tecnicamente, pensando ad un solo metodo performativo, sarebbe limitativo: Gianna Williams, che ha alle spalle una storia personale incredibile e intensa, ha trovato in questo "legno" una nuova forma di espressione.

Ecco l'intervista che le ho fatto per scoprire questo mondo.

Gianna, tu vieni da uno strumento regale e complesso come l’arpa. Cosa ha fatto scattare la scintilla per il dulcimer appalachiano? È stato un incontro casuale o una ricerca deliberata?

Avevo già incontrato il dulcimer cantando in uno spettacolo celtico a Genova vent’anni fa, ma non aveva catturato la mia attenzione più di tanto, proprio mentre avevo appena iniziato a suonare l’arpa celtica. Poi, esattamente due anni fa, la Vigilia di Natale, mi trovavo a casa di mio cognato irlandese, che colleziona strumenti musicali. Notando un dulcimer appeso al muro, gli chiesi se potessi provarlo. Lui lo staccò, me lo mise in braccio e disse: “Te lo puoi prendere!”. In quel momento me ne sono innamorata. Poco dopo ho scoperto, grazie a una virtuosa americana dello strumento, Jessica Comeau, il modo moderno di suonare il dulcimer, cioè con gli accordi e non solo a bordone. La facilità tecnica dello strumento (che può comunque raggiungere vette di virtuosismo impressionanti nelle mani esperte) non impedisce di creare arrangiamenti capaci di arricchire anche le melodie più semplici. Un principiante si sente subito gratificato, e non è un caso che in molte scuole americane il dulcimer venga usato come introduzione alla musica, al posto del flauto dolce. Per esempio, viene dato ai bambini che vorrebbero suonare la chitarra ma non riescono ancora a maneggiarla.

Da quanto mi hai raccontato, la tua storia personale è carica di vissuto. Puoi sintetizzare il tuo percorso? E in che modo le tue esperienze di vita hanno influenzato la necessità di abbandonare la “perfezione” dell’arpa per cercare un suono più nudo e ancestrale come quello del dulcimer?

Sono un’italiana nata in Australia; da lì ci siamo trasferiti prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra. È proprio a Chicago, da bambina, che mi sono innamorata della musica irlandese. A quei tempi si diceva che ci fossero più irlandesi a Chicago che in Irlanda… In seconda elementare portarono in classe un’arpa classica, e ricordo che, seduta ad ascoltarla, pensai: “È lo strumento più bello del mondo, ma sarà troppo difficile per me”. A otto anni mi sembrava enorme, con tutte quelle corde di colori diversi e sette pedali: impossibile. Così, ogni volta che pensavo a quale strumento volessi suonare, scrivevo “arpa” in cima alla lista, ma poi la cancellavo subito, scoraggiata da quella prima impressione. Tutto cambiò mentre preparavamo quello spettacolo a Genova. Ero stata coinvolta come cantante dopo essermi esibita in uno spettacolo amatoriale in onore di Fabrizio De André a Ceriana, dove abitavo, un paese famoso per i suoi cori e la tradizione dei canti dialettali. Un’attrice che collaborava con il flautista Gian Castello mi “scoprì” e mi propose di partecipare allo spettacolo Merlino l’Incantatore al Teatro Garage di Genova. In quell’ensemble mi trovai davanti per la prima volta un’arpa celtica e, ormai adulta, mi resi conto che non era affatto così complicata come avevo pensato. A 35 anni iniziai a studiarla con tale assiduità che compagno e familiari cercavano di dissuadermi: dicevano che trascuravo il lavoro, che spendevo troppo (le arpe, soprattutto quelle classiche, costano!). Ma la passione era troppo forte. Con l’arpa celtica riaffiorarono anche le canzoni irlandesi della mia infanzia. Il mio percorso arpistico è sempre stato fortemente folk-celtico: una musica che sa di antico, essenziale, ma anche di delicatezza. Quando un’arpista classica prende in mano la mia arpa, a volte mi viene da mettermi le mani nei capelli per l’eccessiva forza e ricchezza del loro stile, che trovo un po’ istrionico e melodrammatico. Una volta un’arpista classica mi ha persino spaccato la cassa armonica, strappando gli accordi con troppa violenza… Per questo il dulcimer si inserisce perfettamente nella mia concezione della musica antica, celtica, sognante, delicata, giocosa come un folletto.

Passare dalla postura verticale dell’arpa a quella orizzontale del dulcimer cambia completamente il rapporto fisico con la musica. Come è stato rieducare il corpo a questo nuovo modo di “abbracciare” lo strumento?

Sia l’arpa che il dulcimer possono risultare difficili da tenere in equilibrio all’inizio. L’arpa deve rimanere sospesa, appoggiata appena sulla spalla destra del musicista, in bilico. Il dulcimer, invece, tenuto sulle gambe, spesso sembra scivolare via, soprattutto quando un principiante tende a premere troppo forte per compensare l’imprecisione delle dita vicino ai tasti. Esistono però vari accorgimenti per migliorarne la stabilità, come la cintura da chitarra o i possum pads, cuscinetti antiscivolo applicati alla base. La mia difficoltà maggiore deriva dalle dita iperflessibili, che non riescono a mantenere la forma curva quando devono premere qualcosa. Con l’arpa non ho problemi, perché le dita tirano le corde; con il dulcimer, invece, devono premere, e tendono a cedere. Mia sorella ha dovuto rinunciare al violino per la stessa ragione. Disperata, mi sono rivolta a Internet e ho scoperto degli anelli che aiutano a sostenere le dita. Non risolvono completamente il problema, ma insieme alla ridotta necessità di pressione tipica dei principianti, mi permettono di gestirlo. All’inizio mi imbarazzavano, ma poi ho notato che suscitano curiosità negli ascoltatori e negli altri musicisti.

