Le tastiere che non ti aspetti,
raccontate da Stefano Pantaleoni
Dicembre 2019
L’incontro con Stefano Pantaleoni, attuale tastierista
della band seminale Acqua Fragile, permette di colmare qualche vuoto storico
riferito all’utilizzo di quelle che in termine generico potremmo definire
“tastiere” utilizzate all’interno del panorama prog. L’importanza e l’utilizzo
delle “nuove tastiere” allo sbocciare dei seventies è fondamentale per la
definizione di trame musicali dalle caratteristiche precise, ma difficilmente
si esce dal concetto generico di sintetizzatore, mellotron, moog, hammond e
leslie, se si fa riferimento alla massa dei fruitori musicali. Ma i musicisti,
ovviamente, la sanno lunga, perché la curiosità e la necessità di ulteriori
sviluppi originali li ha da sempre portati alla ricerca continua della novità e
del miglioramento, e in fondo, per i fan e gli appassionati, non è fondamentale
conoscere tutti i dettagli caratteristici del “mestiere”, mentre è naturale
goderne i risultati.
Arp Odyssey MKIII
L’intervista a seguire permette di scoprire un mondo
sconosciuto ai più, e certamente sarà tanta manna per il “tastierista lettore”,
giovane ma non solo, perché certi aspetti desteranno forse maggior stupore in
chi, leggendo nomi ed etichette del passato, potrà ritrovare parti di sé.
Chi ama la musica e ne è parte attiva vive spesso in simbiosi
con il proprio strumento, e il solo tocco o contatto fisico provoca piacere, qualunque
siano le competenze, perché è questa la sintesi perfetta del concetto di
“passione musicale”, che non riguarda quindi solo i grandi strumentisti, ma
anche chi, ad esempio, strimpella la chitarra nella propria cameretta.
Pantaleoni rappresenta il top di categoria se parliamo di
ricerca e di “accumulo tastieristico”, e a fine intervista è lui stesso a
suggerire un modo per contattarlo, perché chi ha questa “malattia” ama anche
essere contagioso!
Crumar DS2 (Korg Poly 800)
Ma vediamo qualche nota personale di Stefano Pantaleoni -
compositore e didatta - che precede la chiacchierata.
Terminati gli studi classici presso i Conservatori di Parma e
Bologna, dopo una prima fase ritenuta di formazione anche caratterizzata da
premi e segnalazioni in prestigiosi concorsi internazionali di composizione,
ritorna in quella dimensione musicale artistico/tecnologica che fin da ragazzo
lo aveva avvicinato alla musica, ovvero il rock e l’elettronica. L’influenza
dell’elettronica e i fermenti Pop e rock progressive degli anni ‘70 (Genesis e
Tangerine dream su tutti) segneranno per sempre la produzione musicale dal 1988
in poi (coerenza ed onestà intellettuale lo dissociano ben presto da guide,
consigli e ideologie della cosiddetta “avanguardia”). Le tappe significative di
questo percorso sono le opere elettroniche “Alle Muse” per nastro magnetico del
1988, LP 33 giri pubblicato da un’etichetta indipendente (LMC), e “Simulacri”
per dodici sintetizzatori del 1990, LP 33 giri pubblicato da un’altra etichetta
indipendente (Sprint record).
Ha tenuto corsi di formazione musicale e workshops sulla
musica rock in Italia, Germania, Spagna, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia.
Ha al suo attivo numerose pubblicazioni fra contributi, inserti, atti dei
convegni, libri, partiture e incisioni discografiche presso prestigiose case
editrici (La Scuola, Fabbri Editore, Tecnodid, Clitt/Zanichelli, Clueb,
Bongiovanni, Edipan). Dal maggio 2018 è entrato a far parte come tastierista
della storica band di rock progressivo
“Acqua Fragile”.
Tra collezionismo e ricerca
A partire dal 2009 fonda "Isoledipensiero", uno
studio di produzione assai singolare sul territorio nazionale, ma anche un work
in progress compositivo, attualmente alla settima release, che si avvale di una
collezione privata di organi, tastiere e sintetizzatori vintage in gran parte
di fabbricazione italiana, che si stagliano in un intero arcipelago tecnologico
costituito da oltre cinquanta esemplari.
