sabato 7 maggio 2011

Eugenio Finardi, "Spostare l'orizzonte..."



Rendere pubbliche le mie impressioni dopo la lettura di un libro a sfondo musicale è un esercizio che compio regolarmente e senza essere sottoposto a nessun tipo di sollecitazione. La motivazione è sempre la stessa, quella voglia di condivisione che da sempre mi guida, quella spinta che mi arriva dopo ogni concerto vissuto o dopo ogni nuovo album ascoltato.
Scrivere e parlare di qualcosa inerente all’argomento “Finardi” significa per me fare sforzi estremi per mantenere l’obiettività, quel principio morale che non è richiesto ad un mero appassionato di musica (come io sono) nell’esercizio di un proprio hobby, ma che mi piacerebbe perseguire in ogni rappresentazione del quotidiano. Ma della… precarietà dell’oggettività, Eugenio è convinto, e non perde l’occasione di rimarcarlo nel corso del dialogo con il suo interlocutore. Non rientro nella sfera”fan di Eugenio ad ogni costo”, e non sono nemmeno aggiornato sui risvolti reconditi dei sui numerosi progetti, ma Eugenio Finardi mi ha, di fatto, accompagnato nel mio percorso di vita, e credo che sapere di possedere una capacità del genere, per un musicista possa rappresentare grande elemento di gratificazione.
La lettura di “Spostare l’Orizzonte, come sopravvivere a 40 anni di rock”, autobiografia “particolare” di Eugenio Finardi, realizzata assieme allo scrittore Antonio G. D’Errico, mi ha fornito momenti di riflessione ad ogni pagina, e sono caduto in un tale stato di coinvolgimento che, appuntando mentalmente ciò che avrei voluto scrivere come commento, la mia storia si è intersecata alla sua, e alla fine mi sono ritrovato a descrivere me stesso, tante erano le similitudini. E la musica qui non c’entra.
Una delle tante affermazioni di Eugenio all’interno del racconto della sua vita, riguarda il suo ruolo e la sua discografia. Ogni album è l’immagine allo specchio di una situazione precisa… c’è quello per l’amore perduto, per quello rinnovato o per un particolare stato d’animo. Anche l’età di chi si accosta alla sua musica è la più ampia possibile, perché se esistono quelli come me che lo hanno visto suonare poco più che ventenne, ci sono anche quelli che possono entrare nella vita musicale di Eugenio in qualsiasi momento, e troveranno sempre ciò di cui nutrire l’anima. Vorrei dire ad Eugenio che il suo book è esattamente la stessa cosa. Chiunque, a qualsiasi età ne può usufruire… chiunque abbia bisogno di un po’ di realtà, di sentimenti e di confronto.
Vorrei sempre dire a Finardi che, nonostante abbia toccato argomenti estremamente personali e aneddoti che forse erano noti a pochi, nella sostanza non ho trovato novità, volendo con questo evidenziare che tutto ciò che lui è stato e ancora è, con tutte le naturali evoluzioni, risulta chiaro e limpido dalla lettura del suo “lavoro”, che non é quello di scrittore, ma di musicista, e anche a chi come me lo ha seguito in modo non assiduo, attraverso la sua musica sono arrivati diretti e netti i risvolti importanti della sua vita.
Ma perché dovremmo entrare nel suo privato? Non ci basta la musica? Non basta ringraziare?
No… nel caso di Eugenio Finardi, credo occorra farsi coinvolgere.
Ho invidiato da subito il bravo D’Errico, e avrei voluto essere al suo posto per la complicità che è riuscito a creare con il misterioso (per lui ) cantautore.
Ho divorato le prime pagine e a un certo punto mi sono dovuto fermare e rivolgermi direttamente a lui, a Eugenio Finardi. Non ci siamo mai visti a quattr’occhi, ma abbiamo avuto qualche contatto epistolare e le sue risposte sono sempre state rapidissime ed esaurienti, seppur concise. Sono a metà libro quando sento dentro una profonda tristezza e mi rendo conto di quanto possa essere grande il dramma di un uomo che, se guardato da occhio superficiale, potrebbe solo essere considerato una star, e quindi un privilegiato per definizione; ma il suo dramma è il mio, e probabilmente quello di tutti gli uomini un po’ “antichi” che, se dotati di sensibilità, navigano tra i bilanci personali e probabilmente non hanno più il minimo pudore che li trattiene nel metterli in piazza.
