Tutto è nelle mani di Pupi Bracali, scrittore ed esperto di musica, che ha avuto un’idea che avevo già cercato di mettere in pratica, senza grande successo, tempo fa. Ecco alcune delle sue parole:
“… ho un ideuzza che da tempo mi frulla nel cervello. Molti album che ho amato e amo hanno, a volte, segnato anche un momento della mia (nostra) vita non solo intrinsecamente musicale. Quindi pensavo di scrivere alcune recensioni di dischi non sterilmente asettiche, ma legate a momenti della mia vita privata inserendoci anche un piccolo tocco narrativo. Ovviamente molti altri lettori del blog potrebbero identificarcisi come spesso capita anche a me.”
Caro Pupi, se “non ci molli” il fine settimana è tuo e sono sicuro che i tuoi ricordi saranno anche quelli di molti di noi.
Le musiche della nostra vita – Harvest di Neil Young (Warner Bros. Records 1972)
Possiedo un po’ meno di quattromila dischi in vinile.
Quasi tutto rock, un bel po’ di jazz, un paio di centinaia di musica classica, qualcosa di italiano più varie ed eventuali.
Tra quelle poche migliaia di album, alcuni hanno un posto particolare nel mio cuore. Si sa che la musica oltre alla sua bellezza intrinseca possiede un potere evocativo non indifferente.
Uno di questi dischi è Harvest di Neil Young, autore di cui possiedo una trentina di album (ma questo è un mio sciocco vanto personale e comunque vince Frank Zappa con una quarantina).
Harvest mi fu regalato nel 1972 dalla mia ragazza di allora che era a conoscenza del mio amore per lei e per il cantautore canadese.
Quell’anno possedevo un vecchio giradischi da pochissimi soldi decrepito e usurato. Poiché quel dono a cui tenevo tanto non meritava un ascolto fallace e approssimativo promisi a me stesso e alla mia ragazza che avrei ascoltato il disco solo dopo aver acquistato un impianto stereo decoroso.
E così fu: alcuni lunghi mesi di sudati risparmi mi separarono dall’ascolto del mitico album, ma infine ottenni il risultato: un metallizzato e luccicante stereo con casse Indiana Line a tre vie, giradischi con testina Shure e amplificatore Pioneer, apparve nella mia cameretta e la sera stessa della sua apparizione invitai la mia ragazza (... ebbene sì dopo tutti quei mesi stavamo ancora insieme!) all’ascolto comune di Harvest di Neil Young.
Come uno sciamano che preparava un rito tolsi i sigilli al disco; la plastica trasparente che lo avvolgeva finì gemente e accartocciata in un angolo; la copertina apribile rivelava all’interno una foto di Young con la sua tipica camicia a quadri e con le mani sui fianchi catturato da un obiettivo sfocato e deformante. Poi c’erano i titoli delle canzoni, i musicisti e tutti i crediti relativi al disco.
Dentro, oltre la busta che conteneva l’album, una doppia facciata riportava tutti i testi dei brani scritti in corsivo e vergati con inchiostro nero sul noisette della carta, dalla stessa mano di Neil Young.
E poi c’era la musica. Quella musica.
Spensi la luce, io e la mia ragazza ci rannicchiammo in silenzio sulla mia brandina e la musica partì lenta e potente nel buio della stanza.
Nell’oscurità, i led dell’amplificatore, due aghi che vibravano all’unisono col ritmo della musica, ondeggiarono, agitandosi ritmicamente nei due piccoli rettangoli luminosi colore giallo/verde, unica fonte luminosa in quella stanza. Il basso e la cassa stoppata della batteria di Out on the weekend, il brano di apertura, furono l’inizio di una quarantina di minuti memorabili.
Godetti a quell’ascolto e col tempo imparai a memoria le parole e i vari momenti del disco: la slide di Ben Keith che miagola come un gatto in amore quasi per tutto l’album, l’(im)percettibile fruscio che, al secondo minuto di Out on the weekend, testimonia la caduta di un leggìo (o di un microfono) nello studio di registrazione e che Young non volle eliminare col timore di rovinare il brano, l’arpeggio acustico live e solitario di The needle and the damage done sul quale migliaia di ragazzini (tra i quali il sottoscritto) impararono i primi rudimenti chitarristici, canzone contro e sulla droga (but every junkie is like setting sun) che sembra presagire le tristezze e le morti che rivestirono in seguito, come un tetro sudario, un album bello e oscuro come Tonight’s the night. Imparai a conoscere i momenti di un country melanconico come quello di Old man e quello più scanzonato di Are you ready for the country, momenti che ti fanno riconciliare con un tipo di musica che non è solo quella becera e commerciale di John Denver o di Tony Joe White.