Risulta assai difficile, grazie al supporto e
all’integrazione delle tecnologie attuali, pensare di poter esaurire tutte le
possibilità di indagine e sperimentazione legate al ri-utilizzo attuale di
questi strumenti, proprio per l’alto potenziale di suggestioni e prospettive di
orizzonte creativo che lasciano ancora oggi intravedere. Suggestioni e
proiezioni in un orizzonte compositivo da scoprire e riscoprire, in un
affascinante e sfumato confine tra ricerca sonora e pensiero compositivo.
Siamo in effetti di fronte ad una scommessa: da un lato il
recupero di sintetizzatori vintage, dall’altro una ricerca che si compie in
tempi recenti contraddistinti da ben altre tecnologie. Possiamo azzardare
l’avvio di una nuova dimensione della filologia applicata alla musica
elettronica analogamente per quanto avviene nella musica antica? Il recupero di
questi strumenti elettronici appartenenti ad un’epoca passata, utilizzati per
una dimensione compositiva in una nuova stagione creativa, configura in modo
visionario questa nuova cifra timbrico/stilistica in una sorta di rinnovata
musica elettronica dal colore antico.
Qualche chiacchiera
interessantissima!
Apprendo della tua grande collezione di tastiere (usiamo un
termine generico per facilità di dialogo): cosa rappresentano per te, oltre
alla voglia di ricerca delle radici?
Le tastiere che colleziono sono importantissime per le mie
produzioni, soprattutto di musica elettronica, a vari livelli e per varie
ragioni. Ognuna ha proprie caratteristiche in base alla marca ed il modello,
vuoi che sia un synth piuttosto che una string machine, un
organo, ecc.; più precisamente ognuno di questi strumenti nelle diverse
categorie ha una propria personalità. Come diceva il grande Edgar Froese
(Tangerine Dream): ogni strumento, dal più semplice al più sofisticato,
presenta almeno un aspetto per il quale è unico! È proprio a partire e grazie a questi
presupposti che le mie idee prendono forma; più ancora, sono orientate e
condizionate da questo stato di cose. Spesso alcuni spunti si sostanziano a
partire da un timbro, un preset, dall’uso “improprio” di qualche
elemento, addirittura dalla mancanza fisica di qualche componente. Ti racconto
questa: il mio Eminent 310 Unique è rotto, da tempo non funzionano tutti
i Do#. In una produzione avevo deciso di utilizzarlo e non c’era verso di farmi
cambiare idea, quindi… tutte le armonizzazioni che includevano il Do# venivano
modificate utilizzando altre note, variando gli accordi, ecc. Ciò ha condizionato
tutta la struttura armonica della sequenza, ma alla fine sono stato
soddisfatto. Se lo strumento non avesse avuto quella menomazione, quel brano
non avrebbe avuto quella articolazione armonica perché non sarebbe mai
scaturita quell’armonizzazione alternativa.
La prima domanda ha senso per chi è al corrente del rapporto
osmotico che spesso il musicista crea col proprio strumento/prolungamento
(anche se risulta più complicato per chi suona il pianoforte, piuttosto che la
chitarra): c’è qualche innocuo e passionale aspetto “maniacale” che ti lega
alla tastiera?
Difficile avere certezze, tuttavia tenterò qualche semplice
riflessione. Ricordo ancora oggi lucidamente che fin da bambino due cose mi
attraevano particolarmente: la tastiera del pianoforte (visivamente) e il suono
dell’organo (mi commuovevo). All’età di quattro anni abitavo a Milano e i
nostri vicini di casa possedevano un vecchio pianoforte verticale; appena
potevo scappavo da loro per schiacciare quei tasti bianchi e neri che mi
affascinavano anche solo alla visione (potete benissimo immaginare l’effetto…)!
Poi, più grandicello, in chiesa a servire messa, rimasi letteralmente fulminato
dal suono dell’organo a canne e dal fatto che quello strumento avesse più di
una tastiera. Verso i tredici anni divenni organista della mia parrocchia e
accompagnai svariate funzioni, improvvisando anche temi dei gruppi “pop” di
allora (era il periodo della Messa Beat!).
Anche chi da sempre bazzica la musica progressiva, quando
parla del contributo dato a quel genere musicale dalla “tastiera” si focalizza
normalmente su termini generici… Hammond/Leslie, moog, mellotron,
sintetizzatore: ci puoi raccontare cosa c’è stato oltre al super conosciuto,
tra sottogeneri e affini?