Il dulcimer è caratterizzato dal sistema “a bordone”, quel ronzio costante che accompagna la melodia. Cosa provi quando quel tappeto sonoro ipnotico inizia a vibrare sotto le dita?

Il bordone è un suono ancestrale. In un gruppo dove suono con una ghironda e una piva emiliana, anch’esse a bordone, la combinazione colpisce davvero tutti. La natura ritmica del bordone del dulcimer, unita alla trompette della ghironda, crea un’energia e uno slancio sorprendenti, perché non appartengono ad altri generi musicali, dal pop alla classica. È un suono antico, folk, che evoca visioni di guerrieri nella nebbia delle foreste nordiche. Nelle session di dulcimer, inoltre, il bordone permette ai principianti di suonare insieme ai più esperti: basta fare il bordone e funziona. Ma ciò che mi entusiasma di più è la facilità con cui posso prendere una melodia semplice e, giocando con i tasti, far emergere arrangiamenti ricchi e sorprendenti, che non mi vengono quando arrangio la stessa melodia all’arpa. È il piccolo miracolo di queste tre umili corde: metà delle volte trovo accordi stupendi senza sapere nemmeno come si chiamano.

A differenza della chitarra, il dulcimer è uno strumento diatonico. Questo limite è per te un ostacolo o una libertà?

Esiste anche il dulcimer cromatico, ma molti musicisti obiettano che, a quel punto, tanto vale comprarsi una chitarra. Per me, abituata all’arpa celtica – anch’essa fondamentalmente diatonica, perché si può modulare solo interrompendo l’esecuzione per alzare o abbassare una levetta – il dulcimer è perfetto. I dulcimer moderni hanno adottato il tasto 6+, cioè un tasto intermedio tra il sesto e il settimo, e, più raramente, il tasto 1+, che mi ha cambiato la vita. Permette modulazioni tipiche della musica antica e rinascimentale, modalità che amo inserire negli arrangiamenti. È molto più facile creare nuovi arrangiamenti con uno strumento diatonico, soprattutto se consente un minimo di modulazione.

Il dulcimer vive di accordature aperte. Come scegli l’accordatura per i tuoi brani e quanto influisce sul “colore” della storia che vuoi raccontare?

Oggi i dulcimer sono quasi sempre accordati in Re, talvolta abbassati in Do a seconda dei musicisti o dei cantanti con cui si suona. Con il capotasto al primo tasto si ottiene il Mi minore, e queste sono le tonalità principali. Nella musica irlandese – che costituisce una parte importante del repertorio tradizionale del dulcimer, grazie agli irlandesi e scozzesi emigrati negli Appalachi – molti brani sono in Re, Sol o Mi minore. Nella musica tradizionale celtica la tonalità non si cambia, ed è anche per questo che musicisti che non si conoscono possono suonare insieme immediatamente: una giga nata in Re sarà sempre suonata in Re. Niente spartiti, niente leggii. Mi è capitato di trovarmi in un pub nell’Irlanda del Nord con un’arpa e di suonare insieme a perfetti sconosciuti: le melodie della tradizione sono impresse nelle dita. È una conversazione tra estranei in un’unica lingua comune, l’esperanto della musica.

Negli anni ’70 artisti come Joni Mitchell e Brian Jones hanno portato il dulcimer nel rock. Ti senti parte di quella tradizione o stai cercando nuove sonorità?

C’è un grande interesse per la musica antica e rinascimentale, che sta rivoluzionando il repertorio dello strumento, tradizionalmente legato al folk irlandese e scozzese. Questo mi entusiasma molto, ma ho anche l’ambizione personale di inserire brani popolari italiani nel repertorio del dulcimer. Con il mio gruppo Mormorè sto scoprendo molta musica tradizionale piemontese e lombarda, e vedo che il dulcimer vi si inserisce benissimo. Recentemente abbiamo registrato Calissun con dulcimer, ghironda e piva: è stato accolto con grande entusiasmo dalla comunità britannica del dulcimer e sarà incluso in una raccolta natalizia, cosa che mi ha fatto molto piacere. Ad aprile spero di insegnare Calissun in un festival nel nord dell’Inghilterra e di suonarlo dal vivo. Con una cantante abbiamo musicato tre canzoni di Ceriana per dulcimer, presentate la scorsa estate alla festa di musica tradizionale di Santa Brigida, a Dolcedo. Un’insegnante americana di origini italiane, Nina Zanetti, sta lavorando per recuperare e arrangiare canzoni italiane per dulcimer, organizzando lezioni nei festival online – oggi il principale metodo di formazione per questo strumento – e sta pubblicando un libro di arrangiamenti italiani. Con lei collaboro correggendo le traduzioni dei testi e suggerendo brani.

Qual è l’ostacolo più grande nel far capire al pubblico moderno il valore di uno strumento così antico?

Quando presento il dulcimer negli stage o suonando per strada, la gente rimane sempre molto colpita e fa molte domande; spesso lo prende in braccio e si entusiasma. Ho persino fatto stampare un bigliettino che spiega le sue origini e include i contatti del gruppo Facebook Amici del Mountain Dulcimer. Gli ostacoli, quindi, sono pochi, se si riesce a far conoscere lo strumento. Quando l’anno scorso ho organizzato la visita di due insegnanti americani, i loro concerti erano gremiti e rappresentavano i due principali filoni dello strumento: uno legato alla cultura degli Appalachi e l’altro alla musica medievale europea, che la seconda insegnante aveva arrangiato per dulcimer.

Il dulcimer è spesso definito uno strumento “democratico” e facile da approcciare. Concordi?

