Immagine catturata dalla rete
Ci voleva il tema “The Who”
per farmi uscire un mercoledì sera.
Chi mi conosce sa bene
del mio incondizionato amore per una band che conobbi all’età di otto anni e
che mai ho abbandonato. Pete
Townshend è tutt’ora oggetto delle mie docenze sulla sicurezza sul lavoro,
quando arrivo al capitolo “rumore”, fattore che ha distrutto la sua capacità
uditiva e che spesso lo innervosisce. Un esempio? Quando tra il pubblico, nel
corso di un concerto, appaiono gli otoprotettori colorati, si scatena il suo "It's Too Late!".
Ho avuto la fortuna di
vederli dal vivo, seppur dimezzati, al loro ritorno in Italia dopo 40 anni, e
giusto tre anni fa non mi sono perso “Tommy”, portato in tour da Roger Daltrey.
Ciliegina sulla torta
un’intervista realizzata con Simon
Townshend, fratellino di Pete,
chitarrista e frazione della band in tour.
Insomma, partito da “Substitute”,
quando ancora avevo i pantaloni corti, sono arrivato all'11 Marzo 2015, quando il Raindogs di Savona e il Filmstudio si inventano la serata a
tema: proiezione del movie Quadrophenia e, a seguire, riproposizione di musica degli Who, con diverse band sul palco
del Raindogs.
E’ proprio il pacchetto intero che mi incuriosisce, perché sia il film che la musica a seguire, è qualcosa di cui potrei fruire tranquillamente da casa.
E’ proprio il pacchetto intero che mi incuriosisce, perché sia il film che la musica a seguire, è qualcosa di cui potrei fruire tranquillamente da casa.
Ma vedere il film su
schermo gigante, con un volume appropriato (una volta ogni tanto è concesso!),
condividendo l’esperienza con un centinaio di persone, è al tirar delle somme
una bella esperienza.
La trama del film è
nota ed è la fotografia di un’epoca, di una cultura, di una ribellione, di una
insoddisfazione che imperava in quegli anni ’60 tra i giovani inglesi, simboleggiata
dalla contrapposizione tra Mods e Rockers, ma tipica di ogni paese occidentale.
Rivederlo - mi capita
almeno una volta all’anno - non mi entusiasma più per il contenuto, ma mi soddisfa per il
contesto, per le atmosfere, per i suoni, ed ogni volta ritorno alla mia
giovinezza, quando gli echi di quanto accadeva oltremanica ci condizionavano
nel quotidiano, e lasciavano increduli i nostri genitori.
Da quelle difficoltà,
molti, sono usciti attraverso la musica, e pare che mai tanti talenti siano
nati tutti assieme, nello stesso paese.
Tra questi The Who, capaci di essere ancor oggi
attualissimi, “usati” come colonna sonora nei film di successo, o nelle
performance delle tradizionali bande che intrattengono il pubblico americano
nelle soste dei match di football.
Fine del movie e
trasferimento in massa nel club.
Non sono poi molte le
band presenti, forse qualche defezione dell’ultimo minuto, magari difficoltà
nel reperire “esperti in materia”, sta di fatto che il locale è
sufficientemente affollato, se si pensa che è mercoledì, e allora… si parte.
Sul palco un duo. Non
ha un nome, pare nato apposta per l’occasione, e mi dicono abbia provato una
sola volta l’unico brano che presenteranno, “Happy Jack”. Non sono
certo sprovveduti, e l’estemporaneità del progetto è l’occasione per colorare
di nuova vernice un “pezzo” storico.
Alla batteria Simone Perna, dei 3 fingers guitar, e alla chitarra acustica Nicola Calcagno (Rostropovia-Jasban).
Quando partono in
sordina non è ancora chiaro quello che accadrà. Ciò che è sempre stato
presentato secondo i sacri crismi cambia improvvisamente passo, entra in gioco
una loop machine, una buona dose di effetti, e la chitarra
acustica a cui accennavo si trasforma in strumento a sé.
Sono solo due, ma la
tecnologia, l’entusiasmo e il talento compensano la poca quantità, e quando il
brano finisce c’è un po’ di rammarico per non aver avuto il seguito
dell’antipasto.
Un bella scoperta, che
ho documentato…
Secondo e ultimo
gruppo i The Moonshiners, band dedita al rock tradizionale, nell’occasione
propositrice di tre brani inerenti al tema: My Generation, Pinball Wizard e See
Me Feel Me. Line up formata da Ivano Vigo (voce e chitarre), Luigi Ferracane (batteria),
Alessandro Delfino (chitarre) e Simone Perata (basso).
Buona presenza da
palco, con alcune varianti armoniche e ritmiche che evidenziano la voglia di
dare un tocco personale a pietre miliari della musica.
Il pubblico risponde bene, mentre arriva il momento del passaggio, tra Who e… tutto il resto possibile.
A questo punto nasce nella band l’esigenza di cercare un link ideologico tra il prima e il
dopo, trovandolo nell’inglesità dei protagonisti, ma già il noto legame di
amicizia tra Pete Townshend ed Eric Clapton è un buon motivo per proporre
i Cream. Vado a memoria… Sunshine
of your Love, White Room, Badge, tutti episodi capaci di scaldare
l’audience.
Si chiude con altri miti, i Led Zeppelin (Good Times Bad
Times, Stairway to Heaven), ma prima dell’ultimo atto arriva una sorpresa,
una energica Whole Lotta Love che
prevede una giovane ospite, la vocalist Margherita
Zanin, che mette in mostra una grinta adatta alla serata abbinata a doti
canore ragguardevoli, e rappresenta dal mio punto di vista una luce vivida,
quella della speranza che anche le nuove generazioni possano avvicinarsi, o
almeno fare un tentativo, ad una musica che ha lasciato il segno, e che non
svanirà come neve al sole.
Un bella serata, carica di ricordi, di suoni, di giusto
feeling e di nuove scoperte.