Articolo tratto da MAT2020 di dicembre
Incontro con Flavio Oreglio, un musicista prestato al cabaret…
L’uscita del numero zero di MAT2020 ci ha condotto verso nuove
conoscenze, direi significative. Inutile nascondere la soddisfazione che si
ricava dall’essere legittimati da un personaggio pubblico e con larga
visibilità, perché viene da pensare che forse si sta davvero lavorando nella
giusta direzione: “… se lui si accorge di noi, allora… esistiamo
davvero!”.
Flavio Oreglio non ha bisogno di presentazioni, anche se
molti cadono nel mio stesso errore, quello di considerarlo un cabarettista.
Certo… anche quello, ma fondamentalmente un musicista, e penso che nei numeri
futuri potremo spingerci verso un’analisi approfondita del suo lavoro,
scoprendo aspetti sorprendenti.
Nell’intervista a seguire Flavio
spazia, tra passato, presente e futuro, con qualche rimpianto, qualche ricordo,
ed una certa voglia di ritrovare nella gente comune la voglia di fare, di
progettare e realizzare, magari con l’aiuto enorme della tecnologia, ma con uno
sguardo sempre teso ai veri valori, da vivere con ironia e … musica.
L’intervista
Era forse il 2006, e di te conoscevo solo una veste, quella
televisiva, e quindi un ruolo ben preciso. Entrando nel sito de ITULLIANS, il
fan club dedicato ai Jethro Tull, band
delle mia vita, trovai con stupore la tua presenza nella sezione VIP. Come nasce il tuo amore per Ian Anderson
e seguito?
Correva l'anno 1972, stavo per compiere 14 anni, era
estate ed eravamo tutti presi dalla “febbre degli scacchi” dovuta alla mitica
sfida tra Fisher e Spasskij... io, lo ricordo benissimo, mi stavo allontanando
dall'ascolto della musica leggera perché avevo scoperto nuovi orizzonti grazie
all'incontro casuale con i Creedence Clearwater Revival. All'epoca, andavo in
vacanza al Passo del Brallo, un paesino dell'Oltrepò Pavese e frequentavo dei
ragazzi più grandi di me di qualche anno. C'era tra loro Giampiero, considerato
dalla compagnia un “esperto” di musica dalle cui labbra tutti pendevano quando
si parlava di gruppi e cantanti. Quel giorno i “grandi” erano fuori dal solito
bar-riferimento, sorseggiavano una bibita quando Giampiero arrivò con il suo
“mangianastri”... iniziarono ad ascoltare un LP e io – che passavo di li per
caso - restai come incantato dalle note
magiche e fiabesche di un flauto. Li per li non feci domande, ma quel momento
decisi che volevo saperne di più dei gruppi che sentivo sempre nominare da
Giampiero. Lui parlava di Led Zeppelin, di Pink Floyd, di Emerson Lake &
Palmer, di Genesis, di PFM...Tornato a casa nel settembre di quell'anno iniziai
le mie ricerche imbattendomi nel variegato mondo del rock progressivo. Fu amore
a prima vista.. il primo disco dei Jethro che mi capitò per le mani fu “Living
in the past”, e quando mi ascoltai “Thick as a brick” riconobbi la musica che
mi aveva stregato.
Quale strada ti ha condotto al cabaret? Come avviene il tuo passaggio
da musicista a… uomo capace di far sorridere e riflettere?
Intanto vorrei
chiarire che non c'è stato alcun “passaggio”, io nasco musicista e resto
musicista, semmai un ampliamento della gamma espressiva, perché oltre alla
musica e alle canzoni ho iniziato a utilizzare anche la parola pura sia in
forma recitata (monologo) che scritta (libri). Quanto al “sorridere”... beh! Fa
parte del gioco, ma non è un obbligo. Il mio desiderio di narrazione può anche
passare attraverso la risata, ma anche no. Come dice il mio amico Mario
Capanna: “La comicità, l'umorismo, la
satira sono vestiti che puoi mettere al tuo pensiero... l'importante è che ci
sia il pensiero...”.
Sicuramente il
grande insegnamento degli anni 70 per me sta proprio in questo: nell'avermi
insegnato a pensare, ma soprattutto nell'avermi insegnato a non aver paura di pensare... La musica prog, il
movimento cantautorale, e quindi il cabaret (dove per cabaret non intendo certo
il surrogato che viene presentato come tale dal mezzo televisivo) hanno proprio
questo in comune: sono momenti in cui si manifesta un pensiero che non è sempre
e comunque necessariamente “politico” o
“impegnato”, e che può essere anche ironico e tagliente oltre che lirico e poetico. Togliamoci dalla testa
l'errata convinzione che “o ci si diverte o si riflette e si pensa”, perché si
possono combinare le due vicende ottenendo un divertimento intelligente oppure
se preferite una riflessione leggera. Il fatto di sorridere e il parlare
semplice e lineare non tolgono profondità al pensiero, così come l'essere
serioso non fa crescere la superficialità. Quindi ho deciso che la mia strada
non era solo la musica e sono approdato al teatro-canzone che per me
rappresenta il genere di spettacolo con la gamma espressiva più variegata.
Dipende quindi cosa voglio raccontare: a volte mi basta una canzone, in altri
momenti ho bisogno di un monologo (altre volte ancora non bastano nemmeno tutti
e due).