Gli scrivo velatamente il mio stato d’animo e gli chiedo:” Ma dimmi… che cosa è per te la felicità?”, aggiungendo che io la mia definizione l’avevo pronta in tasca.
Mi risponde poche parole:” cantare, quando tutto è OK. Ma la felicità è un sentimento evanescente...

I Samurai dicevano che il sentimento più alto è la "Struggente Consapevolezza".

La musica quindi come rimedio a tanti mali, e la felicità come picco di uno stato di grazia da non perseguire, perché effimero, evanescente (come dice Eugenio), poco importante nella fase di vita che coincide con la maturità.
E cosa serve allora a noi poveri uomini, musicisti come Eugenio o persone comuni?
Arriviamo a piccoli passi ad una conclusione.
Eugenio Finardi vive la sua “splendida esistenza” come un diverso, in Italia come in America. E’ a casa sua in entrambe le situazioni, per effetto di genitori che racchiudono le due culture, ma subisce una sorta di frustrazione da elemento non completamente integrato. Io ricordo l’ammirazione che suscitava in noi giovani, per il semplice fatto che conosceva bene ciò che per noi erano solo immagini felici che uscivano dalla televisione. E poi sapere bene l’inglese… che vantaggio rispetto a tutti gli altri comuni mortali!
Per alcuni anni, l’arrogante e antipatico Finardi (è lui che si definisce così pensando a quei giorni permeati di insicurezza, dove il bianco e il nero erano i soli colori conosciuti) cresce seguendo le sue passioni, arrivando a uno dei tanti “punti alti” che costellano una vita. E dopo il picco c’è sempre la profonda discesa.
Molte pagine sono dedicate ad uno dei grandi drammi della sua vita, e cioè la nascita di Elettra, nel 1982, affetta da sindrome di Down.
Eugenio descrive come i grandi drammi della vita di un uomo siano la perdita di un figlio e il divorzio, inteso come la rottura di una famiglia. Da tutto ciò è stato più o meno toccato.
La nascita di Elettra, figlia amata e adorata, inaspettatamente diversa, è ciò che nessun genitore mette in conto, perche un tale evento è associato ad una punizione divina, ad un grande torto, e perché ogni genitore proietta una parte di se stesso in quello che sarà il suo prolungamento nella vita. E il dramma in questo caso si amplifica, col passare del tempo, per la completa coscienza della propria condizione da parte della giovane Elettra.
Grazie alla musica, al volontariato e alla forza personale, Eugenio si rialzerà come accade a molti… in attesa di una prossima caduta.
Un altro figlio, una separazione e quindi un altro baratro.
Il mondo cambia, le esigenze mutano, e l’illuminista Finardi non si ritrova più in nessuna ideologia costituita e incasellata, così come non capisce più la sua”Italia”. Le fughe in America sono frequenti, ma ancora una volta non c’è pace e non c’è luogo che rappresenti un porto sicuro.
Gli amici si trasformano spesso in “delusioni”, come accade, purtroppo, sempre, comunque e ovunque.
I progetti musicali fortunati si alternano agli insuccessi commerciali e all’altalena delle differenti case discografiche, che sono focalizzate sul marketing, piuttosto che sui disegni artistici.
Ma c’è sempre qualcosa da inventare, dalla canzone d’autore, al rock più elettrico, dalla poesia al fado.
Il blues merita menzione a parte, essendo la radice profonda di Finardi. Blues significa America, ma non significa musica, non solo almeno. E’ uno stato d’animo, è un modo di essere, una sofferenza interna che emerge con o senza suoni.
Ma servono sempre le parole? Sono necessarie in una canzone? Domanda stupida se rivolta ad un cantautore! Eppure Eugenio da una risposta ad una domanda che pongo sempre e su cui esistono differenti posizioni, tutte valide. L’immagine è quella di un giovane e suo padre che ascoltano un adagio di Mozart, e mentre la musica invade la stanza le lacrime del giovane escono senza remora alcuna. “Ma perché piangi Eugenio… non ci sono mica parole in questo brano?!”