Io lo vedrei benissimo sostituire il flauto dolce come primo approccio alla musica nelle scuole, come avviene in molte scuole americane. In pochi minuti anche i bambini riescono a suonare semplici melodie, con grande soddisfazione.

Qual è il tuo sogno o il tuo prossimo progetto per riportare il dulcimer appalachiano al centro dell’attenzione?

Grazie all’influenza della musicista Jean Ritchie, negli anni ’50 il dulcimer ha vissuto una rinascita negli Stati Uniti, influenzando poi la musica pop e rock, dai Rolling Stones a Joni Mitchell fino a Cyndi Lauper. Oggi in Gran Bretagna c’è una bellissima comunità di dulcimer che mi sostiene da quando ho iniziato. Il mio sogno è creare una comunità anche in Italia. Qualunque strumento che riporti le persone – bambini e adulti – a fare musica, per piacere personale o per condividerla, attingendo anche alla nostra ricchissima tradizione, merita ogni sforzo. Esistono dulcimer per principianti facilmente acquistabili e poco costosi, belli anche da appendere al muro e che non occupano spazio. Dopo i due stage che ho organizzato nel Ponente ligure l’anno scorso, stiamo preparando con il Sermig di Torino uno stage a giugno, con un docente molto conosciuto e amato: Rob Brereton. L’evento includerà lezioni, un concerto dei docenti (in contemporanea ci sarà anche uno stage di cetra con Maguy Gerentet) e il saggio finale degli allievi. Spero anche di coinvolgere i liutai italiani che costruiscono dulcimer da anni. La scorsa estate ho scritto un articolo per la rivista del Nonsuch Dulcimer Club, presentando il liutaio italiano Valerio Gorla, attivo da molto tempo. Spero che al Sermig possa nascere un festival del dulcimer a 360 gradi, dove partecipanti, liutai e pubblico possano condividere il loro entusiasmo per questo strumento. Nel frattempo, sono felicissima di presentarlo ovunque: nelle scuole, nei mercatini, nei festival. Vorrei solo essere più brava nel dimostrare tutte le possibilità sonore e tecniche del dulcimer, davvero infinite nelle mani giuste.

Da parte mia, l’auspicio è di poter approfondire ulteriormente il dulcimer e, magari insieme a Gianna, dare vita a un workshop che contribuisca a farlo conoscere e apprezzare anche nel nostro territorio.


CONTATTI E LINK UTILI:

gianna.quaglia@libero.it

giannatheharper.it  

Facebook

Amici del Mountain Dulcimer (FB)







Ricordando Leslie West e i suoi Mountain


Il 22 dicembre del 2020, all’età di 75 anni, a seguito di un attacco cardiaco, ci lasciava Leslie West, cantante e chitarrista statunitense noto per essere stato lo storico fondatore dei Mountain, di cui fu anche il chitarrista.

Vediamo qualche nota storica della band.

I Mountain furono fra i primi complessi a enfatizzare il ruolo della chitarra nell'ambito del power-trio e ad allontanare l'hard-rock dalle sue matrici blues.
Posero così le basi per un genere che usasse le vibrazioni dure fini a se stesse, l'heavy-metal. 
I Mountain furono formati dal chitarrista Leslie West (Weinstein), ex Vagrants, e dal produttore dei Cream Felix Pappalardi, (già chitarrista per Fred Neil e Tom Rush ai tempi del Greenwich Movement) di ritorno a New York, dove aveva appena prodotto l'album solista di West, intitolato appunto Mountain (Windfall, 1969).


Pubblicizzati come i "Cream d'America", la sincopata Mississippi Queen (1970) li catapultò subito nelle classifiche con un rock roccioso, affilato e fulmineo che rappresentava un passo avanti rispetto al modello originale. Quel brano e Theme For An Imaginary Western (il classico di Jack Bruce) sono i pezzi forte dell'album Mountain Climbing (Windfall, 1970). L'epica Nantucket Sleighride, sull'album omonimo (1971) coronò le loro ambizioni mitigando il sound con un melodismo reminescente della psichedelia. Pappalardi toccò il vertice della sua arte di produttore con l'album Flowers Of Evil (1971), nel segno di un raffinato pop barocco che al riff poderoso di Flowers Of Evil fa seguire le cadenze gotiche di One Last Cold Kiss e il blues sincopato Crossroader e chiude con l'onirica, orientale e rinascimentale Pride And Passion, il loro ritornello piu` suggestivo. West formò con Jack Bruce il power-trio West Bruce & Laing, che pubblicò Why Don'cha (Windfall, 1972 e Whatever Turns You On (Windfall, 1973), uno dei primi album di hard-rock con il sintetizzatore.
I Mountain si sciolsero dopo Avalanche (1974), e West formò un proprio complesso sullo stesso stile, che pubblicò The Great Fatsby (Phantom, 1975) e The Leslie West Band (1975).
Pappalardi morì nel 1983, ucciso dalla moglie. West riformò i Mountain per registrare Go For Your Life (Scotti, 1985), ma, dopo gli album solisti Theme (Capitol, 1988) e Alligator (Capitol, 1989), scomparve nel nulla.
Tornò sulle scene con Dodgin' The Dirt (Blues Bureau, 1994) e As Phat as It Gets (Lightyear, 1999). Blood of the Sun (Raven, 1996) é un'antologia della sua carriera.







lunedì 22 dicembre 2025

L'ultimo viaggio verso casa: addio a Chris Rea, la voce del Natale e del Blues.

 

È una notizia che colpisce dritto al cuore, soprattutto per il tempismo quasi surreale. Chris Rea ci ha lasciati oggi, 22 dicembre 2025, a 74 anni, proprio nei giorni in cui la sua voce diventa la colonna sonora universale di chiunque si metta in viaggio per riabbracciare i propri cari.

