venerdì 31 gennaio 2020

Mr.Bloe


Ho ricordo indelebile del brano che propongo oggi.
Era la sigla di qualche trasmissione televisiva pomeridiana, a inizio anni '70.
Forse il lamento dell'armonica... forse il link a qualche momento buio dell'adolescenza, ma ancora oggi la canzone mi riempie di velata tristezza.
Ecco come è stata descritta:

C’è una canzone che si ascolta sempre per radio e che si fa ascoltare anche molto volentieri. È un brano strumentale che dimostra che in fondo ci vuole poco a fare un disco divertente e gradevole, a patto di avere qualche idea e di farne buon uso. Il nome dell’autore di GROOVIN’ MITH MR. BLOE è proprio Mr.Bloe, nome fittizio dietro il quale si nascondono gli Hookfoot, complesso che ha accompagnato Elton John dal 1968 al 1970. Insieme agli Hookfoot ci sono l’arrangiatore e pianista Zack Laurence e il vero Mr. Bloe, l’armonicista Harry Pitch, noto musicista inglese. Il 45 giri, in men che non si dica, riesce a salire su in alto nelle classifiche inglesi per poi catapultarsi in quelle europee (specialmente in Olanda, Germania,Francia, Italia). Ritmica aggressiva e, come strumento principe, un’armonica a bocca. Un disco che è stato ballatissimo in tutte le discoteche durante l’estate e proprio per questa ragione ora ce lo ritroviamo, a fine stagione, in classifica da noi. Non è facilissimo che un disco strumentale arrivi di prepotenza in hit parade (il periodo clou sarà il 1974/1975) ed è ancora più raro che un disco con queste prerogative abbia un successo pari ad altre interpretazioni eseguite da complessi o da noti cantanti pop. Il requisito principale è la spontaneità e l’immediatezza del motivo e una buona dose di professionalità.










sabato 25 gennaio 2020

"Accadde a Buckhannon": resoconto video di quanto accaduto nel corso della presentazione alla Ubik di Savona, il 24 gennaio



Il 24 gennaio ho presentato alla Ubik di Savona - grazie Stefano Milano! - un racconto che ho intitolato “Accadde a Buckhannon”, una storia che avevo nel cassetto da tempo e non mi decidevo mai a pubblicare.

Il motivo della titubanza era legato al fatto che, seppur in modo “nascosto” e impossibile da decodificare per chi non mi conosce, parla di parte della mia vita, argomento che credo possa interessare solo ai miei affetti e agli amici, per cui ho dato al tutto una dimensione “domestica” e sobria, a partire dalla confezione modesta e dal contenuto limitato… volutamente limitato. Anche la realizzazione pratica, questa volta, non è stata affidata a nessun editore ma mi sono rivolto ad una tipografia che ha realizzato ciò che desideravo.


Non ho fatto grande pubblicità in occasione della presentazione, e ho informato direttamente soltanto le persone che mi avrebbe fatto piacere avere attorno, alcune delle quali hanno fatto parte del mio "viaggio di vita", dai compagni di scuola a conoscenze più recenti ma significative.


Tra queste il mio amico Mauro Selis, che ha avuto il compito di pormi le domande, come accaduto anche in passato.

Un’ora di quasi monologo dove mi sono messo un pò a nudo, e ho elargito le mie… “perle di saggezza”, ovviamente opinabili, ma giunto in questa fase dell’età credo di potermelo permettere!

Per lasciar traccia di questo incontro utilizzo i video di mia moglie Maura, che ha ripreso una ventina di minuti della chiacchierata, e qualche fotografia di Cristina Mantisi.


Cosa importante: il libro era un regalo per i presenti ma, senza alcun obbligo, è stata chiesta una donazione libera e simbolica da destinare a WeWorld Onlus.
La generosità dei presenti consentirà di fare gratificante opera di beneficenza.


martedì 21 gennaio 2020

Pier Gonella-“Strategy”


Pier Gonella realizza un sogno, quello di proporre un disco strumentale, dove la protagonista assoluta è la sua chitarra. Intendiamoci, anche lui fa parte di quella schiera di musicisti che vengono considerati un tutt’uno con lo strumento che padroneggiano, quelli che appena li incontri ti guardi attorno per vedere dove ha piazzato il suo prolungamento naturale, ma esistono occasioni in cui certe tendenze emergono ancora di più.