Il tempo passa inesorabile, “Il vento di Elora” rivela aspetti sconosciuti e la vita continua, con la sensazione che ad ogni angolo sia stata tesa una trappola.
La furia di un tempo si è affievolita, e i “cavalli bradi” sono ormai quasi addestrati, ma la natura un po’ ribelle e refrattaria alle ingiustizie di ogni genere, resta accesa.
Ma allora, “.. qual è il senso…?”, la butta lì Finardi?
Il senso della vita?”, risponde D’Errico?”, “no, il senso…”, e lo scambio di battute viene rimandato a successivo incontro.
Arrivati a cinquant’anni si diventa saggi, normalmente, e più si va avanti e più si acquisisce conoscenza.
E’ il vero periodo della tranquillità psicologica, stagione della vita dove si trae vantaggio dalle esperienze pregresse, dove tutto sembra più chiaro, dove se si sbaglia c’è una certa consapevolezza nel farlo. E’ anche il momento in cui spesso i figli sono grandi e meno bisognosi di cordone ombelicale permanente (ma Finardi, con i suoi tre figli, sa che così non sarà mai!), e quindi si hanno aspettative differenti anche se meno durature, temporalmente parlando.
Ma allora … dove sta il significato di tutto questo incedere con fatica nel tempo? “Il senso di .. tutto questo sta nelle cose semplici”, ci dice Eugenio; sta nel tentativo di raggiungere quello stato di beatitudine che non ha niente a che vedere con un “picco di felicità”, ma ha un nome ben preciso… SERENITA’, quello stato di benessere interiore a cui tutti dovrebbero aspirare, magari senza attendere i cinquant’anni.
L’immagine finale del libro, con la bella famiglia riunita ed Eugenio tranquillo, sotto al sole estivo, è di buon auspicio. Semplicità e pace totale… ricetta magica che nessun libro letto in giovinezza potrà mai regalarci!
Ho scritto poco, quasi niente, della vita conosciuta di Eugenio Finardi, quella cioè legata alla musica.
Ho scritto poco anche delle sue passioni politiche, dei suoi alti ideali e del suo essere ateo.
Ho scritto poco o niente delle sue amicizie o presunte tali.
Ho scritto poco dei suoi amori e dei suoi hobbyes, e forse anche della perfetta evoluzione stilistica della sua musica, tutte cose che si possono trovare all’interno del libro, anche se, ribadisco, le cose che mi hanno toccato nel profondo sono molto più… comuni.
Antonio G. D’Errico è stato perfetto, e trovo che adottare il metodo”del gruppo di lavoro”, quello dove si inserisce all’interno di un team un elemento esterno, in quanto “vergine” e quindi capace di vedere laddove altri non potrebbero mai arrivare, sia stata una carta vincente.
Una curiosità, il nome “EUGENIO FINARDI”, anagrammato, si trasforma in “O FIGURE INDIANE”, e questo potrebbe avere qualche significato nascosto annesso all’esistenza di Eugenio.
Per un ulteriore anagramma, sicuramente meno fascinoso, ma comunque “umano”, rimando alla lettura del libro.
Io ringrazio Eugenio, perché come più volte ho scritto (e credo lui abbia letto), ha contribuito a creare la colonna sonora della mia vita, e dopo la lettura “costruita “ da D’Errico ho qualche elemento in più per trovare il conforto alle mie modeste tesi di “uomo della strada”.
Anche in questo caso, l’aspetto della condivisione placa la mia ansia e mi gratifica.
Il titolo del libro è l’interpretazione di una frase del cantante/poeta russo Vladimir Vysotsky, scomparso nel 1938: “Trova il punto estremo e sappilo varcare e vedi di spostare l’orizzonte.
Caro Eugenio, per trovare un punto estremo ci vuole anche ambizione… per oltrepassarlo ci vuole anche coraggio… per spostare in alto l’asticella ci vuole anche follia… ma forse, a un certo punto della vita, si può vivere bene anche restando in pura contemplazione, in attesa di nuovo impeto e di rinnovata forza. La coscienza, potrebbe essere comunque a posto… forse.