Ti ringrazio per questa domanda, è proprio la ragione della
mia ricerca, ovvero dare la caccia a quegli strumenti elettronici meno noti
rispetto a quelli da te citati. Quando
si celebrava il “progressive” (che al tempo era definito semplicemente “pop”)
io ero un bambino e le tastiere storiche che hanno caratterizzato questo genere
potevo vederle solo sulle riviste di allora (Ciao 2001 su tutte…), o in qualche
altra rarissima occasione; l’ ”organista” che entrava in un “complesso” (allora
si definiva così) ben difficilmente poteva permettersi un mini moog
piuttosto che un organo Hammond e tantomeno un Mellotron, e anche
per me andò a finire così! Ecco allora
che per poter emulare Flavio Premoli della PFM nel famosissimo assolo di
“Impressioni di settembre”, per il quale utilizzava il primo mini moog importato
in Italia (e un mellotron), scartando l’idea di affidare l’assolo al
chitarrista (chitarra con distorsore), nella migliore delle ipotesi la
stragrande maggioranza dei tastieristi di allora poteva disporre di un Elka
Rhapsody 490 (il 610 era già più oneroso.) per i violini e un Davolisint o l’appena più sofisticato Synther 2000
FBT in luogo del Moog. Questi due synth non disponevano di filtro (VCF)
e generatori di inviluppo, quindi erano piuttosto limitati, ma mettendo
all’unisono i due oscillatori (il Synther 2000 ne aveva ben tre!) e
scordandoli un po’ il risultato, per l’epoca, non era male. Successivamente
uscirono altri ottimi synth ad opera di marche quali Elka (il solist),
Siel (mono e Cruise), Crumar (DS1 e DS2), Eko (synth P15), ecc. Le
alternative all’organo Hammond erano invece molteplici, pur con la
consapevolezza che l’emulazione vera e propria era ancora ben lontana. Esisteva
un bellissimo prodotto italiano, un organo praticamente come l’Hammond, quindi
elettromagnetico, ma dal prezzo di acquisto comunque molto oneroso (peso e
ingombro pari all’Hammond), ovvero l’organo Pari (PFM). Massimamente circolavano
organi elettronici Farfisa, Vox, Gem, Elka e qualche Davoli: quest’ultimo aveva
il pregio di assomigliare, almeno esteticamente, all’Hammond L 100, con il
mobile in legno, le due tastiere, la pedaliera, ecc., anche se il suono era
tutt’altra cosa. Poco più avanti, se non ricordo male verso il 1976 o giù di
lì, l’italianissima Crumar sdoganò il primo vero e proprio clone elettronico
dell’Hammond che ancora oggi non sfigurerebbe in un setup di un
tastierista, ovvero il Crumar Organizer. Questo strumento aveva gli
stessi drawbar di un manuale dell’Hammond, con le percussioni e
perfino la possibilità di emulare il clic rumoroso dei tasti; il grande pregio
era la portabilità e se lo amplificavi con un vero Leslie spaccava letteralmente
(e spaccherebbe ancora oggi)! L’emulazione del pianoforte era un altro grande
problema che assillava però anche i tastieristi famosi! Nelle incisioni
importanti quasi tutti i grandi gruppi utilizzavano un pianoforte tradizionale,
a coda piuttosto che verticale, ma dal vivo pochissimi potevano permettersi di
portare su un palco un gran coda come Emerson e Wakeman. I piani elettrici più
accreditati erano l’RMI (Genesis, Wakeman, ecc…) e l’Hohnher planet n,
oltre al Clavinet che però era una sorta di clavicembalo elettrificato (Orme, Emerson,
Wakeman, ecc.); ricordo anche un Farfisa professional piano
utilizzato da Joe Vescovi. Circolavano anche i classici Fender rhodes (Area,
Perigeo, ecc.) e Wurlitzer, usatissimi da alcuni gruppi importanti anche
se il loro scopo non era quello di emulare propriamente un pianoforte acustico.
Ad un certo punto in Italia, sempre la Crumar (e successivamente anche tutte le
altre marche), presentò il Compactpiano, con sonorità ottenute
elettronicamente (senza dinamica) di pianoforte, clavicembalo e honki tonki
al costo di 200.000 vecchie lire: fu una svolta epocale! Da lì in poi tutti gli
assoli, da Firth of fifth dei Genesis a Collage delle Orme
(Scarlatti, Sonata K380), furono possibili in un live anche per noi “comuni
mortali… Addirittura vi fu qualche tastierista che vendette il vero Hammond
(per peso, ingombro e quant’altro) per comprarsi con il ricavato tre elementi
con i quali finalmente poter fare tutto: Crumar organizer, Elka Rhapsody
e Davolisint! Ad un certo punto della mia vita, completati gli studi e
raggiunta una accettabile sicurezza economica, decisi che tutti gli strumenti
storici che un tempo non potevo permettermi prima o poi sarebbero stati miei, e
così è stato! Poi, in un secondo tempo, a
partire dal 2008, il mio interesse si è orientato su tutta la produzione
italiana e ancora oggi compro tutto ciò che mi capita di trovare di elettronico
che abbia un marchio italiano.
