Non ho interesse nel perseguire la pratica del gossip o nel
pubblicare giudizi e affermazioni tese al sensazionalismo - non ho niente da
vendere e nulla su cui lucrare - ma sono solo realmente interessato ad un fatto
che, per puro amore verso il personaggio e la sua musica, mi ha toccato
profondamente.
La scomparsa di Keith Emerson, l’ho scritto in più occasioni negli
ultimi giorni, mi ha colto di sorpresa e mi ha ferito; non una morte
accidentale, ma, secondo quanto si dice, un suicidio. Un po’ di sano egoismo
porterebbe a dire: “Ma come si è
permesso? Perché ci ha privato della sua possibile futura arte e del suo ruolo?”.
Mi è venuta voglia di indagare maggiormente, utilizzando la
figura di Emerson come simbolo della categoria, non quella del musicista, ma
dell’essere umano che arriva ad una svolta, trovando difficoltà nell’identificare
un obiettivo di vita importante.
Ci stiamo
preparando a vedere scomparire ad uno ad uno tutti i nostri miti, e prevale
sempre una certa razionalità… l’età che avanza, una vita vissuta intensamente e
spesso fuori dalle regole, ma l’autosoppressione è un fenomeno più
circoscritto, e pone la star sullo stesso piano di un comune mortale, entrambi possibili
vittime di una malattia dell’anima.
Ci sono i
ventisettenni morti per overdose, o giù di lì (Hendrix & amici), esiste chi si toglie la vita da
giovane per un forte e palese disagio esistenziale (Cobain), ma l’uomo che
arriva al suicidio perché esiste un distaccamento forzato dal prolungamento di
una vita (lo strumento con cui si esprime, qualunque esso sia), o perché
attraverso di esso non può più proporsi come un tempo, è qualcosa che fa male,
e che suggerisce una riflessione che riguarda tutti gli uomini, quando arriva
il momento del cedimento, fisico o psichico, o entrambe le cose.
Non è possibile
parlare di terzi senza avere elementi tra le mani - solo notizie
filtrate dai media - ma ero curioso di sapere cosa dice la scienza in casi come
quelli che la stampa ha configurato.
Mauro Selis, l’amico a cui mi sono rivolto, prova a rispondermi, coniugando le sue
competenze professionali all’amore - e
conoscenza - per la musica.
E se le cose
sono andate diversamente rispetto a ciò che è di dominio pubblico, beh, il nome
di Keith Emerson si può tranquillamente sostituire con le tante persone che,
purtroppo, si sono trovate in una situazione simile.
L'uomo è da sempre alla ricerca della sua metà,
della sua completezza. Nel Simposio, Platone faceva discutere Aristofane sul tema dell'amore, con
le persone alla ricerca della loro antica unità e della perduta forza
primigenia. Sono del parere che si possa ampliare il discorso, ponendo
l'accento anche su quelle attività precipue che completano l'uomo, il quale
diviene tutt'uno con esse.
Keith Emerson si completava con la tastiera, il
pianoforte. Come la maggior parte dei grandi musicisti egli si fondeva con lo
strumento, epigono espanso del suo tratto di personalità, “organo”
indispensabile e necessario per
esprimere la purezza e la prestanza di un fuoco interiore che donava
vitalità e senso alle cose. Cosa poter fare senza di esso? Come poter
cimentarsi tra le insidiose pieghe della vita senza quell' appendice psicofisica? Quei tasti bianchi e neri e quei
Moog e Hammond erano strutture integrate dentro un organismo perfetto per
produrre un suono che ha ammaliato per tecnica e creatività. Stupire,
attraverso evoluzioni circensi, con fraseggi e tappeti sonori che hanno scosso
il mondo, quell’universo che lo ha elevato come un semidio nel panorama
prog-rock dagli anni settanta in poi.
In questa scenario emersoniano appare poco
credibile il concetto dello psicanalista Alfred Adler che concepisce l'auto-soppressione
come una reazione di difesa super-compensatrice del complesso di inferiorità.
Keith nella sua megalomanica figura artistica aveva
costruito - con pregnanza - la sua missione, incarnante nel contempo sia la
dimensione egocentrica, sia l'indole narcisista.
In definitiva l'Io si struttura per gradi e si
solidifica attraverso l'interazione con i contesti e le altre persone. Se le
macchine si possono sostituire con una certa facilità, le parti umane di questo
unico “organo” seguono il destino naturale delle cose, il fato con i suoi
percorsi lastricati da massi ostili, felicità sottili e risvolti imprevedibili.
Come un capitano di antico valore non abbandona la propria
nave nel più devastante dei naufragi così per Keith non era concepibile obliare
la tastiera (e derivati), questione emotiva ma anche razionale.
Immagino Emerson, immerso nella sua angoscia come
un frutto prelibato in acqua impura, quante volte si sarà osservato le mani, le
dita... anche in quell'ultima notte lo avrà fatto tra gli anfratti della sua
sofferenza psichica. Con le mani avrà impugnato l'arma letale, quelle mani che
sul pentagramma avevano tracciato composizioni indimenticabili ora erano appendici
per adempiere alla scelta finale. Quel dito che migliaia di volte aveva premuto
un tasto di piacere ora incombeva sopra il grilletto, pigiandolo avrebbe emesso
una nota sola… definitiva, quella che lacera il tessuto esistenziale per
chiudere quei Pictures at an exhibition dell'esistenza terrena.
Accettando di sopprimersi Keith ha perseguito - inconsapevolmente? -
una logica artistica, quella della sopravvivenza del proprio patrimonio
creativo, non attaccato dal mortifero scenario del decadimento.
Dandosi la morte, Emerson ha consolidato la non
accettazione di un cambiamento, la non adattabilità alle stagioni, la non
flessibilità, come se altre storie non potessero pervadere il suo percorso
terreno, rigoroso e rigido verso un
unico stile di vita.
Per dirla con Albert Bandura, Keith stava smarrendo
il suo senso di autoefficacia.
“Quando
l'autostima e l'integrità del sé dipendono dall'attaccamento di un oggetto
perduto, il suicidio può apparire come l'unica via per stabilire la coesione di
sè” (Glenn Gabbard 2002).
Il richiamo della musica era più forte di ogni
altra forma di affettività, di fatto il suo gesto autodistruttivo è la
rappresentazione di una forte ostilità inconscia, con compromissione della
capacità di amare le altre cose, come se il suicidio fosse il soddisfacimento
del desiderio di ricongiungersi - in altra forma/dimensione - “all'organo”
amato che stava per essere perduto definitivamente in questa vita.
Alcuni uomini
nascono dopo la morte, affermava Friedrich
Nietzsche, ma Keith Emerson nella morte ha trovato il consolidamento della sua
grandezza di musicista, un lungo assolo oltre il sintetizzatore dell’eternità.