C’è un’ironia malinconica in tutto questo: l’uomo che ha scritto l'inno definitivo del ritorno a casa per Natale se n'è andato proprio mentre milioni di persone, in tutto il mondo, cantano insieme a lui "I'm driving home for Christmas". Ma ridurre la sua carriera a quel singolo brano sarebbe un errore imperdonabile, perché Chris Rea è stato uno dei musicisti più autentici, complessi e sottovalutati degli ultimi quarant'anni.

Nato a Middlesbrough ma con il cuore legato alle radici italiane del padre (originario di Arpino), Chris non ha mai amato le luci della ribalta. Era un uomo schivo, un artigiano della chitarra che preferiva il garage allo studio patinato. La sua carriera è stata una lunga fuga dalle etichette: i discografici lo volevano trasformare in un damerino del pop, ma lui rispondeva con la sua chitarra slide e quella voce roca, profonda, che sembrava arrivare direttamente dal delta del Mississippi, nonostante fosse cresciuto tra le nebbie dell'Inghilterra industriale.

Il suo capolavoro, The Road to Hell, non era una canzoncina leggera, ma una critica feroce alla società moderna, nata mentre era bloccato nel traffico sulla tangenziale di Londra. Era capace di passare da riflessioni cupe sulla modernità a ballate dolcissime come Josephine o Julia, dedicate alle figlie, con una naturalezza disarmante.

Negli ultimi vent'anni, la sua è stata anche una storia di incredibile resilienza. Dopo aver sconfitto un grave tumore al pancreas all'inizio degli anni 2000 – un'esperienza che lo aveva segnato fisicamente ma fortificato nello spirito – aveva deciso di mandare al diavolo le classifiche per dedicarsi esclusivamente al Blues più puro. Diceva spesso che la malattia gli aveva fatto capire che non aveva più tempo da perdere con musica che non sentisse sua.

Oggi il mondo della musica perde un gigante silenzioso. Ci lascia una discografia sterminata e quella strana sensazione di conforto che solo la sua voce sapeva dare. E per chi quest'anno accenderà la radio in macchina durante il viaggio verso casa, quel verso "top to toe in tailbacks" farà sorridere con un po' di commozione in più.

Chris Rea ha finalmente finito il suo viaggio, ma la sua musica continuerà a guidarci lungo la strada, ovunque stiamo andando.





22 Dicembre 1968: l'ultima scossa dei "New Yardbirds" prima del volo del dirigibile

 

Il 22 dicembre 1968, per la storia del rock, rappresenta il momento in cui il bozzolo dei The New Yardbirds iniziò definitivamente a schiudersi per dare vita a una creatura mitologica: i Led Zeppelin.

Mentre il mondo si preparava al Natale, in un piccolo club della periferia londinese o durante le ultime prove prima della traversata oceanica, quattro musicisti stavano portando a termine la trasformazione più radicale della musica moderna.

Tutto ebbe inizio dal collasso degli Yardbirds. Quando la band si sciolse nell'estate del '68, il chitarrista Jimmy Page si ritrovò con un pugno di mosche e una serie di contratti per concerti in Scandinavia già firmati. Per onorare quegli impegni, reclutò il turnista d'élite John Paul Jones, un giovane cantante di nome Robert Plant e il martellante batterista John Bonham.

Per motivi legali e contrattuali, la formazione dovette presentarsi inizialmente come "The New Yardbirds". Ma era chiaro fin dal primo secondo di prove che quel suono non aveva più nulla a che fare con il pop-blues psichedelico del passato.

Sebbene il nome "Led Zeppelin" fosse già stato coniato (grazie a una battuta sarcastica di Keith Moon dei The Who, secondo cui la band sarebbe "affondata come un pallone di piombo"), il dicembre del 1968 fu il mese della transizione definitiva.

Il 22 dicembre segna la chiusura simbolica del loro primo anno di attività live. In quei giorni, la band stava ultimando i preparativi per il loro primo, storico tour americano che sarebbe iniziato il 26 dicembre a Denver. Fu in quel preciso frangente che il nome "The New Yardbirds" venne definitivamente consegnato agli archivi.

"Avevamo un'energia che non riuscivamo a contenere. Non eravamo i 'nuovi' Yardbirds, eravamo qualcosa di completamente diverso. Era pesante, era viscerale, era elettrico". — Note dai diari dell'epoca.

Il periodo intorno al 22 dicembre 1968 può essere considerato a tutti gli effetti il vero "Big Bang" dell'Hard Rock. In quei giorni frenetici, i Led Zeppelin non erano più solo una scommessa, ma una forza della natura pronta a esplodere.

La band aveva ormai forgiato un repertorio d'acciaio: brani come Dazed and Confused e Communication Breakdown erano già stati messi a punto, diventando i pilastri di una scaletta destinata a sconvolgere il pubblico. Ma la vera magia risiedeva nell'alchimia tra i quattro, che proprio in quel momento aveva raggiunto una sintesi perfetta. La sezione ritmica, formata dal basso solido di John Paul Jones e dalla batteria tellurica di John Bonham, aveva dato vita a un "muro del suono" senza precedenti per potenza e precisione.

Al centro di questo ingranaggio perfetto c'era Jimmy Page. In veste di produttore e visionario, Page aveva ormai preso saldamente in mano il timone del progetto, consapevole di avere tra le mani qualcosa di rivoluzionario. Con il suono definito e l'intesa al massimo, la band era finalmente pronta a imbarcarsi per gli Stati Uniti, decisa a esportare quel nuovo linguaggio musicale che avrebbe cambiato per sempre la storia del rock.

