martedì 3 giugno 2008

David Bowie


Da tempo volevo rendere omaggio a David Bowie , ma come spesso mi accade davanti ai “monumenti” della musica, mi riesce difficile trovare le parole idonee che possano raccontare una carriera infinita.
Utilizzerò quindi un’intervista di Massimo Cotto(da quando ho letto un suo libro non ho potuto fare a meno che “saccheggiarlo”), realizzata ad inizio 2003, e a seguire il video di “Rebel Rebel”.

"Heathen" è un grande disco, a volte drammatico, denso di rabbia e insoddisfazione per quello che succede nel mondo. A volte mi sembra di avvertire il senso di tragedia imminente che era proprio di Jacques Brel.
Un senso di tragedia? Sì, credo sia giusto e che derivi dal mio essere diventato padre per la seconda volta e dall’avere una figlia molto giovane, di due anni. Penso che il senso cui facevi riferimento nasca dalla frustrazione, persino da qualcosa di più, dalla rabbia di vedere un mondo alla deriva che lascia pochi respiri all’ottimismo. Questo mi spaventa. Suppongo che ogni genitore provi le medesime sensazioni, ma non riesco a evitare di riformulare la stessa domanda: perché ho messo al mondo, in questo orribile mondo, un figlio? Sono sicuro che anche i miei genitori avranno pensato la stessa cosa dopo aver messo al mondo me, ma credo che i tempi che stiamo vivendo siano più ansiosi e stressanti. Sono molto preoccupato, mi domando che cosa resterà per lei, quando sarà cresciuta.

Viviamo tempi difficili, stiamo entrando forse nell’Apocalisse, eppure, ecco un altro aspetto interessante del disco, in questo caos esterno, è la melodia interna il motore delle canzoni.
Sì. Se ho puntato tanto sulla melodia è perché, in mezzo al caos, si cerca sempre la chiave, l’inclinazione naturale per scoprire il segreto della struttura e vincere la rabbia e il risentimento che dava voce alle canzoni. Ero alla ricerca di qualcosa che desse il senso dell’insieme e il simbolo era la melodia, forte e diretta. Forse in modo ingenuo, ho cercato la verità, ma è sempre più difficile distinguerla. Puoi ragionare in termini assoluti, ma alla fine della giornata, ti scopri a dire: “Beh, forse, in quel caso, è solo un problema di sopravvivenza che mi fa andare avanti”. Se questo è il senso della nostra giornata, è qualcosa su cui possiamo costruire? Non credo. Se sopravvivere è il credo, non c’è religione sulla terra. Questa è la mia risposta. Camminiamo nel vacuo, in questo grande buco che urla: “Non c’è ragione nel vivere”. Questo è l’aspetto più terrificante. Per andare avanti, dobbiamo credere, fingere di essere in evoluzione, in progresso, ma sappiamo bene che non è così: siamo soli, in questo orrendo, ellittico, fisso vivere dove ripetiamo all’infinito gli stessi comportamenti animaleschi dettati dall’esigenza di sopravvivere. Ucciderci ad a vicenda e distruggere il pianeta dove viviamo. Bizzarro e orribile. Ti sembro negativo? No, i miei pensieri non ti vietano di essere più ottimista. A volte finisci per sentirti come Sisifo, che spingeva la pietra fin sulla montagna, solo per vederla rotolare a valle, ma dobbiamo credere di arrivare in cima. Sono come tutti gli altri esseri umani, convinto che, se lavoro su di me, riuscendo a migliorare la mia vita e quella degli altri, il mio piccolo mondo metterà in circolo altri sforzi, altra energia. Spero sia così, ma non sono sicuro.

Pensi che sia possibile essere eroi, anche solo per un giorno?
Ci credo, certo. Ci credo nel modo in cui, originariamente, era concepita la canzone, che parlava di due ragazzi che volevano ottenere qualche conquista importante all’interno della loro relazione, non nel mondo intero, ma su scala ridotta a loro due. Credo che non sia lecito aspettarci qualcosa di più grande di questo. Salvare il mondo è la religione secolare, il livello più alto della sensibilità terrena, ma è un risultato troppo improbabile da raggiungere. Salvare una relazione è già un buon inizio. Ci sono storie che raccontano di uomini che ambivano a salvare il mondo, ma non sono stati capaci di tenere unita la loro famiglia. Il primo comandamento è tenersi ancorati alle radici, al primo livello di salvezza e redenzione che contempla te stesso, la tua famiglia, gli amici, il vicinato, e sapersi rapportare a ogni nuova situazione. Se andasse tutto in questo modo, i ribelli si eliminerebbero tra loro e la società rimarrebbe sana…

