L’album di cui parlo oggi è In the Land of Dreams, dei Silver Key.
Esce con molto ritardo rispetto alla
nascita della band che risale agli inizi degli anni ’90, ma nell’intervista a
seguire emergono le motivazioni, così come viene sviscerata ampiamente la
filosofia musicale del gruppo.
Stabiliamo il link tra i … vari
titoli.
“Silver Key” è anche il
nome di un racconto dello scrittore americano
Howard Phillips Lovecraft, famoso per i suoi “ “Miti di Cthulhu”, ciclo letterario tra fantasia e
magia, dove una “Chiave d’Argento” garantisce
l’accesso alla “Terra dei Sogni”, luogo
in cui si realizza ogni possibile desiderio.
Ma il messaggio centrale, vero
legame concettuale, è quello che spinge alla riflessione: tutto quello che
cerchiamo è a portata di mano, possediamo la chiave per raggiungerlo, e sappiamo
anche come e dove usarla; ma ci vuole coraggio, fede, intraprendenza, buon
senso e intelligenza nel capire che tutto ciò di cui abbiamo bisogno risiede
nel quotidiano. I sogni non sono proibiti, nessuno ce li può rubare, ma una
volta dissolti occorre trovare equilibrio e serenità, agendo ad occhi bene aperti:
“Prendi il mondo com’è, nella
terra dei sogni. Guarda il mondo com’è, nella terra dei sogni”.
I Silver Key nascono come band filo
Marillion & Fish, e di quel gruppo conservano il lato prog più classico, con
un tappeto tastieristico che si intreccia a trame vocali caratterizzanti, e
melodie più “italiane” sostenute da una sezione ritmica di prim’ordine.
Conoscere la storia, in questa caso “storia musicale”, aiuta nel creare nuove
situazioni sull’onda del continuous improvement, e i S.K. miscelano i loro propositi tematici ad una modernità di idee
che è poi quello che si chiede ad ogni nuova proposta… mantenimento delle
radici e inserimento di pensieri personali.
Liriche in lingua inglese - la cui
traduzione è fruibile nel sito di riferimento - per un percorso che si snoda
attraverso quattro brani iniziali che sfociano in una lunga suite, tipica del
prog seventies, che in questo caso cattura l’attenzione già al primo ascolto.
Di grande effetto l’immagine di
copertina - l’unica parte di art work che ho visto - e se tanto mi da tanto, il lavoro dedicato di Claudio Bergamin è materia da… vinile!
Ma il mio personale giudizio sull’album
sfugge dalla sfera della razionalità, della tecnica e dei concetti universali
applicati ad ogni nuova realizzazione, per entrare in quella dell’istinto e del
sentimento “a pelle”: The Land of Dream
emoziona, colpisce e induce ad un po’ di nostalgia, riportando ad un epoca che
vedeva ben saldo il “rito del vinile”, quando uno disco pretendeva il contatto
fisico, la soddisfazione visuale e la comprensione dei testi.
Musica, parole e immagini, il
triangolo ideale di cui i Silver Key conoscono
la perfezione geometrica, e noi ascoltatori non possiamo che godere di questo
know how, in attesa di nuovi capitoli musicali.
L’INTERVISTA
L’inizio della vostra
attività risale a molti anni fa, ma l’uscita del vostro primo album è fatto
recente. Come mai siete arrivati al primo appuntamento con la registrazione con
… un po’ di ritardo?
È vero
che la prima formazione di una band chiamata “Silver Key” risale a molti anni
fa, ma si trattava di progetti diversi, con formazioni e finalità differenti.
La formazione più recente risale al 2006 e, inizialmente, l'idea era di formare
una tribute-band dei Marillion dell'era Fish. Fin dalle prime prove abbiamo
avuto idee e spunti per brani originali e il desiderio di svilupparli. Ciò si è
reso effettivamente possibile solo con la line-up che è arrivata a registrare
il disco, qualche anno dopo, e questo sia per disponibilità artistica che per
capacità tecniche. Il fatto di non essere più giovanissimi e di dover
realizzare questo sogno non a tempo pieno ha ulteriormente rallentato i lavori.
L'accoglienza positiva che i brani hanno avuto fin dalle loro prime
presentazioni live ci ha incoraggiato ad abbandonare gradualmente le cover e a
lavorare con sempre maggiore decisione alle nostre canzoni. L'ulteriore
incoraggiamento della Ma.Ra.Cash Records, che ha fortemente creduto nel
progetto fin dall'inizio, e degli amici che hanno deciso di finanziare il
progetto (Fabrizia Casagrande e Andrea Minini Saldini, che sono produttori
dell'album) ci ha infine convinti a provare a fare “il grande salto”...