Ti senti più musicista, compositore o ricercatore?
Compositore, assolutamente! Quella di un esecutore
(strumentista) e di un compositore sono mentalità e mondi diversi; anche se può
sembrare un paradosso, a certi livelli le due dimensioni possono diventare
addirittura incompatibili. Per quel che mi riguarda ritengo di avere la
mentalità del compositore, da sempre: quando ero studente di pianoforte il
dover studiare per diverse ore studi, brani e quant’altro, mi faceva sentire in
colpa per rubare tempo allo studio del contrappunto e della composizione.
Chi ha dato di più alla causa in fase di contributo
strumentale? Anche noi italiani abbiamo qualche rappresentante che ha
contribuito, in modo specifico dal punto di vista tecnico?
A costo di sembrare troppo scontato dobbiamo citare almeno
due tastieristi sulla scena internazionale: Keith Emerson e Rick Wakeman.
Ciò mi sembra tanto doveroso quanto universalmente riconosciuto, soprattutto
per il livello tecnico di entrambi, specialmente del primo. Personalmente sono
sempre stato molto più attratto però da Tony Banks, musicista
raffinatissimo il cui apporto nei Genesis è stato a dir poco
determinante: si pensi all’intro di Mellotron in “Watcher of the
skys”; all’ esordio sinfonico in “The funtain of Salmacis” con un
disegno su modello bachiano in semicrome realizzato con il preset “trumpet” dell’Hammond
L100 (successivamente passò alla serie T100) e dagli archi (Mellotron)
nello sfondo; all’introduzione pianistica divenuta epocale di “Firth of
fifth”… (e così dicendo ho decisamente gettato la maschera!). A livello
nazionale abbiamo avuto ottimi musicisti che in non pochi casi avevano nulla o
poco da invidiare a “certi” inglesi: penso a Maurizio Salvi dei New Trolls
nel periodo di “Concerto grosso n.1” e “UT”, i fratelli Nocenzi del Banco, Flavio
Premoli della PFM, lo stesso Joe Vescovi che mi ha preceduto negli Acqua
Fragile. Non voglio nascondere poi la mia ammirazione per Tony Pagliuca:
all’epoca di Collage, tra le altre cose, ebbe l’ardire di inserire nel
brano “Sguardo verso il cielo” delle sovraincisioni di glissati affidati ad un
oscillatore (probabilmente un multivibratore astabile) costruito da uno
studente di elettronica (il mini moog non era ancora arrivato in Italia). Fu
una pensata geniale: c’era gente disposta a giurare che fosse stato utilizzato
un Moog, anche per la somiglianza timbrica all’assolo di “Lucky man” di
Emerson…
Mi parli dei tuoi workshop a sfondo musicale?
Erano dei laboratori sulla musica rock rivolti a studenti in
una età compresa tra i 16 e i 22 anni e provenienti da tutta Europa. Questi
workshop si sono concretizzati in seno ai “Campi internazionali giovanili (International
Youth Camp)”, dal 1998 al 2006: una piccola Europa unita, animata da
ragazzi provenienti da ogni parte del Continente, felicemente obbligati a
mettere in comune le loro radici per stringere un nuovo patto di convivenza (la
durata di un campo era di 15 giorni, da passare insieme giorno e notte). Gli
I.Y.C a cui ho preso parte in qualità di docente del workshop musicale
sulla musica rock si sono svolti a Windiscleuba D (1998), Zdar Nad
Sazavou CZ (2000), Fertod H (2002), Blansko CZ (2004), Casas
Ibanez E (2005), Myslowice PL (2006). Si è trattato in sostanza di
“percorsi di progettualità multidisciplinare” organizzati nell’ambito di un
protocollo d’intesa fra la Regione Emilia-Romagna, il Land Baden Wurttenberg
(D) e la Diputacion Provincial di Albacete (E). Ogni esperienza è stata
caratterizzata da un tema comune, spesso ispirato e desunto da storie e
leggende locali legate ai paesi organizzatori, nella prospettiva dell’unità
europea, quali ad esempio “Source of Europe”, “Exploring a magic Europe”,
Youth Fusion”, “Think Positive”, ecc. e culminava nell’allestimento di un Musical
(final show) con il concorso di più discipline, quali teatro, danza,
tecnologie, pittura, sport e soprattutto la musica. In quelle occasioni ho
composto la colonna sonora per il musical finale di ogni I.Y.C. e curato
la preparazione della band preposta all’esecuzione nel workshop
da me tenuto. Sono state esperienze fantastiche e molto significative, talmente
importanti che hanno fatto da spartiacque segnando la mia vita fra un prima e
un dopo, anche grazie alle meravigliose amicizie che ancora oggi coltivo.
