Dime Novels è il secondo album di Marco
Machera, donato
al pubblico da pochi giorni, dopo un primo atto, One Time, Somewhere, realizzato
nel 2012.
E’ per me un primo
ascolto… non conoscevo Marco, e come sempre sono partito dalla lettura delle
informazioni disponibili, e sul sito di riferimento regna una certa chiarezza,
mascherata dall’arte dell’ironia.
Tutto contribuisce a
creare un’immagine, un preconcetto che anticipa il contenuto, che in alcuni
casi - e questo è uno di quelli - da indicazioni di genere e di qualità.
Era la
primavera del 2011, Genova, e dal palco della Sala Maestrale del Porto Antico
introducevo il Tony Levin Stickmen Trio, ma, cosa più importante,
mi gustavo la performance incredibile a pochi metri dai tre mostri sacri:
indimenticabile, così come non posso dimenticare il concerto dei King Crimson, del novembre ’73, a Torino,
presentazione di Larks' Tongues in Aspic.
Non è di altri artisti che devo
parlare, ma…quanti ricorda mi ha sollevato Marco Machera!
Intendiamoci, affermare
che una persona assomiglia ad un’altra significa solo evidenziare una certa
associazione - di idee, comportamenti, modi di porsi, in questo caso di tipologia
musicale - e così mi ritrovo tra le mani un contenitore sonoro che mi fa
pensare ad un certo concetto di musica, molto raro da trovare al giorno d’oggi.
Marco mi appare come
un talento naturale che, almeno giudicando a pelle, utilizza il proprio
patrimonio, carico di talenti, con una buona dose di semplicità e umiltà, magari
senza avere piena coscienza del potenziale personale.
Le nove tracce che
propone sono di una varietà assoluta, che è un enorme pregio se si riesce a
mantenere il copione; si osservano gli ospiti, la strumentazione non certo
usuale - Banjolin, Ukulele, Dobro, Autoharp, Lap Steel, Bouzouki, Cello, tanto
per citare qualche esempio - unita alla tradizione prog e ai “mezzi marziani”
di Levin e Reuter (inventori e innovatori) e si rimane incerti sul cosa potrà
accadere: sfoggio di mera bravura e versatilità o ricerca di una filosofia musicale?
Machera compone
seguendo ispirazioni non codificate, con l’occhio vintage filtrato dalla
tecnologia avanzata, dando l’impressione di divertirsi, nel tentativo di
proporre schemi innovativi; non credo sia la ricerca ossessiva dell’originalità,
ma il suo lasciarsi andare, unitamente all’utilizzo di tutto quanto assorbito
sin dall’adolescenza, ha portato verso uno stile unico, che fonde i saldi principi
della musica progressiva con il pop di qualità degli anni ’80, e il risultato è
sorprendente.
Liriche in lingua
inglese, proposte con una voce che riesce a caratterizzare tutto il percorso,
in modo piacevole. Il basso è il suo strumento principe.
Le indicazioni a fine
post mettono in evidenza una squadra importante, mentre vale la pena
sottolineare le registrazioni trasversali, tra Italia, USA, UK e Austria: ogni aspetto
è stato curato nel dettaglio.
A seguire una sostanziosa
intervista e stralci musicali dell’album, elementi che chiariranno le idee e
permetteranno di disegnare il “personaggio Machera”.
Un sorpresa
inaspettata, difficile chiedere di più di questi tempi!
L’INTERVISTA
Potresti
sintetizzare la tua storia e l’evolversi della tua passione musicale?
Ho
ascoltato tanto rock fin da piccolissimo, grazie ai miei due fratelli più
grandi, musicisti a loro volta. Dopo un breve periodo passato a suonare la
batteria, ho scelto di continuare con il basso. I miei punti di riferimento
erano Steve Harris e Geddy Lee. Furono proprio i Rush a stimolare la mia
curiosità, a farmi desiderare di essere un musicista migliore. Dai 13 anni in
poi cominciai a interessarmi al jazz, al progressive rock, al funk; ascoltavo e
cercavo di suonare tanti stili diversi, tirando giù le mie parti di basso
preferite a orecchio. In quel periodo mi feci le ossa suonando i primi concerti
dal vivo. La scoperta dei King Crimson e di tutto l’universo musicale a loro
correlato fu un altro momento cruciale. Arrivai a David Sylvian e tornai indietro
alla new wave degli anni ‘80. Gli XTC furono una rivelazione: erano pop, ma
allo stesso tempo intriganti, profondi. Mi appassionai alla composizione e
scrissi le mie prime canzoni. Nel tempo ho accumulato diverse esperienze, sia
in studio che dal vivo, e la mia evoluzione come musicista va di pari passo con
quella di ascoltatore. Ho sempre avuto un approccio molto istintivo alla
musica, sia nel suonarla che nell’ascoltarla.
