Kalachakra è il secondo album de il “ Ballo delle Castagne”, gruppo nato agli inizi
del 2008.
I miei
“giudizi musicali” hanno lo scopo di incuriosire i lettori e condurli alla
“prova del disco”, ma alcuni elementi oggettivi vanno chiariti, ed è bene dare
subito una giustificazione al nome del gruppo e al titolo dell’album.
Il 31 ottobre 1501
Alessandro VI e Lucrezia Borgia organizzano una sorta di sabba satanico passato
alla storia come il “ ballo
delle castagne”, un'orgia
ideata da Cesare Borgia, durante la quale prostitute nude
danzano tra candelabri messi a terra e poi raccolgono con la bocca,
strisciando, castagne sparpagliate sul pavimento“. La festa venne descritta
come un sabba di streghe e vari testimoni affermarono di avere visto scimmie
nere sorvegliare la camera di Alessandro VI, altri di aver visto il Papa
firmare un patto con il diavolo. In quegli anni la figura del demonio prende la
forma del toro, presente nello stemma nobiliare della famiglia Borgia.
Nome dell’album
“Kalachakra” è ispirato
dal documentario “Kalachakra: the wheel of time” (che il regista tedesco Werner
Herzog ha realizzato nel 2003 sull’importante rito d’iniziazione buddhista) e
dedicato alla lotta di liberazione del Tibet, con tutta la sua carica simbolica.
Come sempre
accade, cerco di mantenermi lontano dalle rigide etichette e mi rifugio nella
rassicurante famiglia del rock, vasta prateria in cui c’è spazio per
un’infinità di emozioni.
E sono quelle
le basi… il rock intendo, ma lo sforzo della ricerca, il tentativo di
sperimentare nuovi sentieri (nuovi rispetto all’usuale) è assolutamente
apprezzabile.
Le radici
culturali di chi compone spingono in direzioni ben precise, e l’ascolto di
questo album, così come per molti altri “nuovi”, conferma le mie convinzioni:
non è tanto il copione, il soggetto, l’argomento, che rendono godibile un
lavoro musicale, quanto la via che si sceglie per “raccontarlo”, musica e
liriche unite magari a differenti arti, il tutto per cesellare “un attimo” che
rimarrà unico e per sempre.
Una delle
tante osservazioni che Bill Bruford fa nella sua recente e fantastica
autobiografia, è legata alla marea di CD che vengono creati in continuazione,
da chiunque, magari da casa. E vengono dimenticati persino da chi li ha creati,
ma da quel momento prendono vita e continueranno ad occupare uno spazio,
inutile, accanto a noi, sottraendo … ossigeno.
Ciò che ha
realizzato il “ Ballo delle Castagne” con questo secondo album è invece
qualcosa di pregevole, difficile, risultato di impegno notevole.
Le tinte sono
molto scure, profonde e riportano ad un dark che mi ha ricordato molto alcuni
passaggi dei Van der Graaf Generator.
Si assimila spiritualità, arrivano messaggi anche solo attraverso la musica e
mi pare di poter dire che la band si muove entro linee guida progressive,
secondo i canoni più tradizionali.
Anche le
liriche sono cariche di significati che danno valore aggiunto all’immagine
musicale (fatto non scontato). Ecco un esempio esemplificativo tratto dal brano
“I giorni della memoria
terrena”.
Sogno… è forse un sogno?
Questa terra?
Tace, nell’ombra tace
ogni segreto della vita
Padre, ricordami i
giorni/ Dell’esistenza terrena
Sogno… è forse un sogno?
Questa terra lontana?
Come la nebbia tra terra
e cielo
Ma è musica di
estrema “atmosfera”, che parla anche senza parole, che descrive perfettamente
un dramma col solo contorno musicale (da legare alla seconda domanda dell’intervista a seguire), come accade ne “La foresta dei suicidi”,
una sorta di colonna sonora per un qualsiasi movie sul tema.
Un bell’album,
un gruppo da scoprire, con la certezza che a Kalachakra ci sarà un seguito.
Ma
approfondiamo la conoscenza con il “ Ballo
delle Castagne”.
INTERVISTA
Alcuni giorni fa, ho ascoltato un autorevole operatore del settore
musicale che affermava che esiste una profonda crisi di idee e di talenti. Io,
che quotidianamente sono a contatto con nuove musiche e nuove proposte,
non sono assolutamente in sintonia, e penso che siamo invece di fronte a una
mancanza di opportunità. Qual è il vostro pensiero?
Assolutamente d’accordo. Esistono talenti e bands
sconosciute ai più che vivono e provengono da contesti isolati o extra urbani,
dove è davvero difficile uscire o farsi notare. Internet ha dato a molti (forse
a troppi…) la possibilità di uscire o debuttare sui social network o in
rete, ma esistono nuovi meccanismi (come il sovraffollamento, la bassa qualità
delle produzioni, etc…) che nella realtà hanno abbassato lo spazio disponibile.
Insomma, oggi è più facile realizzare un disco e metterlo in rete, ma è molto
difficile trovare poi chi lo sente. Corollario del sistema è il tracollo
poi degli spazi live, vero banco di prova per i gruppi.
Nelle mie interviste c’è quasi sempre una domanda che riguarda il
rapporto musica/testo, quesito dettato dalla curiosità di sapere se la mia
personale posizione sia condivisibile. Le risposte sono sempre molto
differenti, ma ho trovato singolare che un cantautore (famoso)raccontasse di
alcune lacrime cadutegli nel corso di un ascolto di una musica priva di
liriche, rafforzando la mia idea che se ci siamo innamorati da bambini di brani
di cui non capivamo una parola (è ancora così, nonostante sia normale parlare
in inglese)un motivo preciso ci doveva pur essere. Qual è la vostra opinione?