L’album “Strategy ne è l’esempio, un contenitore dove è palese e dichiarato l’intento di “raccontarsi” attraverso lo strumento della vita.

La storia di Gonella disegna un numero impressionante di album, progetti e collaborazioni, e la sua versatilità - legata a consolidate skills - è quella che gli permette di passare agevolmente dal rock più metallico ad un contesto meramente acustico, come quello che ho potuto vivere con i miei occhi poco prima di Natale quando, circondato da un ensemble “nobile”, è stato tra i protagonisti assoluti del tributo a Greg Lake - a Palmanova -, tra la musica degli ELP  e quella di Paola Tagliaferro.

Strategy” è disponibile da pochissimi giorni, ed è stato registrato e mixato presso i MusicartStudios di Rapallo - la sede di lavoro di Gonella - e vede la collaborazione di Musicart, Diamonds Prod e Merlin Music Management.

Nove brani spalmati su trentotto minuti di musica che riporta alla figura di Joe Satriani, per Pier un punto di riferimento sin dagli esordi.
Ma non basta, perché Gonella prova - e riesce - a creare un prodotto lontano dalla nicchia, quella che contraddistingue la sua produzione con Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, Odyssea, Athlantis; l’obiettivo dichiarato è quello di realizzare “canzoni”, termine che riporta alla facilità di comprensione e a sonorità adatte a tutti i palati. Per fare ciò mette in campo un’arte solistica che utilizza il virtuosismo intrinseco per disegnare delle melodie, delle trame sonore che possano essere comprese facilmente e restare nella mente, insomma, non una azione tesa all’autoreferenzialità, ma alla ricerca dell’incontro tra tecnica e facilità di comprensione, due aspetti che non dovrebbero fare fatica a trovare un punto di incontro.

Un brano strumentale non contiene messaggi palesi. Un brano strumentale dà la possibilità all’ascoltatore di interagire con l’autore, in quanto lo stimolo sonoro può portare a viaggi/sogni/sensazioni del tutto personali, e dettati da una reazione istintiva. Un brano strumentale è legato ad un titolo che fornisce indicazioni sui pensieri del musicista, denominazione che, a volte, nasce proprio a seguito della genesi della melodia.
Strategy” è tutto questo, ed è fruibile i modi differenti, e l’ascolto privo di condizionamenti può condurre alla creazione di un rapporto osmotico con il ricettore virtuoso, quello cioè che prova a liberare la mente lasciando fuori pregiudizi e alibi.

Dall’intervista a seguire realizzata con Pier Gonella si ricavano elementi interessanti, e la proposizione dei due video ufficiali sino ad oggi rilasciati permette di fornire sintesi al mio pensiero… questo è il mondo di Pier Gonella… uno dei tanti!



La nostra chiacchierata...

L’intervista che ti feci nell’agosto del 2017, in occasione dell’uscita di “Wine of Heaven", dei Mastercastle, terminava con una domanda relativa al tuo futuro immediato, un po’ retorica, ma giustificata dai tuoi tantissimi progetti musicali: che cosa è accaduto da allora ad oggi in campo professionale?

Dal punto di vista discografico pochi mesi dopo l’album dei Mastercastle è uscito “The Age of Dead Christ”, dei Necrodeath, seguito l’anno dopo da “Refragments of Insanity”. Quindi l’album “Athlantis – The Way to Rock ‘n Roll”. Nel 2019 come decennale dell’attività dei Mastercastle è uscita la ristampa su vinile del primo album, “The Phoenix”, seguita da un nuovo singolo, “Still in The Flesh”. Per il resto sono stato e sono attivissimo sul palco con i Necrodeath e con gli impegni della mia struttura MusicArt.

È appena uscito “Strategy”, il tuo primo album da solista: che cosa ti ha mosso in questa direzione… autarchica?

L’idea di realizzare un album solista era sempre nell’aria, un po’ per “coronare” la mia passione per la musica strumentale, un po’ spinto anche da Marco Pesenti e da Giulio Belzer, che poi sono diventati il batterista e il bassista del progetto.

Trattasi quindi di lavoro strumentale: che cosa hai voluto cristallizzare all’interno del disco?