Che cosa è "Isoledipensiero"? Puoi approfondire?
Oltre a quanto già detto in premessa, l’idea della
denominazione di “Isoledipensiero” deriva dal posizionamento delle varie
tastiere raggruppate per marche e modelli. Col crescere della strumentazione mi
venne l’idea di organizzare i vari setup creando appunto gruppetti di strumenti
organizzati per singoli marchi, in modo tale da ritrovarmi un gruppo di tastiere
Crumar, un gruppo Elka, un altro gruppo Siel, ecc., cioè veri e propri setup
monomarca. Sembravano proprio degli “isolotti” e da qui mi venne l’idea di “isole
di pensiero”, visto che ogni marchio si distingueva anche per una sua filosofia
progettuale. Da allora ho iniziato a produrre delle suite caratterizzate
dall’impiego quasi esclusivo di queste macchine. In “isoledipensiero III”
(2012), per ogni brano utilizzo due, massimo tre synth di una stessa marca,
sempre rigorosamente di progettazione e costruzione italiana, evidenziando e
valorizzando le caratteristiche progettuali e sonoro-articolatorie degli stessi
che a loro volta influenzano e interagiscono con l'evoluzione
formale/strutturale del divenire compositivo. Quest’ultima caratteristica è
comunque un tratto distintivo comune a tutta la produzione di “Isoledipensiero”
arrivata oggi alla n° VII. Quindi “isoledipensiero” è una collezione di Synth,
uno studio di produzione, un work in progress compositivo del quale
ancora non riesco a vedere la fine...
Di cosa consta la tua collezione personale?
Partirei da una prima “isola di pensiero” che scherzosamente
(ma non troppo) amo definire “patrimonio dell’umanità”, ovvero le tastiere
storiche: Organo Hammond M162 (americano) con Leslie 770, Eminent
310 Unique, Arp odyssey, Clavinet Hohner D6, Piano Fender Mark II,
Mellotron 400D (inglese e totalmente ristrutturato in Inghilterra dalla
casa madre), Mini Moog mod. D. E ora veniamo al versante italiano,
ovvero la svolta della vita. A partire dal 2008 decisi di iniziare una
produzione musicale elettronica utilizzando solo ed esclusivamente
sintetizzatori progettati e prodotti dalle nostre aziende italiane: Farfisa,
Elka, Crumar, Siel, Gem, Davoli, FBT, ecc. Ciò, sempre secondo i miei
intendimenti, per valorizzare una serie di strumenti all’epoca sottostimati in
quanto definiti il “voglio ma non posso”, ma con caratteristiche assai
interessanti, alcuni dei quali utilizzati anche da gruppi storici: si pensi
all’organo Farfisa compact Duo dei Pink Floyd; all’Elka Rhapsody
610 utilizzato da Tangerine Dream, J.M. Jarre, Vangelis, ecc.; al
Farfisa Syntorchestra di Klaus Schulze, ecc. Parte la ricerca e
nel giro di qualche tempo mi ritrovo con una quindicina di esemplari a cui si
sono aggiunti tutti gli altri qua sotto citati: tre organi Farfisa, Farfisa soundmaker, Farfisa
synthorchestra; Elka Rapsody, Elka
solist, Elka EK44, Elka OMB5; Logan string orchestra; Davolisint, Davoli
sintaccord 44; FBT Synther 2000; Jen sx 1000, Jen sx 2000; Siel Cruise,
Siel Orchestra 2, Siel Opera 6, Siel DK80; Gem PK4900, Gem Equinox,
Organo mini Gem, Gem instapiano, Gem WS; Crumar DS2, Crumar Stratus,
Crumar Multiman, Crumar Crucianelli compactpiano; Eko synth P15;
Viscount DB3, Viscount/Oberheim 3 Squared; due HitOrgan Bontempi.
