lunedì 4 maggio 2020

La lunga vita musicale di Nunzio Favia (Cucciolo)


Ho un ricordo indelebile legato a Nunzio Favia, per me - e credo per tutti - solo Cucciolo, di mestiere batterista.
Per chi non lo conoscesse, la sua storia emerge dall’intervista a seguire, ma la sua figura è per me legata ad un momento particolare, un festival mitico organizzato dai The Trip a Cisano sul Neva (Albenga-SV), luogo in cui provava normalmente la band.
Era il 1974 e avevo 18 anni.
Cucciolo era nell’occasione il batterista dei Trip, dopo Pino Sinnone e Furio Chirico, che erano stati i titolari del ruolo equamente divisi nei quattro lavori in studio, ed ora sarebbe toccato a lui, almeno per quel poco di tempo in cui la band avrebbe proseguito l’attività. Il genere sembrava perdere interesse tra i “frequentatori della musica”, e di lì a poco sarebbe avvenuto un drastico cambiamento che avrebbe coinvolto tutti.
Da quel giorno Cucciolo ha proseguito con tenacia la sua carriera ed è ancora molto attivo.
Ho provato a ricostruire con lui un po’ della sua storia, ma alcuni degli episodi proposti rappresentano qualcosa in più del mero racconto di vita, aneddoti che faranno riflettere e saranno di sicuro interesse per i lettori.



Ti ho visto suonare quando avevo 18 anni, nell’occasione del Festival di Cisano, ed era il 1974: come arrivasti alla corte di Joe Vescovi e che ricordi hai di quell’esperienza?

Io andrai con i Trip proveniente dagli Osage Tribe, di cui ci furono due versioni, quella storica con Marco Zoccheddu e Bob Callero e una seconda che cercai di creare io con Red Canzian, che terminò quando partii per il servizio di leva. Tornato dal militare, Joe, che già conoscevo, mi chiese se potessi unirmi a loro, visto che Furio Chirico stava andando via. Io ero fresco di congedo e non avevo progetti per le mani e accettati di buon grado. Questo è il motivo per cui mi vedesti a Cisano; seguirono altri concerti, purtroppo in concomitanza con lo scemare del progressive, e quindi considero quelli con i The Trip gli ultimi eventi live legati a quello che al tempo chiamavamo “Pop”.

Ritrovasti Vescovi nei Dik Dik, dove hai suonato per molto tempo: anche in questo caso ti chiedo di sintetizzare i tuoi ricordi e se hai qualche aneddoto da raccontare.

In realtà fu il contrario, fui io a far entrare Joe nei Dik Dik dove io arrivai nel ’74 e dove trovai il tastierista varesino Roberto Carlotto, conosciuto con il nome di battaglia di Hunka Munka; il tipo era un pò bizzarro, per cui proposi a Petruccio, Lallo e Pepe di prendere arruolare il mio amico Vescovi, e loro, pur con qualche riluttanza, si fecero convincere e andammo avanti con quella formazione sino a quando Joe si unì ai Knife Edge, perché la convivenza con i “senatori” non era facile. Onestamente ci fu un momento in cui Joe iniziò a creare dei problemi facendo un po'… la prima donna, del tipo… se non aveva l’hammond non suonava, di conseguenza non potevamo fare concerti in Sardegna perché trasportare l’hammond era difficoltoso, e molti service si rifiutavano di trasportarlo, visto la pesantezza, e quindi c’è stato un certo periodo in cui Joe era diventato un po’… complicato. Probabilmente aveva altre cose nella testa, era un momento in cui c’era per lui la possibilità di entrare nei Rainbow (andò via per un mese con Cozy Powell, ma poi ritornò e quindi non si realizzò nulla), insomma, era un po’ problematico e i tre “capi” volevano estrometterlo. Per farlo ci inventammo (anche io partecipai al teatrino) che il gruppo si sarebbe sciolto, e lui si dimostrò quasi soddisfatto, pronto ad iniziare il progetto con i Knife Edge, e tutto finì lì. Ma non era vero niente! Non ci sciogliemmo, riprendemmo quel pazzoide di Carlotto alle tastiere e Joe proseguì per la sua strada.
In una nuova edizione dei Dik Dik, nell’86 (io poco prima avevo formato “Carlotto e Cucciolo dei Dik Dik”) ripresero Joe, ma come “dipendente”, e in quella conformazione organizzativa lo trattavano con poco riguardo, quasi una forma di rivalsa per quanto accaduto in precedenza, cose del tipo… viaggio in cinque in un auto durante i trasferimenti, mancata prenotazione di hotel, mal pagato, in aperto contrasto col manager, sino addirittura ad arrivare ad una rissa interna. Joe mi chiamava spessissimo ma io non potevo assumerlo nei “Carlotto e Cucciolo dei Dik Dik”, primo perché mentre io avevo firmati tutti i contratti con i Dik Dik lui non ne aveva siglato neanche uno, e non poteva quindi chiamarsi “ex dei…”; in secondo luogo mi sarebbe costato molto, avrei dovuto aumentare il cachet ai committenti e avrei perso dei contratti, per cui anche se ero tentato di suonare con lui non mi sembrava una cosa praticamente realizzabile.
Il fatto è che gli altri tre non lo sopportavano più, soprattutto Lallo, che dei tre è il più razionale e buono.
Noi eravamo musicisti completi, mentre i Dik Dik non hanno mai registrato un disco, come capitava a tanti gruppi dell’epoca… moti gruppi si affidavano a turnisti: Gianni Dall’Aglio, Franz Di Cioccio, Ellade Bandini, restando in topic “batteria”. Quindi non è un pettegolezzo gratuito il mio, questa è storia!

