Ogni volta che mi cimento
nella descrizione di un album di matrice blues mi attanaglia una specie di
soggezione legata alla paura di non riuscire ad estrarre ed evidenziare l’anima
della proposta. Il blues è semplice, non richiede anni di conservatorio per
un’espressione base, e spesso una vita è racchiusa in un solo accordo. Ed è
proprio questo il problema, la sindrome di un mondo intero condensato in uno
spazio limitato… e come si fa a raccontare? Come sottolineare i passaggi
significativi? Ascoltare - e leggere
- Jericho Road, di Eric Bibb non sfugge a questa
regola, anzi, la amplifica. Tredici tracce, a cui
aggiungere due bonus track, compongono l’ultimo album di un musicista “mito”,
la cui discografia appare impressionante. L’unico modo che
conosco per superare gli ostacoli è … ascoltare e trasferire su carta il mio
feeling, in questo caso seguendo le liriche nel fantastico booklet allegato. Ed è proprio da questo che sono partito, come sempre, per cercare il fascino e le informazioni un
tempo racchiuse nel vinile. Nasce così una possibile chiave di lettura che
consente di poter apprezzare appieno il pensiero di Bibb: un ascolto
strettamente legato al significato delle parole. Sembrerebbe una banalità, ma
la fruizione della musica non è poi così
schematica come qualcuno vorrebbe fare credere. Che cosa è il blues?
Come si è modificato nel tempo? Chi ha la patente per rappresentarlo? Basta
avere la pelle scura e una chitarra per fare parte degli eletti? Oppure è
necessario superare un limite di sofferenza? Discorsi per intellettuali
imprestati al mondo musicale, ma se dovessi d’impatto fornire un giudizio su Jericho
Road parlerei di una sorta di evoluzione verso la modernità, di un un
modo di espressione più europeo, che non tradisce le motivazioni originali, ma
prova a fornire un vestito differente, non necessariamente migliore, ma
diverso. L'abito a cui mi
riferisco è fatto di ritmi, di armonie, di vocalizzazioni, di soluzioni
articolate, il tutto nel rispetto della tradizione. L’idea, forse balzana, di
europeismo fornitami da questo nuovo disco è legata a sensazioni antiche
provate nell’ascolto, ad un modo di suonare che ha a che fare con la mia
adolescenza, quando musicisti come Clapton, Jagger e Richards rompevano gli
argini e assumevano un ruolo al fianco dei maestri di sempre, assumendo una
dignità sino ad allora impensabile. Ritorno alla lettura
parallela al binario musicale. Eric descrive i suoi
attimi di vita, i suoi ricordi e le sue esperienze; le sue citazioni, passando
dalle parole alla musica, colpiscono come macigni, ricordando a tutti come la
semplicità dei saggi possa essere espressa in poche “enormi” parole, e la chiara lettura
della storia non abbia bisogno di vasta cultura scolastica per arrivare ad una comprensione
corretta.
Il titolo, Jericho
Road, ha un preciso significato, e riporta alla novella del Buon Samaritano, e
alla figura di chi fornisce aiuto a chi ne ha bisogno, senza chiedere niente in
cambio, perché … “ You cannot save yourself without
saving others”. E’ questa l’anima di
un album in cui Bibb ci spinge ad “avere cuore”, utilizzando il pensiero di
Mandela, del Dalai Lama o di Maria Teresa di Calcutta per ricordarci i
fondamenti… il rispetto della libertà altrui, l’amore insostituibile per la
famiglia, l’inutile ricerca del successo a tutti i costi, la paura che rende
stranieri uomini che dovrebbero essere fratelli. Eric Bibb si erge a
involontario professore, e lo fa in modo autorevole, nell’unico modo possibile,
raccontandosi e raccontandoci la sua visione del mondo attraverso suoni e
musiche che probabilmente incanterebbero anche prive di liriche, ma a quel
punto perderemmo una grande chance, una opportunità superiore al piacere di
godere del talento di Bibb, quella di utilizzare il lungo lavoro di un
musicista e di tanti suoi “amici” per soffermarci a riflettere e, forse,
cambiare qualcosa nella nostra vita, perché la musica, certa musica, può fare
miracoli. E forse sarà bene non dimenticare mai che “The time is always right to do what is right”!