Per finire vi sono altre tastiere
giapponesi, alcune delle quali sono state dei punti di riferimento importanti
negli anni Ottanta, ma poco o per nulla utilizzate in “isoledipensiero”: Yamaha
DX7, Roland D50, Korg Poly 800, Korg DSS1, Yamaha YS 100, Korg MS20 mini,
Roland JX-03, varie tastiere controllo.
Da un po’ di tempo fai parte della rinata Acqua Fragile, dove
sono presenti tre membri originali che sicuramente fanno sentire il loro peso…
uno in particolare: quanto spazio riesci a ritagliarti e quanto pensi riuscirai
a farlo nel prossimo disco, che dovrà consolidare la nuova formazione?
Quando mi proposero di far parte degli Acqua Fragile,
accettai con molto entusiasmo ma anche con la consapevolezza di non volermi
limitare semplicemente al ruolo di tastierista, anche in considerazione del
fatto che uno dei miei predecessori è stato nientemeno che Joe Vescovi. La
composizione è sempre stata il mio pallino e fin da subito ho cercato di farmi
accettare, anche e soprattutto per la possibilità di portare nuove idee
rispetto alla visione che ho del rock progressivo, alfine di poter contribuire
ad intraprendere un nuovo percorso di ricerca. Ciò nel rispetto della storia del
gruppo caratterizzato da quel tipico sound che scaturisce dai primi due
album che reputo straordinari, sia per la freschezza inventiva che per
l’energia che emanano ancora oggi. Attualmente sto proponendo alcuni materiali
a Bernardo Lanzetti: ci scambiamo spunti, idee e quant’altro possa contribuire
alla stesura di un potenziale nuovo brano. Quando questo inizia ad avere una
sua struttura viene poi girato al gruppo e sperimentato in sala prove con
apporti a cura di tutti i componenti della band. Nella mia prima
proposta, costituita solo dalla struttura armonico/formale comprensiva anche di
due assoli, ho chiesto espressamente che la parte melodica (oltre naturalmente
al testo) fosse ideata da Bernardo stesso; quando ho sentito la sua voce
cantare sul pezzo potete immaginare la mia emozione, non mi sembrava vero tanto
suonava bene! Anche in questo caso possiamo parlare di un work in progress
nel quale, mi auguro, possano sbocciare buoni frutti.
1Un’ultima curiosità, sono sempre rimasto affascinato dall’uso
del theremin, il più antico strumento elettronico, spesso usato in ambito prog
dal tastierista di turno, anche se in effetti non esiste alcun contatto fisico:
cosa ne pensi?
Conosco questo affascinante strumento anche perché ne
posseggo uno, marca Moog! È molto bello ma non ho mai pensato di impiegarlo
seriamente anche perché, per essere ben utilizzato in interventi che non si
limitino al solo glissato, anche il Theremin, come ogni altro strumento,
richiederebbe l’applicazione di una tecnica mirata, frutto di uno studio serio
e sistematico, specialmente per trovare giusto equilibrio tra espressività e
stabilità di intonazione. La difficoltà di utilizzo sta proprio nel fatto che
lo si suona senza toccarlo, quindi senza alcun riferimento visibile specialmente
per quel che riguarda il controllo dell’intonazione. Detto controllo avviene
avvicinando o allontanando le mani da due antenne: una controlla appunto
l’intonazione (collocata verticalmente) e l’altra l’intensità (collocata
orizzontalmente). Oltre all’impiego fatto da Jimmy Page nel particolare
intermezzo del brano Whole Lotta Love e il famosissimo Thriller di
Michae Jackson, non conosco opere prog anni 70 con un impiego
significativo di questo strumento.
Anche se a volte sembra che non ci sia più niente da
inventare, penso anche che il continuo confronto con altri tastieristi
“maniaci” di synth italiani sia estremamente arricchente, a questo
proposito ho aperto da alcuni anni un gruppo facebook “Sintetizzatori
vintage italiani” (www.facebook.com/groups/1209164015790517/): chi avesse voglia di fare due
chiacchiere mi trova là, oppure se preferisce può contattarmi in privato.
Contatti Stefano Pantaleoni
Tel:
3387461987
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Panoramica Isoledipensiero
Panoramica strumenti storici
Particolare del Mellotron 400 D
Postazione Crumar
Postazione Elka
Postazione Gem
Postazione Siel e Farfisa
Rhodes stage piano Mark II e Arp Odyssey
Siel Cruise
Siel Opera 6
Viscount DB3
Stefano
Pantaleoni a Veruno,
lo scorso settembre con l’Acqua Fragile…