Con I Dik Dik

Facciamo un passo indietro: Come sei diventato batterista? Qual è stata la scintilla che ti ha fatto innamorare dello strumento?

Ho iniziato prestissimo e a undici anni suonavo già ai matrimoni a Bari e mi guadagnavo la paghetta, e non potrò mai scordare le 3000 lire a matrimonio, più i dolci e le rimanenze che potevo portare a casa!  Chiaramente non avevo grossi studi alle spalle, e quindi ho iniziato da autodidatta, innamorato di Ginger Baker. Per me la musica leggera era un contorno, perché sono sempre stato innamorato del rock in tutte le sue forme, e più era pesante e complicato e più mi piaceva, e ancor mi piace. Il rock “leggero” non fa per me, i Kiss, ad esempio, non li sopporto, così come molti gruppi super famosi… io amo i Dream Theater, i Tool; all’epoca seguivo la Mahavishnu Orchestra perché c’era Billy Cobham, quindi sintetizzo dicendoti che, seguendo il mio gusto personale, mi sono formato con i batteristi rockettari.

Tu sei nato Bari, e quando sei venuto al nord per suonare eri molto giovane: è stato un atto di coraggio, voglia di avventura, o avevi un punto di appoggio che ti dava sicurezza?

Tutto quello che mi stai chiedendo è racchiuso in un libro (con CD) uscito oramai sei anni fa, esaurito - incredibile ma vero! - “Dal sud al rock”, con prefazione di Franco Battiato e di Red Canzian.
Racconto la mia storia ed evidenzio proprio quando, nemmeno sedicenne, arrivai a Milano e, come facevano un po’ tutti, passavo le mie giornate sotto alla Galleria del Corso chiedendo: “… volete un batterista?”, volete un complesso?”. Quando trovavo qualcuno pronto ad accettare, e gli dicevo che gli strumenti erano a Bari (a quei tempi  un luogo visto come irraggiungibile) mi mandavano a quel paese, e devo dire che per almeno un anno è stata davvero dura… mangiavo una volta a settimana, vivevo in pensioni di infimo grado, assieme a banditi e rapinatori… ero incosciente, o forse solo troppo innamorato di questo “lavoro”, volevo suonare seriamente e non tornare a Bari a spendermi per le cerimonie nuziali!
In quel periodo non avevo alcun punto di appoggio, lo trovai dopo, grazie ad Herbert Pagani, devo tutto a lui, dalla conoscenza con Battiato, Dik Dik e Ivan Graziani; io con Ivan ho iniziato, e ricordo che a casa di Herbert ci dividevamo i panini e quindi non era un momento facile, ma si lavorava anche in sala di registrazione, per me una grande cosa, sino a poco tempo prima impensabile; negli ultimi dischi di Pagani, compreso un album doppio del ’73 - “Megalopolis” - suoniamo io e Ivan, con nostri arrangiamenti. Insomma, dopo quel primo anno di discreta difficoltà sono stato fortunato e ho trovato gli appoggi di cui mi chiedevi in Herbert Pagani, nella cui casa ho vissuto.

Hai dei “maestri” che più di altri ti hanno ispirato?

Come ti accennavo Ginger Baker in primis, aggiungendo Mitch Mitchell; di Billy Cobham ti ho detto - potente come dicono sia anche io, anche se è dote naturale - e tutto questo fa riferimento ai miei inizi. Poi mi sono messo a studiare i vari batteristi che via via conoscevo e che mi colpivano. Non mi piacciono i drummer esclusivamente jazz, un genere che non mi prende, che non mi ha mai appassionato e quindi non mi sono mai applicato nel proporlo.

Parliamo degli Osage Tribe?