In realtà la musica strumentale chitarristica è sempre stata una mia grande passione. Nel corso degli anni avevo già inserito qualche brano strumentale all’interno dei sei album dei Mastercastle, ma sempre legati al genere neoclassico. In questo disco ho voluto concentrare quell’hard rock americano strumentale stile Joe Satriani che è stato folgorante per il mio percorso musicale. È stato anche un modo di presentare un lavoro diverso da tutte le mie altre uscite.

La tua immagine è legata d’impatto al genere metal, ma anche ad un certo tecnicismo chitarristico: cosa ci si deve aspettare, funambolismo estremo o canzoni alla portata di tutti?

“Strategy” non è per nulla un disco tecnico o “dimostrativo”. Il termine “strumentale” giustamente crea un forte “pregiudizio”, ma si tratta di un disco di “canzoni”, dove al primo posto c’è solo la melodia.  La scommessa è stata proprio cercare di raggiungere i non musicisti creando delle melodie cantabili di forte impatto. Anche tra i più grandi, solo in pochi ci sono riusciti, e segnalo l’album “The Extremist di Joe Satriani”, che non mi vergogno mai di citare come grande fonte di ispirazione.


Un progetto strumentale non può appoggiarsi sulle liriche per la diffusione dei messaggi dell’autore: che cosa vuoi “raccontare” con “Strategy”? Aiutano in quest’opera di comprensione i titoli dei brani?

Per me i titoli hanno sempre la loro funzione. Li ho scelti man mano in base alle sensazioni o ai ricordi che mi sollecitavano le musiche. Non essendoci i testi chiaramente ognuno può interpretarli a modo suo, in maniera magari completamente diversa dalla mia, ed è una cosa divertente. Per citarne qualcuno, “The Pied Piped”, ovvero il “Pifferaio pezzato”, è il titolo di un vecchissimo cartone animato sullo stile del “Pifferaio magico”, ma più a fondo l’andamento malinconico del brano è dedicato a tutti i musicisti che, pur di mettere la loro musica al primo posto, sono disposti a rinunciare a tantissime cose della loro vita. Oppure “Devil at God’s Pub”, dove immagino in maniera goliardica Dio e Lucifero che si raccontano le loro “paure” al bar davanti a una birra, ma allo stesso tempo tutte le situazioni paradossali dietro ad un’autorità, come ad esempio due avvocati che si “scannano” in aula di tribunale difendendo parti avversarie, e finita l’udienza tornano ad essere amici strettissimi e così via…

Chi ti ha accompagnato nel tuo viaggio realizzativo, sia dal punto di vista progettuale che da quello delle collaborazioni strumentali?

Alla batteria sono affiancato da Marco Pesenti, conosciuto naturalmente come fondatore dei Necrodeath, ma qui in veste completamente diversa, e al basso da Giulio Belzer, con cui collaboro nelle attività Musicart da tanti anni. Oltre che musicisti di classe A sono sempre stati seri promotori del progetto da “dietro le quinte”, nonché in prima fila per l’aiuto negli arrangiamenti dei brani. A questo va unita l’attività comune di insegnamento che ci vede tutti e tre nella stessa struttura facilitando la gestione pratica delle registrazioni.

Come sarà distribuito il disco? In quali formati e come sarà possibile ascoltarlo/acquistarlo?

Il disco è disponibile in formato Digipack fisico tramite Diamonds Prod, e naturalmente in formato digitale in tutti i maggiori portali. Lascio qualche link a disposizione per chi fosse interessato:

Hai pensato a momenti di presentazione o a concerti dedicati?

Grazie all’esperienza e al lavoro di Peso e di Merlin Music Management ci saranno 6 date di presentazione del progetto:

21 febbraio 2020 Scandicci – FI- Circus
22 febbraio Roma – Defrag
20 marzo Santa Margherita Lig – GE
21 marzo Torino – Padiglione 14
24 aprile Mornago –VA- Madhouse
25 aprile Genova – Liggia

L’ultima immagine che ho di Pier Gonella è recente, Palmanova, Tributo a Greg Lake, una dimensione acustica, lontana dall’immagine del chitarrista “metallico”: qual è il ruolo in cui ti riconosci di più nel 2020?

Sì, grazie a Paola Tagliaferro ed alla “Compagnia dell’Es” ho avuto piu’ di una volta la possibilità di suonare in occasione di eventi in ricordo del Greg Lake. Abbiamo suonato oltre ai brani del suo album “Fabulae”, alcune cover delle piu’ note ballate di Greg, per cui tutte in versione rigorosamente acustica. È una dimensione diversa da quelle per cui sono piu’ conosciuto, ma che comunque mi appartiene. In qualunque situazione musicale mi trovi cerco sempre di fondere e adattare la mia personalità con quella del progetto in modo da cercare di valorizzarlo.