Pochi giorni dopo quel fatidico 22 dicembre, i poster americani avrebbero iniziato a riportare un nome che avrebbe cambiato la musica per sempre. Il pubblico che li vide in quei giorni di fine '68 fu testimone di un miracolo: la trasformazione di una band di "sostituti" nella più grande rock band del pianeta.

Oggi ricordiamo il 22 dicembre come l'ultimo respiro di un'epoca e il primo vagito del Dirigibile, pronto a spiccare il volo verso l'immortalità.







domenica 21 dicembre 2025

Addio a Mick Abrahams, il chitarrista che scelse il Blues alla fama dei Jethro Tull

 


La notizia della scomparsa di Mick Abrahams porta con sé il peso di un’epoca che si chiude, quella del blues-rock britannico più autentico e viscerale. Per chi ha avuto il privilegio di incrociare il suo cammino, come accadde a me durante la Convention dei Jethro Tull ad Alessandria nel 2008, il ricordo dell'uomo non è meno vivido di quello del musicista. In quell'occasione, Abrahams si era mostrato esattamente per ciò che era: una persona schiva ma affabile, lontana anni luce dagli stereotipi della rockstar e profondamente legata alla sostanza della musica.

Mick Abrahams è stato il primo chitarrista dei Jethro Tull, colui che ha impresso il carattere blues e jazzato al loro album d'esordio, This Was (1968). Senza il suo tocco ruvido e la sua tecnica cristallina, brani come "Cat's Squirrel" o "A Song for Jeffrey" non avrebbero avuto lo stesso impatto.

Tuttavia, il suo percorso con la band fu segnato da una scelta drastica che definì l'intera sua carriera. Mentre Ian Anderson spingeva per un’evoluzione sonora che si allontanava dalle radici per abbracciare un rock progressivo più complesso e barocco, Abrahams scelse di rimanere fedele alla propria rettitudine artistica. Per lui, il blues non era una fase passeggera, ma l'essenza stessa del fare musica. Questa divergenza inconciliabile lo portò ad abbandonare il gruppo proprio nel momento del successo nascente, preferendo la libertà espressiva alla popolarità di un progetto che non sentiva più suo.

Dopo l'addio ai Tull, Abrahams non restò a guardare e fondò i Blodwyn Pig, una formazione che riuscì a fondere rock, blues e jazz con una libertà notevole. Album come Ahead Rings Out restano pietre miliari per gli appassionati, dimostrando che la sua capacità di scrittura poteva reggere il confronto con chiunque nella scena londinese di fine anni '60.

La sua carriera non è stata fatta di grandi stadi, ma di una costante ricerca della qualità. Negli anni ha continuato a pubblicare album solisti e a collaborare con vari musicisti, mantenendo sempre quell'integrità che lo aveva portato a preferire la coerenza alla fama facile.

La sua morte segna la perdita di un chitarrista che non ha mai cercato di sovrastare la melodia con il virtuosismo fine a sé stesso. Chi lo ha ascoltato dal vivo, o chi ha avuto la fortuna di scambiarci due chiacchiere in contesti intimi come quello di Alessandria, sa che Mick parlava attraverso le sue corde con la stessa onestà con cui aveva saputo dire "no" a Ian Anderson per restare fedele a sé stesso.





venerdì 19 dicembre 2025

Recensione – Ivan Jacquin, Intimités (2025)

 


Recensione – Ivan Jacquin, Intimités (2025)

 

Con Intimités, pubblicato il 16 settembre 2025, Ivan Jacquin inaugura la sua carriera solista con un lavoro che sorprende per delicatezza e sincerità. Dopo trent’anni di attività in band e progetti dalle sonorità sinfoniche, prog e metal (Foreign Rock Opera, The Raging Project, Psychanoïa), il musicista francese sceglie di spogliarsi delle orchestrazioni monumentali per abbracciare un registro intimo, quasi confessionale.

Jacquin, pianista, tastierista, cantante e compositore, ha curato personalmente ogni fase del progetto: scrittura, registrazione, mixaggio, mastering e persino la promozione. Questa radicale indipendenza conferisce all’album un carattere autentico, quasi artigianale, che mette in primo piano la voce e il pianoforte, strumenti con cui l’artista si espone senza filtri. Le melodie sono semplici, accessibili, ma mai banali: rivelano un lato più sobrio e pop-rock, con sfumature blues e soft jazz.

BANDCAMP

Pur trattandosi di un album solista, Jacquin ha voluto arricchire il tessuto sonoro con la presenza di musicisti di rilievo internazionale:

Amanda Lehmann (Steve Hackett Band) – chitarra e voce

Maria Barbieri – chitarra

Henri-Pierre Prudent – batteria

Denis Codfert – batteria

Trev Turley – basso

Richard Lefranc – basso

Queste collaborazioni, provenienti da Francia, Inghilterra e Italia, aggiungono sfumature preziose: la chitarra ariosa di Lehmann, il tocco fluido di Barbieri, la solidità ritmica di Prudent e Codfert, il groove di Turley e Lefranc.

I sette brani di Intimités nascono da esperienze personali e da scritti di oltre vent’anni fa, concepiti in un periodo di fragilità emotiva. L’album si muove tra amore, assenza, sogni e introspezione, con testi prevalentemente in francese che, lungi dall’essere un limite, diventano un punto di forza: la lingua madre restituisce autenticità e intensità. Brani come “Un chemin”, “In the Air” e “Derrière la fenêtre” mostrano la capacità di Jacquin di fondere la sua voce sottile con atmosfere eteree e velate, mentre “Un prénom un visage” e “Autre départ” rivelano un gusto melodico che avvicina l’ascoltatore a una dimensione quasi terapeutica.

