mercoledì 15 marzo 2017

"La Fine": il brano della Locanda delle Fate


Pochi giorni fa ho commentato il libro Prati di lucciole per sempredi Luciano Boero, cofondatore della Locanda delle Fate, bassista, autore e molto altro:



Nel corso della mia esposizione mi sono soffermato su di un brano in particolare, La Fine, che ho assunto come significativo dell’intera storia, il racconto di una parte cospicua di vita, con la parabola che disegna il nostro passaggio sulla terra.
La canzone fa parte del secondo album del gruppo,  Homo Omini Lupus”,  rilasciato al limite del nuovo secolo, un disco meno “storico” rispetto a “Forse le lucciole non si amano più”, ma nato in un periodo lontano dai fasti del prog dei seventies. A me piace moltissimo.
Ciò che mi ha maggiormente colpito della canzone è la forza del messaggio che, grazie alle variazioni di atmosfera che fanno lievitare lo stato di tristezza e riflessione conseguente, assume un peso enorme, riportandoci alla caducità della nostra esistenza, che andrebbe vissuta con atteggiamento diverso.
Chi meglio dell’autore potrebbe spiegare come tutto è nato?
Ho estrapolato la  sezione in cui Luciano Boero racconta nascita e sviluppo de La Fine. L’“Ezio” più volte citato è Ezio Vevey, talentuoso chitarrista della band per buona parte della vita del gruppo.


La Fine è un brano di Ezio, mio il testo. Quando Ezio me lo fece sentire, canticchiandolo in finto inglese come al solito, fui subito colpito dalla maestosità di quella strofa, che scorreva fluida e greve come se stesse declamando un epitaffio. Influssi crimsoniani? Può essere…
Io non mi trovavo nei momenti migliori della mia vita. Purtroppo mi avevano diagnosticato qualcosa di poco piacevole; ogni tanto ci pensavo e mi buttavo un po’ giù. Scrissi:

Guarda ad occhi chiusi quando hai voglia di vedere
Ma non scordarti di dimenticare
Che fuori dalle luci di questa galleria
La notte ad occhi chiusi non è buia…

In questa frase c’è un gioco di parole che ne cripta il significato, ma al lettore attento non sarà sfuggita l’amara constatazione che dopo di noi ci sarà il nulla.
L’allegoria della galleria mi venne una notte mentre, in macchina con degli amici, rientravamo ad Alba dopo una cena consumata in un ristorantino tipico del porto di Savona. Ero seduto dietro, tutti dormicchiavano (meno l’autista evidentemente); io pensavo ai miei guai e, ogni qualvolta l’auto si infilava in un tunnel della Torino-Savona, pensavo al parallelismo tra le difficoltà della vita e le gallerie, immaginando che prima o poi tutti incontriamo quella “cattiva”, senza più uscita all’altra estremità.
Per la cronaca, fui poi sottoposto a intervento chirurgico. La cosa si risolse per il meglio, ma la constatazione della labilità dell’esistenza umana contribuì non poco a farmi maturare e migliorare caratterialmente, facendomi apprezzare anche le piccole cose che prima davo per scontate.
Strutturalmente parlando, La Fine ha una serie di ritornelli molto arditi, sia dal punto di vista ritmico sia da quello armonico: ardite variazioni di tempo (con molte battute in 7/4) e continue modulazioni, rendendo pressoché imprevedibile la linea melodica. Solo la mente di Ezio poteva partorire un tale “trip” musicale.
Per quanto riguarda il testo, su tali ritornelli mi limitai a giocherellare con le parole. E’ come se avessi scritto le parole “tempo”, “fuori tempo”, “maltempo”, “vento”, “controvento” su dei bigliettini e poi li avessi disposti a caso sul tavolo, cercando di inanellare sequenze più o meno logiche... tutto cominciò la sera in cui Ezio arrivò con un foglietto..."