Ritorniamo alla domanda retorica: e ora che cosa accadrà?

Per ora mi godo i buoni feedback di “Strategy”. Per il resto nell’imminente c’è l’uscita del nuovo album “Athlantis 02.02.2020”, e per aprile una nuova uscita Necrodeath che sarà accompagnata da numerosi concerti. In parallelo mi sto appassionando molto anche alla music distribuita in “digitale” realizzando “backing Tracks” e altri “tools” per musicisti che via via pubblico nel mio canale Youtube www.youtube.com\MusicArtTube.
 Anche questa è un’altra dimensione che spesso noi musicisti, annebbiati dal dover “postare” sui nostri social, non riusciamo a comprendere. Invece è un nuovo mondo da esplorare…



Tracklist
01. Strategy
02. Rocks’n’roll
03. The Pied Piper
04. Liberland
05. La Graciosa
06. The Spark Of Life
07. Devil At God’s Pub
08. Crazy Numbers
09. To The Next Party







THE WHO-“WHO”



Articolo già pubblicato sul portale https://faremusic.it/

Commentare un album dei The Who - ma direi la loro produzione in generale - può allontanarmi dall’obiettività, una condizione complicata da raggiungere quando si tratta di sonorità che mi accompagnano sin dalla tenera età (ascoltai “Substitute” a soli otto anni!). La realtà è che il loro rock classico è quello che preferisco tra i tanti, e credo che la genialità di Pete Townshend abbia pesantemente inciso sugli ultimi 55 anni della storia della musica.
Mi era capitato anche con “Endless Wire”, nel 2006, album di inediti arrivato dopo un lungo vuoto discografico, criticato dai più. Io lo ascolto ancor oggi con discreta frequenza, perché contiene le linee guida di quello che è, secondo me, il modello “WHO”.

Da circa un anno era noto come la band inglese stesse lavorando ad un album di materiale originale, brani scritti e pensati per le attuali possibilità vocali di Roger Daltrey. Registrazioni fatte in studi separati, aiutati dalla tecnologia e spinte da relazioni personali che, a dispetto di alcune gioiose esternazioni da parte dei protagonisti, sono sempre state improntate ad una certa conflittualità, ed è di questi giorni un’inedita e poco elegante asserzione di Pete rivolta anche ai due pezzi mancanti, dichiarazioni che hanno visto una repentina retromarcia, ma che lasciano qualche dubbio sui metodi comunicativi adottati, e/o sull’attuale stato d’animo del chitarrista.
Prima Keith Moon e poi John John Entwistle hanno lasciato la band - obtorto collo -, ma Pete e Roger hanno tenuto in vita nome e musica con una moderata e controllata esposizione live e pochissime novità in studio. Caratteracci o no, suonare tiene in vita, e siccome gli Who, arrivano ovunque e abbattono pregiudizi e barriere temporali, la macchina va oliata e proposta, almeno a sprazzi.

Who” è l'omonimo dodicesimo album in studio, ed è stato pubblicato il 6 dicembre 2019.
Rilevo la chiosa di Daltrey che esagera ma non convince: “Penso che abbiamo fatto il nostro miglior album da “Quadrophenia” nel 1973, Pete è tuttora un cantautore favoloso, ancora all’avanguardia”.
Io ci andrei cauto, ma questa autoreferenzialità d’autore appare come un buon atto pubblicitario, soprattutto per i fan sparsi nel mondo, che di questi tempi preferiscono prendere ciò che viene, piuttosto che criticare.

Anche in questo caso ho trovato brani decisamente fatti per me, capaci di sollecitare la memoria e di regalarmi le dinamiche che cerco in determinati artisti, e credo che alla fine “Who” possa essere considerato un buon album rock, godibile in molti episodi.
Townshend e Daltrey sono accompagnati nelle registrazioni dai soliti compagni di viaggio (Simon Townshend alla chitarra e compositore, il bassista Pino Palladino e Zak Starkey alla batteria) e da una lunga serie di collaboratori che segnalo a fine articolo, per soddisfare la curiosità di chi ama i dettagli.