Se in passato Ivan si è definito eclettico, capace di spaziare dal prog al metal, dalla musica celtica alla world music, con Intimités dimostra di saper ridurre la complessità senza perdere profondità. È un album che non rinnega il passato ma apre una nuova strada, più intima e personale, senza rinunciare al dialogo con altri artisti. Il futuro sembra già tracciato: un secondo album solista è in preparazione, accanto a nuovi capitoli di The Raging Project e della rock opera Foreign. La dimensione collettiva resta centrale, ma Intimités segna un momento di verità e di coraggio artistico.

Intimités è un lavoro che conquista per la sua sincerità: un disco che non cerca effetti spettacolari ma si affida alla forza delle emozioni e alla fragilità della voce. Ivan Jacquin dimostra che la vera intensità non sta sempre nella potenza sonora, ma nella capacità di raccontare sé stessi con delicatezza. Un debutto solista che merita attenzione, soprattutto per chi ama scoprire il lato umano dietro la tecnica e la storia di un musicista.

Tracce

1.Un chemin 04:18

2.In the air 06:57

3.On revient 03:49

4.Derrière la fenêtre 07:15

5.Si 03:58

6.Un prénom un visage 02:37

7.Autre départ 06:07


L'INTERVISTA...

Puoi raccontarci come sei entrato nella musica e quali sono stati i tuoi primi progetti prima di Intimacies?

Ho iniziato a studiare musica a sette anni al Conservatorio, dedicandomi per otto anni al solfeggio e al pianoforte classico. Successivamente mi sono avvicinato al jazz e all’improvvisazione, che ho approfondito per altri sette anni. Intorno ai 17 anni ho iniziato a suonare in diverse band: dapprima come batterista, poi come cantante e tastierista. La mia prima esperienza è stata con un gruppo extreme metal, gli Horrorified, ma ben presto mi sono orientato verso il rock progressivo, più vicino ai miei gusti e al desiderio di comporre musica originale. Con i Lifeseeker ho lavorato dal 1992 al 2001. In seguito, ho cantato e suonato in numerose formazioni, sempre legate al prog, spesso con sfumature metal e sinfoniche (Acid Rain, Network, Tribute to Hallyday, Symphonic Tribute to Pink Floyd, Aegirson, Psychanoia…), oltre a band da me fondate come Projekt One, Project Rage, Amonya, Foreign Rock Opera e The Raging Project. Ho collaborato con molti artisti, partecipando ai loro album e invitandoli nei miei, e ho calcato i palchi di centinaia di concerti. Oggi ho finalmente pubblicato il mio primo vero album solista, Intimités.

In cosa si differenzia Intimacy dalle tue produzioni precedenti, più sinfoniche e rock/metal, come Foreign Rock Opera o The Raging Project?

Intimacy rivela un lato molto più sobrio della mia musica, quasi pop, che non avevo mai esplorato. In passato mi sono sempre dedicato a grandi orchestrazioni e a collaborazioni con musicisti prevalentemente rock e metal. Qui invece mi espongo maggiormente: canto accompagnandomi al pianoforte, con melodie semplici e accessibili. Ho lavorato sulla mia voce per renderla più sottile e meno aggressiva, e ho ripreso le mie abilità pianistiche, che avevo trascurato a favore dei synth.

Hai sottolineato di aver curato quasi tutto da solo (composizione, registrazione, missaggio, promozione). Cosa significa per te questa scelta radicale di indipendenza?

Si tratta di brani scritti molto tempo fa, che non avevo mai avuto occasione di finalizzare. Ho voluto sperimentare l’intero processo creativo di un album: dalla composizione alla registrazione, fino al mixaggio e al mastering. Il risultato, per essere una prima prova, credo sia più che dignitoso. Naturalmente ci sono aspetti da migliorare, ma l’esperienza mi servirà per crescere: non ho alcuna intenzione di fermarmi qui.

Come sono nate le collaborazioni con ospiti come Amanda Lehmann, Maria Barbieri o Trev Turley?

Amanda Lehmann aveva già partecipato a due miei album precedenti, Foreign e The Raging Project. L’ho conosciuta grazie a un concerto di Steve Hackett, con cui suona da oltre dieci anni, e sono rimasto colpito dal suo stile chitarristico e dalla sua voce. Nei miei brani porta un tocco personale, arioso e melodico, oltre a una preziosa sensibilità femminile. Trev Turley, noto bassista inglese, si è offerto spontaneamente di collaborare e ho accettato con entusiasmo. Maria Barbieri l’ho scoperta attraverso i suoi video di improvvisazione jazz e prog: mi ha conquistato con il suo stile fluido e virtuoso. Nel mio album brilla sia nel blues Derrière la fenêtre sia nel brano più prog Autre départ.

Hai scelto di cantare principalmente in francese. Pensi che questo possa avvicinare o allontanare il pubblico internazionale?

All’inizio temevo fosse un ostacolo, perché non mi sento del tutto a mio agio a cantare nella mia lingua madre. Tuttavia, considerando che metà dei musicisti ospiti sono inglesi o italiani, credo possa diventare un punto di forza. Le vendite e le recensioni, infatti, arrivano soprattutto dall’estero: Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Norvegia, Polonia, persino dagli Stati Uniti. In Francia, invece, è molto difficile raggiungere il grande pubblico quando si è autoprodotti e indipendenti.

L’album è descritto come intimo, fragile, etereo. Quali emozioni o esperienze personali ti hanno guidato nella scrittura?

Molti di questi brani risalgono a oltre vent’anni fa. Li scrissi in un periodo in cui sentivo il bisogno di esprimere emozioni più intime e personali: amore, assenza, sogni, la mancanza dell’altro. Uscivo da due relazioni molto difficili e la scrittura fu per me una sorta di terapia, un modo per liberare emozioni intense. Nonostante il tempo trascorso, i testi restano ancora attuali.