Quando hai cantato “Heroes” a New York, per i vigili del fuoco dell’11 settembre, l’eccitazione e la commozione era visibile. Le parole di una canzone possono assumere significati diversi, a distanza di anni.
Sì, naturalmente in America tutti si sono aggrappati al verso che diceva: “We can be heroes, just for one day”, possiamo essere eroi, anche solo per un giorno. Poco importa che uno dei protagonisti della canzone sia un alcolizzato e l’altro una persona con parecchi problemi. Importa solo quel verso. Lo stesso accadde per Springsteen: la sua “Born In The U.S.A.” è stata infilata in ogni contesto patriottico, ma se davvero ascolti il testo, capirai che quella è la canzone meno patriottica che Springsteen abbia mai scritto. Volevano che aprissi quel concerto con “Heroes”, ma io non ho voluto. Pensavo che il contesto richiedesse un approccio più complesso di quel semplicistico verso di due eroi. Così, ho detto che avrei accettato di aprire la serata solo se, come prima canzone, potevo scegliere “America” di Paul Simon, che, per me, conteneva alla perfezione quel senso di ansietà nascosta nella bellezza che era l’epitome di un momento storico. Due ragazzi alla ricerca dell’America, che non sapevano che cosa avrebbero trovato e che vivevano quell’incertezza con un pizzico di apprensione. Questo era il modo in cui New York pensava, in quei giorni, non certo con eroismo o manie di grandezza, ma con paura. Avevano bisogno di quegli ingredienti, ma non potevano essere l’intero pasto. Non bisognava chiedere se si poteva essere eroi per un giorno, ma dove stavamo andando.

Hai sempre cercato di reinventarti, o reinventare la tua arte, come hanno fatto, in campi diversi, Burroughs, Picasso e altri artisti. Il tuo approccio alla musica è cambiato, negli anni, indipendentemente dagli stili?
Questo è un aspetto interessante. A mano a mano che invecchio, aumenta l’autoesplorazione, l’analisi del mio passato, non tanto come persona – non amo guardarmi indietro troppo spesso – ma come artista. E’ necessario, quando vado in tour, interrogarmi sulle vecchie canzoni e fare il punto su ciò che sono stato, chiedermi: “Okay, che cosa ho fatto di rilevante, in quel periodo? Ha ancora senso rifarle oggi, continuando a essere credibile e vero, anche se il termine “vero” farei bene a non usarlo, dopo quello che ho detto prima? Posso rileggere il mio passato con integrità?” Quando attraverso questo percorso, noto che ci sono dei fili rossi, delle tematiche comuni a tutto il mio cammino, fin dagli esordi. E molte di esse hanno a che vedere con l’isolamento, l’ansietà, la domanda opprimente del nostro ruolo nell’universo, l’esistenza di forme intelligenti nello spazio. I temi sono gli stessi da 40 anni, l’approccio è cambiato frequentemente, perché, come ogni artista, ho cercato di chiedermi la stessa domanda da prospettive differenti. L’immagine che mi piace è del cacciatore che cerca di stanare la preda e coglierla di sorpresa. Così faccio io con le domande che rincorro da sempre. So che è stupido illudersi di trovare una risposta, in quanto il senso dell’esistenza è inspiegabile, ma seguito a porle, e invecchiando aumenta l’intensità della richiesta: perché? Cosa? Dove? Quando? Come ? La richiesta diventa sempre più insistente, come il suono di un tamburo, e durerà fino a quando appoggerai la tua testa sul cuscino, per l’ultima volta. Dopo quel viaggio, scoprirai tutto. Gli stili cambiano e così le cosiddette reinvenzioni non sono altro che strumenti per aprire le stesse porte.