Il progetto è carico di energia, per nulla votato all’elemento nostalgico. La voce di Roger, spesso fonte di problemi negli ultimi anni, regge ancora in studio, con gli ovvi accorgimenti del caso, anche se è lontana la tipicità e la continuità a cui eravamo abituati, ma non ci si può opporre alla natura e al passare del tempo! Gli anni sono tanti, per lui e per il compagno di una vita, Pete Townshend, che dimostra la solita incisività chitarristica e un acume compositivo non comune.

Tra le tracce segnalo l’iniziale “All This Music Must Fade”, che a dispetto dell’incipit - “Non mi interessa, so che odierai questa canzone" -, riporta ai fasti degli Who dei primi seventies.
Pubblicata come singolo il 3 ottobre 2019:


"Detour" ripercorre i primi giorni della band, quando il nome era “The Detours”, un flashback che colpisce nel segno.
"I Don't Want to Get Wise" è un pezzo orecchiabile che riporta al passato, tra orgoglio e rammarico. Pubblicata su Spotify e iTunes nel novembre 2019.
"Hero Ground zero" vede Daltrey in piedi su di una montagna del Lake District mentre osserva il futuro che si sta delineando davanti, anche se i versi criptici di Townshend rendono poco chiaro ciò che viene predetto. Ascolto gradevole e semplice.
Le osservazioni sull'invecchiamento - a cui ci ha abituato Townshend sin dai tempi di “My Generation” - sono a tratti toccanti ("Devo accettare il fatto che potrei finalmente morire", canta Townshend in "I'll Be Back") e banali ("La vita è incredibile ma è stata una strada accidentata").
"Non credo di essermi mai sentito così sul margine", annuncia Daltrey in “Rockin' in Rage”.
Ball and Chain”, pubblicato come primo singolo il 13 settembre 2019, è una ri-registrazione di una canzone solista di Pete Townshend intitolata "Guantanamo", che era stata pubblicata nella sua compilation del 2015, “Truancy: The Very Best of Pete Townshend”.


L’artwork è dell'artista pop Peter Blake, già collaboratore con la band per "Face Dances nel 1981, famoso soprattutto per la copertina di “Sgt. Pepper's…”; si tratta di un mosaico di 25 quadrati: 22 mostrano diverse immagini colorate posizionate intorno a tre quadrati che formano la parola "WHO" al centro della copertina dell'album. Le 22 piazze raffigurano alcune delle influenze e dei simboli della band, della loro carriera e cultura.
L’album è supportato dal “Move On! Tour”, che si prolungherà sino a metà 2020, tra Inghilterra e America.
Giudizio complessivo positivo, al netto di una forza fisica calante, of course, a cui si contrappongono però idee che mantengono un buon livello, e l’ascolto privo di pregiudizi potrà dare buone soddisfazioni.



Gli Who sono trasversali, in alcuni casi fanno parte del tessuto culturale di un territorio, e non solo in patria. Un motivo ci sarà se questi vecchietti terribili - che a 20 anni o poco più cantavano “Voglio morire prima di invecchiare” - riescono ancora a deliziarci e a farci sognare!

Track listing

Tutte le canzoni sono state scritte dal solo Pete Townshend eccetto quelle segnalate in modo diverso.

1.         "All This Music Must Fade" 3:20
2.         "Ball and Chain"       4:29
3.         "I Don't Wanna Get Wise"  3:54
4.         "Detour"        3:46
5.         "Beads on One String" (Pete Townshend and Josh Hunsaker)      3:40
6.         "Hero Ground Zero"            4:52
7.         "Street Song"            4:47
8.         "I'll Be Back"  5:01
9.         "Break the News" (Simon Townshend)   4:30
10.      "Rockin' in Rage"      4:04
11.      "She Rocked My World"     3:22

Deluxe edition bonus tracks
No.      Title    Length
12.      "This Gun Will Misfire"       3:36
13.      "Got Nothing to Prove"      3:38
14.      "Danny and My Ponies"      4:02
15.      "Sand" (Demo, solo per il Giappone)

The Who
Pete Townshend: chitarra, cori, voce solista (tracks 8, 12–14), armonica, percussioni, sintetizzatore, violino, violoncellocello, hurdy-gurdy, effetto orchestrali (6)
Roger Daltrey: voce solista (eccetto 8, 12–14)