Gli Osage Tribe li abbiamo creati io e Battiato: un giorno, guardando il film “Il piccolo grande uomo” - con Dustin Hoffman - con argomento l’infinita complicata relazione tra indiani e cow boy - ci venne in mente di assumere questo nome per parlare dell’eterna oppressione dei bianchi sugli indiani. Scoprimmo successivamente che gli Osage erano dei “banditi”, dei venduti che uccidevano gli stessi indiani, una sorta di mercenari, ma lo scoprimmo in ritardo e noi… avevamo sbagliato tribù! Io avevo un adesivo di questi Osage che ho ancora è appiccicato su una custodia di un tom, e resiste da oltre cinquant’anni!
Con Battiato suonammo poco, il tempo di fare un 45 giri che fu poi la sigla di “Chissà chi lo sa” - “Un falco nel cielo- e poi uscì l’album, "Arrow Head, e lì lo sforzo fu enorme, sei mesi di prove, tutti i giorni, in un convento, l'Abbazia Belvedere di Genova, dove provavano molti altri (Garybaldi, New Trolls), e lo registrammo in diretta, senza alcun artificio - “pronti e via”, e quando si sbagliava una cosa si ricominciava da capo - alla Regson Zanibelli di Milano.


Osage Tribe- Nunzio Favia, Red Canzian e Bob Callero

Cosa è accaduto nel periodo post DIK DIK?

Dopo i Dik Dik ho continuato, ho vinto tre cause importanti al Tribunale di Milano, per l’uso del marchio “Dik Dik”, soprattutto del repertorio; io giro come “Cucciolo by Dik Dik “, o “… già Dik Dik”, o “… ex Dik Dik”, oltretutto ho acquisito anche il marchio “La storia dei Dik Dik” e mi muovo così, feste di piazza, feste patronali, novanta per cento al sud.
Ci sciogliemmo come Dik Dik a causa di Dario Fo, senza alcuna lite, ma è una storia lunga che provo a sintetizzare.
Dario Fo impegnò i DIK DIK in quella che lui chiamava Opera Rock, che non era altro che “L'opera da tre soldi” di Bertolt Brecht da lui rivisitata, e poteva contare su uno sponsor incredibile, il Teatro Stabile di Torino, per cui nessun problema a livello finanziario, con un impiego stratosferico di settanta persone, e fu denominata “L’opera dello sghignazzo”.
Un mese per città… Torino, il Brancaccio a Roma, insomma, un lavoro importante.


Nella pubblicizzazione dell’evento il nome “Dik Dik” era preminente, e ad altri importanti partecipati, come Nada, ciò non era gradito.
Un giorno, durante le prove a Prato, al Teatro Fabbricone, nacque un problema grosso: Fiorenzo Carpi, maestro di musica per eccellenza, contestò l’operato dei senatori dei Dik Dik, inadeguati all’impegno, con Nada felice, che intravedeva la possibilità di eliminare un nome ingombrante. Stavamo per lasciare il disturbo quando sia io che il chitarrista Roby Facini, con noi da poco, ricevemmo una proposta individuale, del tipo: “… se volete rimanere vi paghiamo bene, ma apparite come musicisti singoli e non come DIK DIK…”. Accettammo.   
Pietruccio se ne andò per i fatti suoi, Lallo aprì l’ennesimo ristorante, e Pepe si mise a fare l’impresario. Quindi ci sciogliemmo “informalmente”. 
Dopo nove mesi, finita la rappresentazione dell’opera, trovai alternative: prima accompagnai Umberto Tozzi, poi feci tour all’estero e in Italia con Franco Simone, il primo tour fortunato con Giuni Russo e poi ero spesso richiesto come turnista in ambito rock, soprattutto in Grecia.
Nell’86 i tre Dik Dik originari si riformarono, dopo che io avevo messo in piedi “Carlotto e Cucciolo dei Dik Dik”, e accadde quello che ti ho raccontato parlando di Joe Vescovi.

Quali sono i tuoi progetti attuali e cosa pensi accadrà nel tuo futuro musicale?

Prosegue la mia attività live, soprattutto nel su d’Italia, e continuo a prestare la mia opera come turnista, in particolare in Grecia, come ausilio per cantanti locali - purtroppo non rock - e quindi mi sono specializzato in questo ruolo. Ho cambiato un po’ il mio stile, ho studiato e oggi uso moltissimo il doppio pedale, moderatamente anche nella musica leggera, per fornire nuove colorazioni. Questa è la mia attuale attività - coronavirus permettendo - ed è quanto vorrei fare in futuro, anche se credo che per molto tempo sarò bloccato, e al momento ho già perso otto date che erano in programma al sud e che sono state annullate.

Grazie Cucciolo, e in attesa di vederti dal vivo godiamoci una delle esibizioni che fanno parte tutt’oggi delle tue performance sul palco.