Il rock ha probabilmente perso gran parte del suo significato. Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta, per te?
Penso sia diventato una sorta di agente.. Penso di essere, ora, nella situazione di chi vuole creare canzoni e fare concerti anche se il pubblico dovesse rivolgersi altrove, com’è capitato molte volte nella mia carriera. Allo stato attuale, sembra che la gente mi segua, ma, se anche non fosse, esprimermi è una necessità, dunque non smetterei mai di cantare, nemmeno se qualcuno mi pagasse per ritirarmi. E’ una droga, soprattutto quando sono a casa, circondato dai miei strumenti, nel mio ambiente naturale. Suono ogni giorno, ogni giorno scrivo sul mio notes, perché i testi continuo a scriverli a mano. Butto giù idee, la musica è nel mio sangue. Agli esordi, trent’anni fa, avrei reagito diversamente e cercato con maggior forza un pubblico; oggi scrivo perché non posso farne a meno, anche se il pubblico non dovesse più esserci. La musica ha la medesima importanza della mia famiglia. Vorrei dire che la famiglia viene prima, ma non è così. Arrivano insieme. Sono loro, indissolubili, la mia vita.

Perché gli attori possono cambiare abito in ogni film e i musicisti non possono passare da un genere all’altro, disco dopo disco, senza sorprendere la gente?
Gli anni Settanta hanno introdotto una nuova concezione del rock, non solo grazie a me, ma a gruppi come i Roxy Music, che sono stati terribilmente importanti nello sviluppare un nuovo tipo di pluralismo, di dualità, nel modo in cui ci proponevamo o nella musica che proponevamo. Al tempo stesso, introducendo l’ironia, prendevamo le distanze dalla seriosità di certe degenerazioni stilistiche. Se, oggi, il rock and roll ha una storia, è perché noi abbiamo contribuito a crearla abusandone. Se mi concedi un pizzico di presunzione, in noi che facevamo base a Londra, c’era la consapevolezza di lavorare a una forma di art-rock postmoderna che avrebbe trasformato la musica. Il rock non sarebbe più stato lo stesso, dopo di noi. Non sono certo, tuttavia, che il rock fosse disposto a veder sparire la figura di un eroe misogino che parlava a nome di una generazione, che si faceva guida e cantava la verità; ma io non volevo lasciarmi imprigionare in quell’unico ruolo. Non ero preparato a vendere me stesso come il portavoce della verità assoluta. La gente, ancora oggi, vuole che l’artista lasci cadere perle di saggezza e attinga da una realtà particolare dalla quale si possa attingere. E’ difficile, per il pubblico rock, credere che un artista che si cambia pantaloni a ogni disco, sia serio e parli con il cuore, per quanto seri siano i suoi pantaloni.

Ziggy Stardust ha appena compiuto 30 anni. Quando pensi a lui, lo fai come a uno dei tuoi figli o a una parte di te?
La sua vita è stata breve, 18 mesi in tutto, di cui 12 in tour. Mi sorprende che abbia ancora un seguito e che sia ancora vivo nelle menti di chi l’ha conosciuto. Forse, è diventato popolare in quanto svolta nel rock, con l’introduzione di un nuovo vocabolario, di una differente gestualità. Eravamo orgogliosi di lui e del nostro atteggiamento, noi che ci sentivamo gli inventori del glam e i coniatori di una nuova moneta. In questo senso, Ziggy Stardust è stato una pietra miliare. Quando penso a lui, lo faccio con molto affetto, ma non posso farlo troppo a lungo. Un battito di ciglia, un minuto o due.

Una volta hai dichiarato di aver scoperto Dylan e John Lee Hooker nello stesso giorno. Hai scoperto qualche musicista, di recente, e, se sì, hai reagito allo stesso modo o la tua maniera di sentire la musica è cambiata?
Se scopro qualche nuovo artista, mi lascio prendere da lui come un tempo, assolutamente. E’ meraviglioso imbattersi in qualcuno che ti ispira. Penso ai Mercury Rev, all’ultimo disco di cui, per coincidenza, Tony Visconti, ha arrangiato gli archi. La prima canzone mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena. Trovo difficile, oggi, trovare un artista di cui mi piaccia l’intero corpo di lavoro. Hooker e Dylan mi trasmettevano la sensazione che ogni cosa che toccassero, scrivessero, cantassero fosse la perfezione assoluta, l’essenza della vita stessa. Non provo più le stesse emozioni. Mi emoziono nel riscoprire vecchie cose. Il penultimo album mi ha condotto alla riscoperta di Richard Strauss, il nome meno alla moda che potessi evocare, me ne rendo conto. Prima di morire ha scritto le sue ultime quattro canzoni, che mi hanno ispirato e commosso in modo incredibile. No, nessuno come Dylan e Hooker, agli inizi. No