Come vi siete formati
musicalmente parlando? Chi vi ha regalato l’impronta prog?
Ogni
componente della band ha una formazione musicale diversa e possiamo dire che il
prog sia un punto d'incontro che, seppure con differenze di gusti individuali,
mette d'accordo tutti. Io amo molto il folk anglosassone, oltre a sonorità
elettroniche e world-music, Viviano prende spunto dal metal e dall'hard-rock,
Davide ama la musica classica e il jazz, Alberto i Weather Report ed il
Prog-Fusion, e via di questo passo. Il prog è una risposta naturale, in quanto
è un genere musicale ampio che consente di mischiare tutte queste suggestioni
in qualcosa di coerente e dinamico. Permette libertà creativa, trasformismo e
contaminazione, sperimentazione e ricerca su molti fronti. Per quanto mi
riguarda, comunque, i Marillion del primo periodo sono stati il primo approccio
al variegato mondo del progressive-rock e, come si suol dire, il primo amore
non si scorda mai...
Mi raccontate quale sia
la vostra “Land of Dreams”? Dobbiamo obbligatoriamente rifugiarci nella musica
per trovare una dimensione vivibile?
Tutt'altro:
la storia del disco – ne parlerò più diffusamente rispondendo alla domanda otto
– dice che l'unico Mondo dei Sogni è quello in cui viviamo tutti i giorni! In
termini più prosaici, è chiaro che la Terra dei Sogni di ognuno di noi è fare
ciò che ci piace in modo profondo, che dà un senso alla nostra esistenza. Per
alcuni può essere la musica, per altri può essere un'attività completamente
diversa. Credo che scoprire quali sono le nostre vere inclinazioni e dar loro
una forma compiuta sia fondamentale per la ricerca di quella cosa strana e sfuggente
che chiamiamo “felicità”. La mia particolare Terra dei Sogni è scrivere e
suonare, per me e per gli altri, condividere qualcosa di intimo cercando di
renderlo universale e comprensibile senza cadere in facili banalizzazioni. È un
processo difficile, ma le rare volte in cui riesce è qualcosa di assolutamente
meraviglioso.
Non ho potuto gustare
per intero l’art work ma ho visto l’immagine della cover, degna di un vinile
anni ’70. Come è nata l’idea?
L'idea
della cover dell'album è cambiata molto nel corso della lavorazione. L'idea
generale era creare qualcosa che riflettesse i testi dei brani all'interno del
disco e che, magari, aggiungesse qualcosa o desse una diversa chiave
interpretativa. Senza l'ausilio artistico di Claudio Bergamin, autore di copertine
di dischi di altri famosi autori come Arjen Lucassen, ciò non sarebbe stato
possibile. L'idea è nata da alcuni schizzi preliminare di Claudio, fatti dietro
una mia generale indicazione degli elementi che ritenevo importanti. Una volta
approvato lo schizzo iniziale, abbiamo discusso dei dettagli – le rondini in
volo o il fatto che ci siano due Lune nel cielo, eccetera – ognuno dei quali ha
un significato preciso nell'economia della narrazione della storia. Ritengo che
le immagini, le parole e la musica siano tre aspetti di un unico grande atto
narrativo, ognuno dei quali può anche essere visto e giudicato
indipendentemente, ma che viene compreso fino in fondo solo in relazione agli
altri, completando il quadro. Non si tratta “solo” di una copertina, insomma,
ma di una rappresentazione grafica della musica, così come la musica è una
rappresentazione sonora dei testi, eccetera. Non è facile creare questo
incastro ma ritengo che renda il tutto più divertente e interessante, sia per
noi che per il pubblico.
Chi accende le singole
scintille della vostra musica? Lavoro di squadra o c’è chi “guida il gruppo”
con qualche regola consolidata?
La
maggior parte degli spunti musicali proviene da Davide Manara, il tastierista,
che è il membro in assoluto più attivo dal punto di vista compositivo.