Posso rispondere partendo solo dalla mia esperienza
personale. Da piccolo, mio padre mi portava spesso al teatro a vedere diverse
opere liriche, e più di una volta mi son commosso nel sentire una determinata
aria o parte strumentale… ricordo delle emozioni fortissime. Ci sono opere che
non hanno necessariamente bisogno di accompagnamento vocale o di essere
racchiuse in un campo visivo. La loro potenza evocativa è determinante, ma
questo è un fattore assolutamente soggettivo. Personalmente adoro i brani
strumentali.
Immagino che i vostri punti di riferimento siano stati i più disparati,
ma esiste un musicista o un gruppo che riesce a mettere tutti d’accordo?
Difficile… difficile… potresti passare ore col mio
chitarrista a parlare di Bitches Brew di Miles Davis, o giorni con me a
disquisire sulla importanza antropologica di gruppi come YAHOWHA 13… next
please!
Quanto conta l’amicizia nella conduzione di un progetto comune come
quello relativo ad una band? Basta essere professionisti( e professionali) o è
necessario trovare l’affiatamento e il feeling giusto?
Conta al 100%. Siamo tutti molto affiatati; la professionalità
può e deve essere comunque un elemento aggiuntivo. Nel momento in cui non ci
fossero queste condizioni, sarebbe meglio chiudere e andare a casa, senza
rancore.
Cosa pensate dell’evoluzione del businnes della musica e
dell’utilizzo di internet. Quali i pregi e quali i difetti.
Come già sopra accennato credo che i difetti siano
davvero tanti; la rete è stato un elemento di democrazia troppo grande per
essere usato in maniera intelligente. Io credo che nel complesso stiamo
naufragando dentro questo marasma mediatico. Vedo che molti gruppi cercano di
stare al passo coi media attuali iscrivendosi su tutti i social network
possibili. Certamente passa anche per questo la notorietà al pubblico di massa.
Ma il discorso per noi credo sia diverso. Noi facciamo musica per noi stessi.
La nostra non è la rivelazione in termini biblici. Non vogliamo convincere
nessuno di niente. Chi ci vuole scoprire ci troverà.
Cosa significa per voi collaborare con un’etichetta come la Black Widow
Records?
È un grande onore. Non solo per la storia di questa
etichetta che nell’arco di un decennio ha svolto davvero un lavoro egregio e di
merito, ma anche per la qualità e il metodo di lavoro. Siamo assolutamente
soddisfatti di come è andata la promozione del disco. Speriamo di replicare al
più presto.
Qual è la vostra posizione rispetto all’evoluzione tecnica e alla
sperimentazione?
È un campo sul quale bisogna sempre crescere e
confrontarsi con umiltà. Ci troviamo spesso a confrontarci su nuove idee e
nuove soluzioni specie in fase di registrazione. Speriamo di poter maggior
spazio a nuove idee nel nuovo album. Trovo comunque certi barocchismi tipici
del prog rock italiano lontani dalla nostra maniera di arrivare al cuore della
gente.
Che tipo idi interazione col pubblico riuscite a creare in fase live?
Cosa rappresenta per voi la performance on stage?
Abbiamo realizzato fino adesso pochi live, quindi è
difficile darti una risposta completa. Per noi il discorso live rimane comunque
molto importante. Abbiamo rifiutato diverse offerte in quanto credo sia
indispensabile ed irrinunciabile riuscire ad offrire uno spettacolo dal vivo in
grado non solo di rappresentare degnamente l’album, ma anche di superarlo,
completarlo. Le buone intenzioni poi si scontrano sempre con locali marci,
senza amplificazione, etc… suonare dal vivo oggi è diventato sempre più
difficile.
In un mio recente scambio di battute con un famoso giornalista musicale
nato (dal punto di vista lavorativo) negli anni ’70, mi ha colpito una sua
affermazione che, riferita a “quei tempi”, suonava così:” … erano giorni in cui bastava provarci per
diventare una rock star…”. Vi è mai capitato di pensare che non sarebbe
stato male vivere quell’epoca?
Personalmente credo che gli anni ‘90 siano stati gli
anni più bui della musica in generale, sia per la povertà di idee sia per il
nascere di quello stile “ascolta/brucia/consuma” che ormai è diventato lo stile
dominante della musica di oggi. Certamente gli anni ‘70 son stati importanti ed
è anche vero che il caso ha giocato un ruolo davvero importante per molte band,
ma se questo è vero per alcune credo sia stato anche determinante per
l’insuccesso di altre.
Ancora un sogno ad occhi aperti… cosa vorreste vi capitasse, musicalmente
parlando, nei prossimi tre anni?
Il concerto perfetto! Ti sembra poco?
Kalachakra
Track list:
1. Passioni Diaboliche
2. Tutte Le Anime Saranno Pesate
3. I Giorni Della Memoria Terrena
4. Kalachakra
5. La Terra Trema
6. La Foresta Dei Suicidi
7. Omega
8. Ballo Delle Castagne
Line up:
Vinz: Voice
Macro Garegnani:
Guitars, Keyboards, Moog, Sitar, Samples
Diego Banchero:
Bass
Jo Jo: Drums
Special guests:
Carolina Cecchinato: voice on “Passioni Diaboliche”
Maethelyiah: voice
and moanings on “La Foresta dei Suicidi”
Marco Cavaciuti: Violin in “La Terra Trema”