Antonio
Pellegrini, saggista e musicista genovese, mi
ha chiesto per la seconda volta un contributo scritto per il suo nuovo libro.
Era
accaduto con The Who e Roger Daltrey in Italia” e ora con “Italian Rhapsody”, dedicato ai Queen.
Propongo
in questo spazio la mia riflessione…
Chiedi chi erano i Queen…
Introdurre un libro dedicato ad un
artista - o a un gruppo di artisti - significa per me snocciolare elementi
personali, lontani dalla didattica e dalla storia che ormai circonda i miti
della musica.
Scrivere dei Queen, quindi, mi
sollecita memorie che, dal lontano passato, approdano ai giorni nostri e,
lontana l’idea che i miei accadimenti possano essere interessanti per il
lettore, resta la speranza che le mie considerazioni e i ricordi ne alimentino
altri, innescando il rapporto osmotico che spesso si realizza quando va in
scena la grande musica, in tutte le sue rappresentazioni.
Ragionando in questi termini
allargo il concetto a tutta la musica che viviamo in gioventù, che magari releghiamo
in un angolo anche se di qualità, perché giudicata troppo ortodossa, in un
periodo della vita in cui bisogna per forza andare controcorrente. Ma alla
fine, con la maturità i conti tornano, sempre. Vediamo a cosa mi riferisco.
Vorrei dividere il tutto in tre
sezioni.
Parto dal 1976, ero un
giovanissimo, ma già intriso di musica, il rock, soprattutto quello
progressivo.
I juke box di allora erano scatole
magiche che con 100 lire fornivano la possibilità di ascoltare tre brani, ed
esisteva la convivenza di generi molto diversi tra loro: era facile ascoltare
una tripletta del tipo Diana (Paul
Anka), Get Down Tonight (KC) e Peel
The Paint (Gentle Giant).
Nel
contenitore delle meraviglie di quell’anno era presente anche Somebody To Love, dei Queen, una band
che secondo noi era troppo commerciale, e non è un caso che parlo al plurale,
l’appartenenza ideologica al gruppo era fondamentale. Ricordo un certo rifiuto
a prescindere, un trionfo dell’irrazionalità che a quell’età si può, forse,
perdonare: “… sì… bravi, ma molto easy!”.
Più che ignoranza musicale direi… indecenza comportamentale che a posteriori
rigetto in toto.
Eppure,
nonostante l’inutile rigidità - comunque difficile da scalfire -, quel brano ti
entrava dentro, la voce di Freddie Mercury non era umana, e poi quell’assolo di
Brian May era quanto di meglio il rock potesse proporre, così come era facile
avvertire che il mix di voci era qualcosa che le altre band non avevano, una
peculiarità difficile da copiare senza talento e gusto estremo.
Sono
passati anni, e le cose della vita mi hanno allontanato dalla musica -
momentaneamente -, ma non mi sono perso
i macro eventi, quindi anche ciò che riguarda i Queen.
E
arriva il 1991. Sono su di un aereo che da Madrid mi riporta a casa, apro noiosamente
il giornale e trovo la notizia della morte di Freddie: non mi ero accorto di
nulla, del suo decadimento fisico, delle voci che circolavano, della
progressione della tragedia.
Come
spesso capita nel quotidiano, quando la scintilla scocca il fuoco si accende e
porta chiarezza che, in questo caso, ha significato per me il riappropriarmi
del passato perso, il ricercare la musica e tutto quanto disponibile al momento
sul “mondo Queen”. Il cofanetto
natalizio con miriadi di video della band diventa il mio pane quotidiano, e a
poco a poco risalgo alle origini, ricostruendo la storia di una delle più
grandi rock band della storia che, purtroppo non sono riuscito a vedere dal
vivo, e non c’è tecnologia al mondo che possa avvicinarsi all’emozione che ti
dà l’evento vissuto davanti al palco.
Arriviamo
ai giorni nostri… la maturità mi permette ormai di guardare le cose con
obiettività, di ascoltare ciò che mi emoziona senza alcun condizionamento, di
affermare che la musica dei Queen ha assunto lo status dell’immortalità, una
condizione che prescinde dalla presenza dell’elemento carismatico, del genio,
del frontman, di quell’uomo dalla vita piena di
vicende complicate che se ne è andato troppo presto, ma ha lasciato
un’eredità inesauribile.
I
Queen non sono Freddie e basta. May è stratosferico, soprattutto per la sua
riconoscibilità, per un tocco che solo lui sa proporre (accade solo ai grandi
come Hendrix, Santana, Clapton…); John Deacon è più di un semplice bassista, e
il suo apporto compositivo appare fondamentale; Roger Taylor è uno dei migliori
batteristi di tutti i tempi.
Ma
le band che possono fornire l’animale da palco sanno che è su di lui che tutti
gli occhi sono puntati.
Il
film recentemente uscito, “Bhoemian
Rhapsody”, contribuisce a fornire lustro estremo al mito, ma preferisco
ritornare al concetto di musica che rimane oltre le persone che l’hanno creata,
quella che si lega alla storia, ma trova al contempo collocazione nel presente
e proiezione nel futuro. E qui l’immagine mi riporta al punto di partenza, a
quella “Somebody To Love” che mi
mette i brividi, quella del febbraio del 1992. Già, Freddie non c’era più, al
suo posto George Michael - si diceva che fosse l’unico che avrebbe potuto
sostituirlo -, tra i protagonisti del tributo, al Wembley Stadium di Londra.
Scenario
incredibile, pubblico pazzesco, parterre da sogno. Mercury è presente, si
avverte, esce dal video e ti tocca, ma ha poca importanza: ciò che conta è la
musica che i Queen hanno “inventato”, la commistione tra rock e classica
sintetizzata nel brano che tutti, oggi, stanno rispolverando sul’onda dell’emozione
cinematografica, quel “Bhoemian Rhapsody”
che, se analizzato nella svolgimento della sua trama, porta a chiedersi come è
stato possibile inventare di sana pianta una struttura simile, un’unione di
parti così differenti che si sintetizzano nella “canzone perfetta”, innovativa,
all’avanguardia e coraggiosa.
Il
sottolineare la grandezza di questa musica, indipendentemente dalla presenza
dei protagonisti originari, deriva da ferme convinzioni, supportate però da
fatti oggettivi e non solo da opinioni personali, il tutto accompagnato dal
grande rammarico che ciò che ci circonda, ciò che nasce giorno dopo giorno
attorno a noi, favorito nella produzione in serie dal progresso tecnologico,
non potrà mai e in nessun caso, avvicinarsi all’immensità dei Queen e di molte
band coeve: è inutile, c’era un’altra aria in quegli anni!