Dopo Intimacies, pensi di proseguire su questa strada più intima o tornerai alle grandi produzioni rock e metal?

Entrambe le dimensioni ormai convivono. Ho già pronte alcune canzoni per un secondo album solista, forse ancora più raffinato, e sto lavorando a un EP di The Raging Project. Inoltre, devo iniziare a progettare la terza e ultima parte della rock opera Foreign. Tutto questo avviene in parallelo alle collaborazioni con artisti che ammiro e che, fortunatamente, ricambiano con entusiasmo. L’aspetto umano e collettivo della musica è per me essenziale.

Alcuni ospiti sono italiani e il pubblico qui potrebbe non conoscerti ancora. Hai in programma concerti o collaborazioni specifiche in Italia?

È la prima volta che collaboro con un’artista italiana e mi piacerebbe molto lavorare di nuovo con Maria Barbieri: è una persona splendida e di grande talento. Per il futuro sogno di coinvolgere Angela Di Vincenzo dei Secret Rule e Cristina Scabbia dei Lacuna Coil: sarebbe un onore scrivere per voci così straordinarie. Sono anche in contatto con Andy Menario, chitarrista dei Secret Rule, che probabilmente remixerà uno o due brani del primo album dei Foreign, originariamente cantati da Amanda Somerville. Questa nuova uscita è prevista per il 2026. Quanto ai concerti, al momento non ci sono date fuori dalla Francia, ma mi piacerebbe molto portare la mia musica anche in Italia.

Guardando alla tua carriera, dai tributi ai Pink Floyd ai progetti prog e metal, come definiresti oggi la tua identità artistica?

In una parola: eclettico. Ho gusti musicali molto vari — rock, metal, classica, prog, jazz, fusion, elettronica, musica medievale, celtica, world music — e sono felice di poter esplorare universi diversi, sempre con passione e gioia. La cosa più importante è essere circondato da artisti straordinari, ognuno capace di portare nuove energie e stimoli.


Alvin Lee: il 19 dicembre e le origini di una leggenda della chitarra

 


Oggi è il 19 dicembre, data che segna l’anniversario della nascita di Alvin Lee, nato a Nottingham nel 1944. Considerato uno dei chitarristi più influenti della sua generazione, Lee ha legato indissolubilmente il suo nome alla storia del rock grazie alla sua velocità esecutiva e al sodalizio con i Ten Years After.

Cresciuto in una famiglia appassionata di jazz e blues, Alvin Lee iniziò a suonare la chitarra a tredici anni. La sua formazione musicale, influenzata da giganti come Chuck Berry e Scotty Moore, emerse chiaramente nel suono dei Ten Years After, la band con cui raggiunse la fama internazionale alla fine degli anni Sessanta. Il gruppo si distinse per una miscela di blues rock e jazz, sorretta dalla tecnica virtuosistica di Lee.

L'evento che trasformò Alvin Lee in un'icona globale fu il festival di Woodstock nel 1969. L'esibizione del brano I'm Going Home rimane uno dei momenti più celebri del documentario dedicato all'evento. In quell'occasione, Lee utilizzò la sua Gibson ES-335 rossa, soprannominata "Big Red", decorata con simboli pacifisti, dimostrando una velocità e un'energia che gli valsero il soprannome di "chitarrista più veloce del West".

Nonostante il successo commerciale, Lee cercò spesso di distanziarsi dall'etichetta di "velocista", preferendo esplorare sonorità più vicine al rock’n’roll classico e al country rock. Dopo lo scioglimento dei Ten Years After, intraprese una carriera solista che lo portò a collaborare con artisti del calibro di George Harrison, Ronnie Wood e Mylon LeFevre. La sua discografia successiva riflette il desiderio di mantenere un approccio più essenziale e radicato nelle tradizioni musicali americane.

Alvin Lee è scomparso il 6 marzo 2013, all'età di 68 anni, a causa di complicazioni insorte dopo un intervento chirurgico di routine. La sua eredità rimane custodita in una vasta produzione discografica e nell'influenza esercitata su generazioni di chitarristi, che continuano a guardare alla sua tecnica e alla sua capacità di fondere generi diversi come a un punto di riferimento fondamentale per il rock moderno.





giovedì 18 dicembre 2025

Tanti auguri a Keith Richards e alla sua... accordatura aperta


Compie oggi 82 anni Keith Richards, nato a Dartford il 18 dicembre del 1943.
Per ricordarlo propongo un mio post di qualche tempo fa, incentrato su di un aspetto tecnico, per evidenziare quanto Keith sia stato innovativo, fatto su cui non tutti sono d’accordo.

Nel corso della lettura di life”, il racconto della vita di Keith Richards, sono rimasto colpito dalla storia riguardante il suo modo di suonare la chitarra, delle cinque corde e dell’accordatura aperta in SOL da lui utilizzata nel corso degli ultimi cinquant'anni. Non credo abbia fatto proseliti, ma di sicuro è stato un innovatore. Richards non piace a molti, musicalmente parlando, e molti lo detestano per il suo stile di vita mentre altri pensano che non sia tecnicamente degno di nota e che sia impropriamente inserito nella lista dei migliori chitarristi esistenti. Ciò che descrivo a seguire mi pare dimostri almeno la condizione oggettiva di archetipo del chitarrista elettrico, e ciò non mi pare fatto privo di significato.


Tratto liberamente da “life”, autobiografia di Keith Richards.