Altri musicisti
Carla Azar – batteria (3, 10)
Matt Chamberlain – batteria (6)
Gordon Giltrap – chitarra acustica (11)
Pino Palladino – basso (1, 2, 4-8, 11)
Gus Seyffert – basso (3, 9, 10)
Zak Starkey – batteria (1, 2, 4, 7)
Benmont Tench – tastiera (1, 3, 10)
Joey Waronker – batteria (5, 8, 11)

venerdì 10 gennaio 2020

La musica di Chris Boardman

 

Alcuni giorni fa, a fine serata, mi sono imbattuto in un movie che aveva come protagonista Mel Gibson. Lo avevo già visto, mi piacciono i film di azione e Gibson è un bravo attore che istintivamente mi ispira simpatia.
Non sapevo come, ma c’era di mezzo la musica… ricordavo l’abbinamento di quelle immagini a qualcosa di piacevole: questi aspetti non mi sfuggono mai.

Si trattava di…
"Payback - La rivincita di Porter (Payback), un film del 1999, diretto da Brian Helgeland e interpretato da Mel Gibson e Maria Bello. Si può considerare un remake del film Senza un attimo di tregua (Point Blank) di John Boorman, del 1967, essendo entrambi basati sul romanzo "Anonima Carogne", di Donald E. Westlake". "Wikipedia".


Il brano è arrivato immediatamente, essendo il fulcro della colonna sonora.
Un’atmosfera da “007”, ma con l’inserimento di un sax che incrementava la tensione delle scene, lo stesso stato d’animo che è tipico di tracce della produzione di David Jackson.


Ma chi ha scritto la musica di Payback? Chris Boardman.
Vado alla ricerca di notizie si di lui e trovo un curriculum impressionante e una candidatura all’Oscar.
Cerco su Facebook, lo trovo e gli mando un messaggio, alla ricerca di qualche domanda.
Passa un’ora e mi risponde…
Sure. But will have to wait till the weekend. Let’s figure out a time? Send me any info about the publications you write for”.
Mi chiede di aspettare il fine settimana? Incredibile!
Rispondo e… tutto finisce lì… abituato a Hollywood la mia intrusione aveva poco senso, ma resta la sorpresa per la gentilezza e la semplicità usata da una star nei confronti di uno sconosciuto.
E la sua musica è grandiosa!

http://www.chrisboardmanmusic.com/
www.chrisboardmanmusicblog.blogspot.com
http://www.movieplayer.it/personaggi/chris-boardman_39716/filmografia/





mercoledì 8 gennaio 2020

Bernard and Pörsti” - “Gulliver”


I due terzi dei The Samurai Of Prog propongono “Gulliver”, un concept album dedicato ai viaggi che hanno reso famoso il protagonista del romanzo di Jonathan Swift.
La sezione presente è quella composta dal finlandese Kimmo Pörsti (batteria e percussioni) e dall’Italiano Marco Bernard (basso Rickenbacker 4003), quest’ultimo anima organizzativa.
La denominazione corretta del progetto, in uscita a metà gennaio, è la seguente:

Bernard and Pörsti - “Gulliver”

In fase di preascolto ho sintetizzato il progetto come spin-off dell’originale, una strada parallela a quella dei TSOP, che sono già al lavoro su un nuovo album incentrato sulle storie di Narnia.
Difficile trovare un centro di proposizione musicale così prolifico, vario ed efficiente!

Per chi come me segue con costanza la loro idea di musica, “Gulliver” non rappresenta una sorpresa, ma la conferma che siamo di fronte a chi, almeno in studio, riesce a presentare il miglior volto possibile del prog tradizionale, fatto di commistione tra classicità e rock e apertura totale alle contaminazioni.
È sorprendente come tutto questo avvenga con il coinvolgimento trasversale di musicisti che mutano di volta in volta, da disco a disco, anche se esistono ormai collaboratori che garantiscono apporto costante.

Come anticipato, “Samurai” mozzati, ma non fa mancare il suo apporto - vocale e violinistico - Steve Unruh, americano, terza costola del progetto originale.

La caratteristica principale di “Gulliver” riguarda la fase compositiva, interamente affidata a  musicisti italiani: Andrea Pavoni, Oliviero Lacagnina, Mimmo Ferri, Alessandro Di Benedetti, Luca Scherani e Alessandro Lamuraglia.