So che hai apprezzato l’inizio dell’avventura di MAT 2020. Non ti
chiedo obbligati complimenti pubblici, ma vorrei un giudizio critico, tenendo
conto che il nostro tentativo palese è quello di reinventarci una formula
antica, in periodi dominati dalla tecnologia e dall’impossibilità di trovare il
tempo per qualsiasi cosa, anche la lettura.
A me piacciono le iniziative intelligenti e
“contromano”. Per quello che riguarda un giudizio per ora non ho elementi per
poterlo formulare. Lodo sicuramente però l'idea e l'iniziativa alla quale auguro
un grossissimo successo. Se hanno successo le iniziative intelligenti vuol dire
che un popolo sta crescendo... le spie culturali ci sono e di solito
costituiscono degli indicatori più precisi di qualsiasi analisi sociologica.
Per quello che riguarda la tecnologia non bisogna avere paura, può diventare un
supporto importantissimo per la diffusione delle idee. Non bisogna subirla,
bisogna dominarla e utilizzarla... guarda Grillo cosa sta combinando… dal mio
punto di vista è meraviglioso!
Mi dai un tuo giudizio sull’attuale stato della musica, mettendo sul
piatto il talento disponibile, le occasioni concesse, il businnes e le
possibilità date dalla rete.
Analisi complessa e difficile. Purtroppo il sapore è
quello del “trionfo del finto”. Certo esistono nicchie interessanti, ma non
sono in grado di tracciare un quadro completo o minimamente esaustivo. Dico
solo che mille rivoli non sempre fanno un fiume... io amo sia i cantanti da
balera che fanno seriamente il loro mestiere che gli artisti che coltivano con
passione e impegno la loro arte. Quello che mi dà fastidio è quando fanno
passare cantanti da balera per rock star o promuovono semplici mestieranti come
se fossero guru della musica e della canzone. La distorsione della realtà è una
caratteristica del nostro tempo, uno degli inganni possibili della grande
avanzata tecnologica, che riesce a generare un mondo parallelo perfettamente in stile Matrix. Smantellare
questo stato di cose sarà la grande battaglia culturale dei prossimi anni. Non
sarà facile, ma dobbiamo continuare a credere che sia possibile e a provarci.
C’è qualcosa che rimpiangi di quegli anni ’70 che abbiamo vissuto da
adolescenti?
Mi sembra di averlo già detto: mi manca il coraggio del
pensiero e la voglia anche un po' utopistica di cambiare il mondo. Mi manca
quella famosa “controcultura” organizzata
che ci permetteva non solo di sognare, ma anche di pensare che il sogno
si sarebbe potuto realizzare. Oggi affoghiamo nel pensiero unico... figlio del
neurone unico... sintomo di cervello poco sviluppato o di becero servilismo
culturale.
C’è anche qualcosa che non ti
manca per niente?
Mi piacerebbe poter dire quello che dicono molti pseudo
intellettualoidi che imperversano oggi e cioè che “non mi manca il clima violento di quegli anni”… ma purtroppo non è
così, perché il clima di questi anni è molto ma molto più violento di quello di
allora. Si, forse all'epoca avevi paura a uscire di casa. Ma direi che oggi
devi avere paura anche se ci resti, in casa... il discorso anche qui si fa
complesso e non si può risolvere in poche righe. Ma la direzione del mio
pensiero l'ho data...
E’ uscito da poco il nuovo libro “LA VERA
STORIA DEL CABARET, dall'uomo delle taverne alla bit generation”, scritto con
Giangilberto Monti. Puoi raccontarci l’essenza?
“La vera
storia del cabaret” è un libro che tenta di dare una definizione esatta del
cabaret, e lo fa attraverso un ragionamento storico-tecnico che evidenzia i
confini e la logica di una tipologia di arte da sempre confusa o addirittura
identificata con altre che in realtà con il cabaret non hanno nulla a che
vedere. Il libro non ha la pretesa di
essere la verità assoluta. Non c'è riuscita la Bibbia a ottenere questo scopo
figurati se ci riusciamo noi. Ma non può essere nemmeno considerato
l'espressione di un'opinione. Il tentativo messo in atto è quello di una
ricostruzione oggettiva della storia del cabaret, esso dà corpo al progetto di
riscoperta di cui si sta occupando l'Associazione Centro Studi Musicomedians da
oltre un decennio (vedi www.musicomedians.it). .
La prima parte
descrive le origini storiche del genere (dalla Preistoria alla Francia di fine
ottocento, alla diffusione europea), mentre la seconda parte racconta il “caso
Italia”, perché anche qui – come del resto un po' dappertutto, noi “ci facciamo sempre riconoscere...”
Come invoglieresti i lettori di MAT 2020 a seguirci
costantemente?
Credo che coloro che vi leggono non aspettassero altro
che questa occasione per poter avere un punto di riferimento costante e
coerente. Se riuscirete ad alimentare proposta e dibattito non vi
abbandoneranno mai... Quello che spero, invece, e che vi auguro (e che mi
auguro) è che il numero dei vostri lettori aumenti col passare del tempo
raggiungendo vette inenarrabili... Sarebbe il segnale che qualcosa sta
cambiando nel popolo italiano, che qualcosa di bello sta accadendo.