Heathen” contiene canzoni che si possono rivolgere a Dio o agli uomini. Sei cattolico, vedi le cose spiritualmente e pensi che una delle bellezze dello scrivere canzoni sia nell’ambiguità del destinatario?
Mia madre era cattolica, mio padre protestante. Dalla parte di mia madre ho ereditato un fortissimo senso di colpa. Non erano praticanti in senso stretto, andavano a messa occasionalmente, ma professavano continuamente la loro fede. Litigavano, anche, per la supremazia di una religione sull’altra. Forse è per questo che sono fuggito dalle religioni occidentali giudeo cristiane per abbracciare, saltuariamente, alcuni dettami del buddismo. Da ragazzo ero più determinato a diventare un monaco tibetano che una rockstar. Dai 16 ai 19 anni, sognavo di rinchiudermi in un monastero lama. In me, di quelle esperienze, è rimasta l’idea della rinascita, del passaggio da una vita all’altra. Niente rimane inalterato. E niente di assoluto si tramanda da una religione all’altra. Gli anni hanno frantumato la mia fiducia nelle organizzazioni religiose, che si occupano di cose terrene, politiche, di controllare e soggiogare le popolazioni, e non di spiritualità. A dire il vero, non mi sono mai sentito parte di una chiesa, ma ho cercato di capire il significato di Cristo, di Budda. Seguo quelle tracce, ma non credo. Vorrei credere a un’entità superiore e che esista un piano, un disegno, ma, come dicevo all’inizio dell’intervista, più mi interrogo e più comprendo che non esiste nulla, né un’entità né un disegno. Siamo animali, niente di più. Se vuoi trovare te stesso, non andare nel deserto, vai in un zoo. Lì imparerai su te stesso e sulla razza umana più che dalla meditazione.

Che cosa vorresti indietro dal passato e che cosa cancelleresti dal presente?
Cancellerei la religione e, dal passato, rivorrei il vero senso, che emergeva verso la metà degli anni Sessanta, di entusiasmo e partecipazione. Per quanto superficiale fosse, si respirava la voglia di lavorare insieme per un sogno, un’utopia non ben identificata. Dovremmo provare quelle sensazioni sempre, come un flusso che attraversa e percorre le nostre vite e dà a esse un senso e una ragione del nostro agire. Purtroppo, tutto è evaporato velocemente. Vorrei che mi restituissero la solidarietà dei Sessanta e, in cambio, darei indietro questo ridicolo, arcaico sistema religioso che sembra imprigionare il mondo intero.

Caos, fragilità, sdoppiamento, decadenza, disperazione. Questi sono alcuni elementi presenti non nella tua musica, ma in questa epoca. Trai ispirazioni da essi?

Sì, credo di sì. Mi piace l’idea dello sdoppiamento della personalità e del Giano bifronte, mi piace chi non è uno, ma due e contempla allo stesso tempo entrambi i punti di vista. Una delle cose che, per fortuna, la religione non ci ha insegnato è l’esperienza dello spreco della vita. La maggior parte delle religioni occidentali si basa sul principio che, un giorno, tutto sarà bello e in ogni momento. Io ho imparato che l’oscurità e la miseria sono parte dell’esperienza umana. Contesto l’idea che si debba evitare il dolore e la negatività, evitare questo e quello. Si deve sperimentare ogni cosa perché ogni cosa fa parte della vita. Prima accetti questo principio e meglio è. Una volta fatto, troverai un equilibrio, una serenità nell’accettare gli accadimenti che non va confusa con la debolezza; è, semplicemente, la comprensione di quel che stai vivendo nell’attimo esatto in cui lo vivi. Il resto è impossibile da comprendere. E’ insano pensare che tutto deve essere ordinato, strizzato, piegato, omogeneizzato, protetto. In India ci sarà di certo più sporcizia nelle strade, ma anche una comprensione infinitamente maggiore del senso pieno della vita. Non ci serviranno le macchine che produciamo in serie né gli hamburger di McDonald’s o le bottigliette di Coca Cola ad avvicinarci alla realtà della vita.

Rebel Rebel



Citazione del giorno:
"Governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno" (Michel De Montaigne)

1 commento:

Anonimo ha detto...

bellissima l'intervista...alcune cose note altre meno.Particolare interesse per i citati Mercury Rev,un gruppo statunitense di psychedelic dream rock.Accattivanti temi musicali..qualche perplessità la voce di Jonathan Donahue...cmq da seguire.