Leggendo la
tua biografia emerge una certa trasversalità di azione, ma… come definiresti la
tua proposta musicale?
La
mia casa discografica ha utilizzato la definizione ‘art-rock’, che non mi
dispiace. Personalmente, non riesco mai a dare una risposta precisa a questa
domanda. Non mi piace categorizzare troppo la musica, e questo atteggiamento si
riflette pienamente in quello che scrivo e suono. Non è qualcosa che faccio di
proposito, è un processo assolutamente spontaneo. Di solito le mie canzoni
nascono dal pop, o meglio da un certo ‘suono pop’, e sono arricchite di volta
in volta da una moltitudine di elementi e riferimenti. Qualcuno mi definisce
‘progressive’, ma onestamente non penso di poter essere inserito in quel
filone. Bill Bruford diceva di essere troppo rock per il pubblico jazz, e
troppo jazz per il pubblico rock. Io potrei dire di essere troppo poco rock e
troppo poco prog, sempre rimanendo dell’opinione che definire un genere, o
stabilirne i confini, sia davvero molto difficile. Il termine ‘pop’ dopotutto
ha un campo semantico piuttosto ampio, penso che possa calzarmi bene.
Uno dei
tuoi obiettivi è quello di rompere un po’ gli schemi, e trovare un modo nuovo,
o quantomeno originale, di fare musica: a che punto sei nel tuo percorso? Ti
puoi ritenere soddisfatto di quanto hai realizzato sino ad oggi?
Sì,
sono contento di quanto prodotto finora, anche se non mi ritengo mai
soddisfatto al 100%: sono un perfezionista, un irrequieto! Quello che posso
dire è che ogni volta affronto la produzione di un album come se fosse
l’ultimo, cerco di dare veramente il meglio. Al tempo della realizzazione di “One Time, Somewhere” non ero sicuro che
ci sarebbe stato un seguito. Penso che il percorso continuerà ancora a lungo,
ma non riesco a prevederne gli sviluppi. Idealmente, mi piacerebbe scrivere un
nuovo album e mettere un punto a questa personale ‘rivisitazione del pop’,
formare una trilogia con i due dischi che finora sono riuscito a pubblicare.
Dopodiché mi piacerebbe cominciare una nuova fase.
Mi parli
del tuo nuovo album, “Dime Novels”?
“Dime Novels” è un album eterogeneo,
molto ricco, variegato, in alcuni punti anche ironico. Considero queste canzoni
alla stregua di mini-colonne sonore: a volte sono partito da un’immagine, altre
volte da un testo, altre volte ancora da un sogno (o da un incubo). Si tratta
di trasferire delle sensazioni in musica, e spesso la composizione prende una
rotta inaspettata. Non pongo limiti di nessun tipo alla creatività. Il disco è
stato prodotto in collaborazione con Francesco Zampi, che mi aiuta a
concretizzare le idee e a metterle su disco. E spesso mi riporta con i piedi
per terra!
Il disco
vede la partecipazione del Tony Levin Trio (Levin, Mastelotto e Reuter): come
nasce la collaborazione? Quanto ti senti vicino alla musica dei King Crimson?
Sono
un grande appassionato dei King Crimson. Sono sempre stato attratto dalle loro
luci e dalle loro ombre, specialmente da quest’ultime. Come altri artisti che
ammiro, sono riusciti a reinventarsi di volta in volta in maniera creativa e
intelligente. Hanno saputo attualizzarsi quando ce n’era bisogno, senza compromettere
la qualità della propria musica. Hanno sempre esplorato nuovi territori. In
questo senso, mi sento molto vicino alla filosofia dei King Crimson: Robert
Fripp li ha definiti “un modo di fare le
cose”. Mi rispecchio in quell’affermazione.
Che importanza
hanno per te le liriche? Nel tuo senso estetico e armonizzante entrano anche le
parole, o sono solo un veicolo per i tuoi messaggi?
Anni
fa non davo troppo peso alle parole: le consideravo come un ornamento alla
musica. Le cose sono cambiate gradualmente, con il tempo ho cominciato a
pretendere di più dal processo di ascolto; cercavo qualcosa di più profondo. Un
po’ alla volta mi sono reso conto di quanto fosse importante il testo, di
quanto possano essere forti le parole, specialmente se combinate a una grande
partitura. Penso per esempio a “Wish You
Were Here” dei Pink Floyd; a qualsiasi cosa scritta da Peter Gabriel o
David Sylvian, giusto per citare qualcuno. Paul Buchanan dei The Blue Nile ha
sempre scritto versi semplici ma evocativi, estremamente poetici, miscelati
magnificamente con la musica. Per quanto mi riguarda penso di aver fatto
progressi in questo senso, sono soddisfatto dei testi di “Dime Novels”. Non mi sento un grande paroliere, e nemmeno un grande
cantante, ma sento il bisogno di scrivere i testi di mio pugno e di cantarli in
prima persona.