Apprezzai i sinfonismi orchestrali di There’s a world e di A man need a maid, e il CSN&Y style dell’antirazzista Alabama che vede per l’appunto ai cori Crosby e Stills, e conobbi per la prima volta il timido chitarrismo solista di Neil Young in Word che pur ancora in nuce fa presagire i furori futuri di una chitarra tra le più selvagge, riconoscibili e imitate da quel momento fino a oggi.
Ascoltai il ritmo altalenante di Harvest e quello altrettanto ondeggiante di Heart of gold che vede ai cori le presenze di James Taylor e Linda Ronstadt, conobbi il pianoforte e gli arrangiamenti di Jack Nitzsche che otterrà fama e successo qualche anno dopo con la colonna sonora del film Qualcuno volò sul nido del cuculo... Ascoltai, ascoltai, ascoltai...
Da quella sera, da quella prima strabiliante e particolare esperienza sonora, ascoltai Harvest ancora mille volte fino a quasi consumarlo, poi il tempo passò.
Altri tempi, altre musiche e negli anni ottanta apparvero i cd. Non come tutti, ma certamente come molti mi adeguai; accantonai i long playing e cominciai ad acquistare e ad ascoltare quella nuova fonte di musica. Il mio giradischi Thorens incastonato nella mia libreria (discheria) divenne quasi una mensola su cui poggiare riviste, piccoli oggetti e gli occhiali che il tempo e l’età avevano fatto apparire sul mio naso nello stesso periodo dei cd.
Cd che aumentavano sopra i miei scaffali fino a diventare gli oltre duemila che possiedo oggi.
Poi accadde un paio di anni fa in un afoso pomeriggio estivo mentre mi crogiolavo al sole della spiaggia; fui raggiunto da un mio giovane amico munito di lettore portatile cd. Mi chiese se volevo ascoltare qualche cosa e nel novero di quella decina di cd che teneva in un contenitore venne fuori una copia di Harvest, album che non ascoltavo da più di vent’anni.
Mi distesi al sole, misi le cuffiette, mi rilassai e andai in estasi quasi come la prima volta.
Il disco reggeva benissimo l’urto del tempo e mi piacque nuovamente al punto che mi ripromisi di riascoltarlo appena ritornato a casa.
Lo feci e la sorpresa fu grandissima: dopo aver sbarazzato il giradischi dalla pila di libri ed altri oggetti che lo ricoprivano da tempo, misi sul piatto il vecchio pezzo di plastica del 1972 e scoprii che quell’antico vinile frusto e frusciante era immensamente “più bello” del suo equivalente su cd. Quel suono freddo e asettico che pur mi era piaciuto in quella spiaggia, era soverchiato dal calore e dalla profondità del suono che proveniva da quegli antichi solchi sfregiati da una vecchia puntina. Una volta di più, compresi e toccai con mano e con le orecchie, (se mai ce ne fosse stato bisogno) la superiorità sonora del vinile ed il suo valore...
Dal 1972 anno in cui ricevetti in dono Harvest sono cambiate tante cose: il mio impianto stereo è stato rinnovato alcune volte e alcune volte ho cambiato casa. La mia passione per quell’album però non è mai cambiata e... cosa ancora più importante, non è cambiata nemmeno la ragazza di allora che mi regalò quel disco. Ora è mia moglie, abbiamo un fantastico figlio di vent’anni e dopo avere attraversato e vissuto con gioia tanti esaltanti momenti musicali che vanno dalle dolcezze del progressive alle tempeste punk, dal folk inglese ai furori grunge, dall’hip hop, al post rock, capita ancora che ogni tanto ci rannicchiamo sul divano, spegniamo la luce come la prima volta e ci riascoltiamo Harvest di Neil Young.
Maurizio Pupi Bracali