La grande scoperta che feci alla fine del 1968 o nei primi mesi del ’69 fu l’accordatura aperta a cinque corde. Mi cambiò la vita. E’ così che suono i riff e le canzoni per cui gli Stones sono più conosciuti - Honkey Tonk Woman, Brown Sugar, Tumbling Dice, Start Me Up e Satisfaction.
Ero giunto a un punto morto ed ero convinto di non fare progressi con l’accordatura standard, da concerto. Non imparavo più e certi sound che cercavo non riuscivo ad ottenerli. Era da un pò che facevo esperimenti con le accordature. Il più delle volte le cambiavo perché avevo in testa una canzone, eppure, per quanto mi impegnassi, non ero in grado di tradurla in accordi con l’impostazione tradizionale. In più volevo riprendere alcune cose tipiche dei vecchi chitarristi blues e trasporle sull’elettrica mantenendone la semplicità di base e la purezza. Fu allora che venni a sapere tutta quella roba sul banjo.
Di solito l’accordatura del banjo veniva impiegata sulla chitarra per eseguire la tecnica slide o utilizzare il collo di bottiglia. “Accordatura aperta” significa semplicemente che la chitarra è stata impostata, in precedenza, su un accordo maggiore (ma esistono modalità diverse).
Io avevo lavorato sul RE e sul Mi aperti. Ero venuto a sapere che Don Everly usava un’accordatura aperta in alcuni brani. Si limitava a fare il barrè, a far scorrere il dito sulla tastiera. Il primo a suonare un SOL aperto davanti ai miei occhi fu Ry Cooder, malgrado se ne servisse esclusivamente per la tecnica slide, ancora con il MI basso. Io decisi che era troppo limitante, e che il MI basso mi stava tra i piedi. Mi accorsi che non ne avevo bisogno, non stava mai accordato e mi era d’intralcio rispetto a ciò che volevo fare, così lo tolsi, e la 5° corda, e il LA, divenne la nota più bassa. Se per caso colpivo quella corda non dovevo più preoccuparmi, né dovevo regolare gli armonici e tutte quelle cose che neppure mi servivano.
Cominciai a strimpellare con l’accordatura aperta… territorio inesplorato. Cambi una corda e d’un tratto ti ritrovi con un universo completamente nuovo sotto le dita. Tutto ciò che pensavi di sapere è volato fuori dalla finestra. Nessuno aveva mai pensato di suonare accordi minori su un’accordatura aperta maggiore, perché sei costretto ad usare degli espedienti. Devi ripensare tutto, come se il tuo pianoforte fosse stato capovolto, e i tasti neri fossero diventati bianchi, e quelli bianchi neri. Oltre alla chitarra devi riaccordare la testa e le dita. E abbandoni il regno della musica comune. La maestosità dell’accordatura aperta in SOL su una chitarra elettrica a cinque corde è che ci sono solo tre note - le altre due sono doppioni disposti su ottave diverse - .
La sequenza è: SOL- RE- SOL – SI- RE.
Certe corde risuonano, quindi, per l’intera canzone tenendo sempre bordone, e dato che sei su un’elettrica, producono un riverbero. Solo tre note, ma grazie a quei doppioni su ottave diverse, la distanza tra note alte e basse è colmata dal suono, con una magnifica risonanza squillante. A forza di suonare con le accordature aperte mi sono reso conto che ci sono un milione di posti dove non devi mettere le dite. Le note ci sono già. L’accordatura aperta funziona se riesci a individuare i punti dove posizionare le dita, e se azzecchi l’accordo giusto ne puoi sentire un altro sottostante che vibra anche se non lo stai suonando. Eppure c’è, e sfida ogni logica. Ciò che conta è ciò che lasci fuori. Fai risuonare tutto in modo che una nota si armonizzi con l’altra, e vedrai che, se hai cambiato posizione delle dita, quella nota riecheggerà ancora. Lascia che continui. Si chiama bordone, o almeno io la chiamo così. Da un punto di vista logico sembra senza senso, ma quando stai suonando e ti accorgi che la nota prosegue nonostante tu abbia cambiato accordo, ecco, quella è la fondamentale della canzone, è il bordone. Imparare di nuovo a suonare la chitarra mi appassionò e mi diede vigore. Era uno strumento diverso. Feci costruire delle chitarre a cinque corde per me. Non ho mai voluto suonare come qualcun altro, e dopo quella fase ho voluto scoprire ciò che la chitarra o il piano avevano da insegnarmi. Le cinque corde fecero piazza pulita del disordine. Mi consentirono di trovare nuovi lick e intessere trame più ricche. Potevo quasi sovrapporre la linea melodica agli accordi, grazie alla possibilità di aggiungere note qua è là.
E tutto a un tratto, anziché avere due chitarre, era come se avessi un’intera orchestra. Non sapevi più chi suonasse cosa… era fantastico.
Ian Stewart ci chiamava affettuosamente i suoi “prodigi da tre corde”, ma era un titolo onorevole. Che cosa puoi fare con quei tre accordi? Chiedete a John Lee Hooker, la maggior parte delle sue canzoni ne aveva solo uno, così come i pezzi di  Howlin’Wolf e Bob Didley… solo un accordo. Fu ascoltando loro che compresi che la tela a mia disposizione era il silenzio. Il genere di musica in cui si tappano tutti i buchi in modo frenetico non era certo la mia passione, né ciò che ascoltavo volentieri. Con cinque corde potevo essere sobrio, lasciando un vuoto tra un accordo e un altro. Ecco cosa mi ha insegnato “Heart-break Hotel. Quella fu la prima volta in cui sentii qualcosa di così spoglio. Allora non ragionavo come adesso, ma quello mi rimase impresso, quell’incredibile profondità al posto di un proliferare di fronzoli. Per un ragazzo della mia età fu una rivelazione.
Passare alla cinque corde fu come voltare pagina: là iniziava un’altra storia e.. sto ancora esplorando!

Editore: Feltrinelli
Collana: Varia
Data uscita:  03/11/2010

Ed ecco qualche spiegazione in lingua italiana.