Che cosa
accade nei live di Marco Machera?
Sento
di dover ancora trovare una giusta dimensione per i miei live. L’anno scorso ho
portato in giro la musica di “One Time,
Somewhere” senza troppi fronzoli. L’esperienza è stata positiva, ma sono
convinto che questo materiale abbia bisogno di una controparte visiva,
teatrale, per poter esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Al momento
non ci sono date in programma per promuovere “Dime Novels”, principalmente perché diventa sempre più difficile
trovare spazi e contesti adeguati dove potersi esibire. Detto questo, se
arriveranno proposte le valuterò volentieri; nel frattempo ragionerò su come
rendere più interessanti i miei concerti dal vivo: pensavo al contributo di un
performer, a proiezioni video, oppure illustrazioni create da un artista in
tempo reale. Vedremo.
Che cosa
lega One Time, Somewhere al
nuovo lavoro?
I
due lavori sono stati composti e registrati in maniera simile. Nonostante ciò,
penso che “Dime Novels” sia molto
differente da “One Time, Somewhere”:
è più corposo, a tratti più cervellotico, meno rassicurante. Però esiste
indubbiamente un filo conduttore. Ci sono delle caratteristiche nella
composizione che accomunano i due dischi. Credo di aver trovato un mio suono e
una mia personalità, che affiorano in entrambi gli album.
Tecnologia,
sperimentazione e web: che cosa ti ispirano questi tre “enormi” sostantivi?
Hai
detto bene, sono sostantivi enormi. E sono fortemente in relazione tra loro. Il
musicista di oggi non può permettersi di suonare e basta. Ormai siamo gli
imprenditori di noi stessi, e questo ha dei vantaggi, ma porta via tanto tempo.
Il web in questo senso è fondamentale. Si ha la possibilità di raggiungere
nuovo pubblico e di percorrere strade che altrimenti sarebbero precluse, ma
tutto ciò dovrebbe rappresentare un aspetto complementare della nostra
attività. Dobbiamo ancora essere capaci di attaccare un jack all’amplificatore
e suonare bene il nostro strumento. Se siamo bravi nel nostro lavoro, allora il
web e la tecnologia saranno sicuramente d’aiuto. Altrimenti si tratta di aria
fritta. Per quanto riguarda la tecnologia in senso strettamente musicale, direi
che mi piace da matti torturare il mio computer quando si tratta di comporre e
registrare del nuovo materiale. Adoro l’aspetto creativo del lavoro in studio,
creare musica attraverso la tecnologia. Mi piace sperimentare, appunto. Dal
vivo invece ho un approccio più tradizionale, preferisco il suono naturale
dello strumento, senza farlo passare per troppi effetti.
Come
immagini – o come vorresti che fosse – il tuo futuro prossimo?
Non
riesco davvero a immaginarlo. Però sono certo che suonerò e registrerò musica
per molto tempo ancora. Tanto mi basta.
Dime Novels
Data di pubblicazione: 28
Gennaio 2014
Casa discografica: Innsbruck
Records
Produced by Marco Machera & Martina
Sacchetti
Co-produced,
tweaked, mixed and mastered by Francesco Zampi
Recorded between April 2012 and September 2013 in studios across Italy, USA, UK,
Austria.
All songs
written by Marco Machera, except “John Porno” written
by Marco Machera and Markus Reuter. Marco Machera © 2014 all rights reserved.
Arrangements
by Marco Machera and Francesco Zampi
Cover and
artwork design by Marco Lafirenza
Personnel:
Marco
Machera: Vocals, Bass (2, 3, 4, 6, 7, 8, 9), Guitars (1, 2, 3, 5, 6, 7, 8),
Harmonium (1), Banjolin (4), Ukulele (4), Samples, Drum Programming (3, 6, 7,
9), Percussion (1, 4, 8)
Francesco
Zampi: Sound Design, Treatments, Cello (1), Piano (1, 5) Hammond (2), Dobro
(4), Samples, Drum Programming (7, 8)
Pat
Mastelotto: Drums & Percussion (1, 2, 3, 5, 6)
Tony
Levin: NS Upright Bass (5) Markus Reuter: U8 Touch Guitar (3, 8)
Andrea
Faccioli: Guitars (1), Autoharp (1), Lap Steel (4), Bouzouki (5)
Jennifer
Maidman: Cuatro (4)
Pete Donovan:
Double Bass (1) Kevin Andrews: Additional Bass
(1)