L’album è composto da sei lunghi brani che si dipanano su oltre un’ora di musica.
Per ogni traccia mi pare interessante proporre i dettagli della composizione/partecipazione, tenendo conto che resta immutata la sezione ritmica formata da Pörsti e Bernard.



Si inizia con “Overture XI” (7:40), creato da Andrea Pavoni.
Pezzo strumentale che vede il compositore impegnato alle tastiere, con i significativi interventi alla chitarra di Kari Riihimäki e quelli di Marek Arnold al sax.
Una base classicheggiante su cui si innesta una melodia dettata dall’elettrica di Riihimäki, una precisa idea di inizio del viaggio.

A seguire una lunga suite (17:45) denominata “Lilliput Suite (Parte I - Lilliput)”, così suddivisa:

1.      The Voyage of the "Antelope"; 2. Prisoner; 3. Inside the Emperor's Palace; 4. Peculiar Traditions; 5. The Theft of the Blefuscudian Fleet; 6. The Departure.

La mano questa volta è di Oliviero Lacagnina, con i testi di Aldo Cirri.
Lunga la lista degli strumentisti: lo stesso Lacagnina alle tastiere, Ruben Álvarez all’elettrica, Rafael Pacha alle chitarre (elettrica e acustica), Marc Papeghin al corno francese e alla tromba, Olli Jaakkola al flauto, Tsuboy Akihisa al violino e Marco Vincini alla voce.
Ed è proprio Vicini l’elemento che fa da collante tra i vari tratti, caratterizzando con il suo tono vocale la perla creata da Lacagnina. Profumo di Genesis, of course, per una suite che nulla ha da invidiare a quelle famose del passato in ambito prog, e che potrebbe rappresentare elemento didattico.

The Giants (8:40) è un altro strumentale e porta la firma di Mimmo Ferri.
Si segnala la presenza di Marek Arnold al sax, Carmine Capasso alla chitarra acustica ed elettrica, e dello stesso Mimmo Ferri al pianoforte.
Atmosfere trionfali e creazioni di immagini che dilatano le forme, come suggerisce l’unione tra titolo e sonorità.
Il gioco tra piano ed elettrica fa da linea guida al percorso.

The Land of the Fools” (14.25) è disegnata in toto (musica e liriche) da Alessandro Di Benedetti.
Chitarre divise tra Federico Tetti e Massimo Sposaro, con l’intervento tastieristico dell’autore e lo spunto vocale di Daniel Fäldt - di stampo rock metal - in una traccia che presenta cambiamenti di ritmo e di situazioni sonore.

Gulliver’s Fourth Travel” (10:15) vede la mano - musica e lirica - di Luca Scherani, naturalmente presente come tastierista.
È questo il brano in cui avviene la reunion dei TSOP, con la partecipazione di Steve Unruh al violino e alla voce.
E sono proprio i suoi duetti vocali con Stefano “Lupo” Galifi - in inglese e italiano - che lasciano il segno, tocchi di classe che trovano la perfezione nell’alternanza dei colori che ogni voce è in grado di fornire.
Alle chitarre un’altra musicista italiana, già presente in altri progetti dei TSOP, Marcella Arganese alle chitarre.

In chiusura troviamo la traccia più breve (3:00), dal titolo “Finale”, altro strumentale composto da Alessandro Lamuraglia, presente alle tastiere, ancora con Carmine Capasso alle chitarre, un iter gioioso in crescendo che chiude perfettamente l’idea di viaggio, accomunato da sempre al nome di “Gulliver”.

Come già sottolineato il tutto avviene sotto la direzione dei due pilastri, Kimmo Pörsti e Marco Bernard, presenti in ogni registrazione, spina dorsale strumentale ma anche artefici di un progetto che si associa ai tanti incredibili album che i Samurai propongono con buona frequenza.

L’artwork è come al solito del grande Ed Unitsky, capace di inventare vere opere d’arte contemporanee dal sapore antico, ma posso solo intuire ciò che è stato è realizzato nell’occasione osservando l’immagine della cover del disco e i frammenti che scorrono sul video a seguire, elementi che appaiono sufficienti per emettere giudizio positivo.

Che dire… un bell’inizio di anno per chi ama la musica progressiva DOC!


Per prenotazioni e acquisto seguire le indicazioni sul sito:





martedì 7 gennaio 2020

Incontro con Gabriele Maria Ferrante


Sembrerebbe eccessivo parlare di biografia quando il percorso da delineare è quello di un ventenne, ma a giudicare da quanto emerge a seguire vale la pena soffermarsi su una strada iniziata da poco, ma già ricca di esperienze e di indicazioni per un mondo giovanile che difficilmente prende in considerazione la musica colta.