Tuttavia, ogni singola idea viene poi rielaborata e riarrangiata dagli altri
componenti della band, integrando altri spunti o idee musicali o modificando,
anche radicalmente, alcuni passaggi. A volte capita che sia un mio testo a ispirare
un certo tema musicale, mentre altre volte accade l'esatto contrario. Ciò
detto, ci sono brani nell'album che derivano da idee musicali degli altri
componenti, naturalmente. In generale, il processo è piuttosto caotico e non
abbiamo un “metodo” vero e proprio. Il lavoro di squadra, inutile dirlo, è
fondamentale. La “guida” del gruppo è affidata a chi riesce ad avere una
maggiore visione d'insieme rimanendo “all'esterno” e ascoltando i pezzi come se
fosse tra il pubblico, e in genere sono io a rivestire questo ruolo. Inoltre,
essendo io a scrivere i testi, spesso mi ritrovo a dare consigli riguardo
all'arrangiamento che hanno lo scopo di integrare meglio la musica con ciò che
viene raccontato, per avere un insieme più coerente e logico.
Quanto amate la fase
live?
Immensamente.
La fase live è la parte più bella e divertente della nostra attività come band.
Io personalmente, poi, adoro ogni singolo momento. Il viaggio, l'arrivo nel
locale, il setup degli strumenti e il sound-check, le prove... e poi, ovviamente,
l'inizio dello show. È bellissimo sentire le persone che ti guardano e ti
ascoltano, sentire le critiche e gli apprezzamenti, l'attenzione e l'affetto di
chi ti segue da tempo, oppure la sorpresa di chi ti “scopre”. La prima volta
che vedi qualcuno tra il pubblico che canta il ritornello di una tua canzone è
un'emozione fantastica! Spero che l'uscita dell'album ci dia sempre maggiori
possibilità di viaggiare e di suonare dal vivo, perché credo che sia la vera
linfa vitale della band, il vero senso e scopo di comporre, registrare e
suonare insieme. Ne approfitto anche per sottolineare che abbiamo subito un
ulteriore cambio di formazione dopo l'uscita del CD a causa di difficoltà da
parte di Alberto Grassi a seguire le necessarie date di promozione dell'album,
e abbiamo accolto tra i membri del gruppo Ivano Tognetti, già conosciuto
nell'ambiente prog italiano per la sua partecipazione a diversi progetti
musicali (Nomalia, The “G” Cover Band). Ivano è riuscito in tempi brevissimi ad
integrarsi molto bene nel progetto musicale, ricostruendo fedelmente le linee
di basso principali composte da Alberto ed arricchendo alcuni punti con altre
soluzioni sicuramente interessanti.
Mi piacerebbe conoscere
la vostra opinione sulle possibilità offerte oggigiorno dalla tecnologia,
applicabili al campo della comunicazione. Quali i pro e quali i contro di
internet, se pensate alla diffusione della vostra musica?
Personalmente,
ritengo che i lati positivi della “rivoluzione digitale” siano molto più
importanti degli aspetti negativi. La tecnologia non solo ci ha permesso di
realizzare l'album – abbiamo gestito il mastering con uno studio inglese – UK
Mastering – tramite l'invio dei file su Internet e la comunicazione tramite
posta elettronica – ma ci dà anche enormi possibilità di promuoverlo e venderlo
– tramite Facebook, il nostro sito web, la vendita su iTunes o su Amazon,
eccetera. Solo dieci anni fa tutto questo non sarebbe stato possibile o, quanto
meno, sarebbe stato molto più difficoltoso. Internet e le nuove tecnologie
digitali consentono di abbattere un tetto che aveva sempre creato una divisione
netta tra le band “mainstream” e le band “underground”. Naturalmente, Internet
è semplicemente uno strumento e molto dipende da come lo si usa. Ci sono degli
aspetti negativi, ovviamente, come la pirateria digitale e una cultura della
fruizione musicale diversa: al giorno d'oggi c'è forse meno attenzione
nell'ascolto dei brani perché tutto è molto più semplice ed è quasi automatico
avere Terabyte di musica sui propri hard-disk ma non avere magari il tempo di
ascoltarli mai tutti come si deve. D'altronde, io sono convinto che siamo solo
all'inizio di questa nuova era della comunicazione e della produzione di nuovi
media. Una cosa è certa: il vecchio business-model delle major discografiche è
obsoleto e deve essere ripensato e riprogettato dalle radici.
Entriamo un attimo
nello specifico di “The Land of Dreams”. Quale il messaggio profondo?
Come per
ogni opera, la vera risposta a una domanda come questa può arrivare solo da chi
la ascolta e la interpreta a livello personale. Il messaggio che io ho voluto
passare con i miei testi, tuttavia, è all'incirca il seguente. Sia nella
title-track che nella lunga suite presente nell'album, il concetto fondamentale
è che noi viviamo già nel Mondo dei Sogni, solo che lo riempiamo di incubi.
