Raccolgo stralci di un articolo di Roberto Brunelli, del 2002,
dove viene ricordata la figura di John Entwistle.
Rimasero tutti di stucco, in quel 1965, quando dalle radio inglese
esplose per la prima volta My Generation, l'esordio fulminante targato The
Who: due accordi perentori implacabili, una batteria selvaggia, la voce che
balbetta (sì, balbetta) “voglio morire prima di diventare vecchio”, e un
riff di basso imponente, di quelli che segnano la linea di confine tra un
“prima” ed un “dopo” nella storia della musica. Un marchio di fuoco che ha
segnato la storia del rock in eterno, attraverso i roaring sixties, fino a
toccare la rivoluzione punk nel '77, e che ancora oggi continua a riecheggiare
tra i solchi degli emuli rockettari più giovani, che siano post grunge,
crossover, post-punk o neo-psichedelici che si voglia. Quell'incredibile, mai
sentita e irripetibile linea di basso elettrico era firmata da un
tranquillissimo ragazzo che si chiamava John Entwistle.
Non è diventato vecchio, John Entwistle. Era nato lo stesso giorno
di John Lennon, l'8 ottobre, ed è morto a 57 anni a Las Vegas, in una
stanza d'albergo, l'Hard Rock Café. Problemi di cuore, quasi certamente (lo
stabilirà un'autopsia).
Trentasette anni anni dopo quell'esordio fulmicotonico di quattro
imberbi ragazzetti sovente e provocatoriamente avvolti nell'Union Jack, la
bandiera britannica, doveva partire da Los Angeles l'ennesima tournée degli Who. Gli Who sono uno dei quattro o cinque gruppi-pilastri della storia
del rock, insieme ai Beatles, ai Rolling Stones, ai Led Zeppelin. A 24 anni
dalla morte del batterista Keith Moon (overdose di farmaci), si è archiviato
nei meandri della memoria un altro capitolo della sezione “Olimpo del rock”,
insieme a Elvis, Hendrix, Morrison, Joplin, Lennon, Moon, Harrison e compagnia
divina. Lo chiamavano “The Ox”, il virtuoso Entwistle, il bue, oppure “The
quit one”: al centro della rock revolution degli anni sessanta, al centro del
caos, quando tutto era nuovo, sconcertante, inusitato, febbrilmente eccitante,
c'erano gli Who. E loro stessi erano una tempesta al cui centro stava, immobile
come una sfinge, John Entwistle. C'era Pete Townshend (il
chitarrista, il gran maestro delle cerimonie, la mente, che mulinava il braccio
sopra la sua Gibson), c'era Roger Daltrey (la voce, colui che roteava
il microfono come un lazo verso il cielo), c'era Keith Moon (quello
fulmicotonico e portentosissimo, quello che alla fine del concerto spaccava la
batteria in mille pezzettini). E c'era “The Ox”: una roccia, un monolite
nell'occhio del ciclone, impassibile, marmoreo. Solo le sue dita correvano,
velocissime, sulla tastiera del basso. Il rock, si sa, ama l'iperbole. Molte riviste specializzate si
sono sbizzarrite, nei decenni, a nominarlo, di volta in volta, “bassista del
secolo” o, financo, “del millennio”. Certo era un grandissimo: la sezione
ritmica Entwistle – Moon era davvero una delle più formidabili della storia
della musica, una chimica esplosiva, che – accoppiate al chitarrismo furente di
Townshend – hanno fatto gli Who un “live act” inimitabile, insuperabile,
sconvolgente e sciamanico. Ovvio che i britannicismi Who sono stati molto più di questo. La
mente febbrile di Townshend non poteva rimanere ferma al rock pelvico, impulsivo,
voluminoso, adolescente e bastardo degli inizi: prima mettendosi i panni
(probabilmente senza eccessiva convinzione) di eroi dei “mod” (giovani
scicchettosi della working class che si opponevano, nei primi anni sessanta, ai
rockers), poi cercando di allargare i confini del rock “oltre l'immaginazione”.
Nacque così Tommy (1969), la prima opera rock, nacque così quella grande (a
tratti eccessiva) partitura fantastica che era Quadrophenia (1973). Nonostante
il loro impatto violento degli esordi (mai completamente abbandonato), gli Who
hanno sempre incarnato l'ala intellettuale del rock, senza perderne di un
grammo l'energia vitalistica: l'ambizione musicale di Townshend e soci era
sfrenata, e quel monumento musicale e concettuale che è Tommy sta lì da 33 anni
a dimostrarlo. John “the quiet one” era uno strumento formidabile nelle mani
sapienti di Townshend. Di canzoni sue non se ne contano molte nel catalogo Who:
epperò sono tutti pezzi proverbiali, da Boris the spider a My Wife, a Whiskey
man. Pezzi venati di un sarcasmo oscuro, spiritosi, splendidamente arrangiati,
così com'erano sempre curiosi e atipici i suoi album solisti (Smash your head
against the wall, 1971, Wistle Rymes, 1972, Rock, 1996, John Entwistle, 1997).
Perché John era uno atipico nel mondo del rock: nato nel '44 a Cheswick,
sobborgo di Londra, aveva studiato pianoforte, tromba e corno francese,
esperienza che gli tornò utile quando si ritrovò ad arrangiare tutte la
partiture di fiati per gli Who. Aveva cominciato in un gruppo jazz, The Confederates,
dove invitò a suonare il suo compagno di scuola Pete Townshend. Poi, sempre
insieme a Pete, formò i Detours, nei quali venne assunto un giovane e rissoso
cantante, Roger Daltrey. Dopo poco, su consiglio del produttore Kit Lambert, si
decise di cambiare nome al gruppo in The Who. Come i Beatles e gli Stones, gli
Who erano soprattutto un incontro tra personalità straordinarie: ovviamente
meno appariscente degli altri tre, Entwistle rappresentava la spina dorsale del
gruppo. Ma tutto questo, ormai, è solo ricordo.
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