Immaginiamo un mondo terribile, ricco di ombre e di paure, ed esso si realizza
in conformità al nostro potere creativo. Se ci rendessimo conto davvero di tale
potere, se prendessimo consapevolezza delle nostre potenzialità, potremmo
modificarlo e migliorarlo, sia a livello individuale sia a livello sociale.
Siamo noi la Chiave d'Argento, non c'è nessun oggetto magico
esterno capace di darci più potere di quanto non possediamo già per diritto di
nascita in questo universo. Non vorrei sembrare “mistico”... il mio intento è
molto concreto. Siamo come topi persi in un labirinto – come il protagonista
che scappa nelle fogne di una città in fiamme – convinti di doverci muovere al
suo interno, come se quello fosse tutto il nostro mondo, e abbiamo dimenticato
che esiste qualcosa al di fuori che può essere anche radicalmente diverso. Al
giorno d'oggi, anche solo sognare un mondo differente e migliore, sembra essere
considerato un delitto. “Utopia” significa “nessun luogo”, qualcosa che non
esiste, attualmente, da nessuna parte... ma non che non potrà mai esistere in
futuro. Credo che il compito della nostra generazione e di quelle più giovani,
sia quello di reimparare a sognare.
Che opinione avete
dell’attuale stato della musica, sia dal punto di vista dei talenti che da
quello delle possibilità?
In parte,
questo si ricollega a quanto ho detto rispondendo ad una domanda precedente. La
musica, almeno la musica leggera “mainstream”, è un'industria che ormai ha
scarsi e vaghi collegamenti con qualsiasi cosa che si possa definire “arte”. E'
sostanzialmente la creazione a tavolino di prodotti ben confezionati e promossi
in modo da raccogliere consensi e vendite da una determinata fetta
dell'audience, da certi target anagrafici, sociali e razziali. Tutto è studiato
nei dettagli, dai suoni al marketing, dall'immagine dell'artista alle copertine
degli album, dai video ai passaggi sulle radio e le TV nazionali e
internazionali. Sono pochi gli artisti che riescono a navigare a vista in
questo mare di portaerei prodotte in serie, persone che continuano a creare
emozioni e che riescono a essere sincere con il proprio pubblico. Mi vengono in
mente un paio di nomi che derivano dai miei gusti personali: Paul Simon e Peter
Gabriel. Poi c'è un altro mondo sommerso, di miliardi di piccoli pesci che si
nascondono tra i coralli e le alghe, e che cercano semplicemente di ottenere un
po' d'attenzione, lanciando in alto le bolle delle proprie creazioni. La cosa
assurda è che ci viene raccontato che questo è l'unico sistema possibile e che
le cose funzionano così perché le case discografiche danno al pubblico ciò che
il pubblico vuole. A me viene in mente una frase del grande fumettista e autore
Alan Moore: “Il compito di un artista non
è dare al pubblico ciò che il pubblico vuole, ma dargli ciò di cui ha bisogno.”
Ci sono tanti artisti che creano con coraggio, perseveranza e cocciutaggine,
spendendo tempo, sangue, sudore e lacrime (e soldi!). Penso che “il pubblico”
sia molto più intelligente di quanto non ci venga venduto e che riesca ad
apprezzare questi “prodotti” alternativi. Bisogna solo dargli un'opportunità di
sentire proposte diverse e avere una maggiore cassa di risonanza per chi ha
davvero qualcosa da dire.
Che cosa avete
pianificato per l’immediato futuro?
Stiamo
lavorando a nuove canzoni e abbiamo molto materiale “grezzo” da raffinare e
arrangiare. Abbiamo molte idee e, purtroppo, poco tempo e poche risorse per
realizzarle nei tempi che vorremmo. Stiamo cercando più occasioni possibili per
suonare dal vivo e promuovere l'album. Speriamo di poter far uscire un secondo
lavoro entro tempi ragionevolmente brevi. L'accoglienza del pubblico e della
critica – almeno finora – è stata incoraggiante e dobbiamo essere molto grati
alle persone che ci ascoltano, comprano il disco o lo scaricano da iTunes, ci
vengono a sentire e ci supportano con consigli, critiche o anche la semplice
presenza. Credo che, in ultima analisi, il piano per l'immediato futuro sia
divertirsi e far divertire. Tutto il resto deriva di conseguenza.
Band:
Yuri Abietti - Vocals, Acoustic Guitar, Percussions
Carlo Monti - Lead Guitar
Davide Manara - Keyboards, Synth, Samples
Viviano Crimella - Drums, Percussions
Alberto Grassi - Bass Guitar