Il contesto fa la differenza, e non è usuale che un adolescente, quasi sempre attratto istintivamente da ciò che viene imposto dai media, possa pensare di avvicinarsi ad un violino, ad un’arpa, ad una mandola, strumenti lontani dalla concezione di modernità, almeno per chi - e sono la maggioranza - sente il forte e fuorviante impulso che porta all’identificazione a tutti i costi col gruppo.

E poi esiste chi vive in ambito domestico una situazione che favorisce l’apertura mentale e la conseguente capacità di scelta, perché ciò che normalmente spaventa è ciò che non si conosce, e a volte un piccolo spiraglio diventa il preludio ad una apertura totale.
Gabriele Maria Ferrante rientra nella categoria di quei giovani che inseguono un sogno, in questo caso nato in tenera età, legato al profumo musicale sparso con sapienza e naturalezza da genitori, entrambi musicisti.

Ciò che voleva e che vuole è suonare il violoncello, colpito da un evento particolare che ha aperto un sentiero che mano a mano si è allargata.

Ho chiacchierato con lui, nella speranza che il suo pensiero possa rappresentare un esempio positivo per tanti ragazzi. A conclusione propongo un video che riporta stralci di sue recenti performance.

L’intervista…

Ho letto la tua completa biografia, ma vorrei che sintetizzassi la tua “storia musicale” per i lettori.

Sono stato a contatto con la musica sin dalla prima infanzia; i miei genitori sono entrambi musicisti e mi hanno cresciuto in un ambiente ricco di musica. Ho iniziato a studiare a circa 6 anni e sono entrato l’anno dopo in conservatorio. In questo periodo (che ha avuto tanti alti e bassi) ho vissuto alcune esperienze che col tempo hanno contribuito a plasmare la mia persona: ho partecipato a concorsi e fatto parte di diverse orchestre, così come ho seguito masterclass, suonato in tournée e così via, fino a completare gli studi di violoncello al conservatorio un paio d’anni fa. Da quel momento ho cominciato a puntare al perfezionamento e ad esibirmi in pubblico più spesso e in contesti che avrebbero rappresentato per me via via una sfida maggiore.

Facile ipotizzare da dove nasca la tua passione, ma vale la pena raccontare gli inizi, l’atmosfera che hai vissuto tra le mura domestiche!

Quello che ricordo è che la musica è sempre stata di casa e infatti questa passione, che è cresciuta nel tempo, è sempre stata coltivata. Ero incuriosito nel sentire i suoni degli archi dai CD o dal vedere un musicista suonare il proprio strumento durante i concerti che trasmettevano in TV, e ho anche adorato animazioni come i due Fantasia della Disney. Ero inoltre circondato da strumenti musicali sempre a mia disposizione. In realtà ci sarebbe un aneddoto: a due anni e mezzo, il giorno del mio onomastico, mio padre mi portò in un negozio di strumenti musicali per regalarmi un giocattolo sonoro e io vidi un violoncello, che volevo per forza! Costava troppo e fui accontentato con un violino due quarti: mi dissero che era un violoncello per bambini! L’inganno durò poco e io tornai all’attacco, ma il mio primo violoncello mi fu regalato per Natale poco prima che compissi 6 anni… È stato facile innamorarsi della musica!

Tra i tanti strumenti di cui avrai sentito il profumo sin da bambino, che cosa ti ha spinto verso lo studio del violoncello?

Non saprei rispondere con certezza, si parla di tanto tempo fa, ma ricordo perfettamente che mi colpì il video di un concerto che vidi con mio padre, nel quale Rostropovich suonava con l’orchestra. Ne rimasi incantato, ne adoravo la prorompenza ed in opposto il timbro vellutato, lo ricordo come primo vero evento che diede origine alla passione per questo strumento.

Che cosa hai realizzato ad oggi a livello concertistico?

Oltre che in varie città italiane ho suonato in Cina, in Russia e a Malta, sia da solista che in formazioni da camera e in orchestra. Ma sicuramente è stato particolarmente emozionante suonare al Musikverein di Vienna, un luogo nel quale si condivide una atmosfera di grande rilievo artistico.                                                                                                                                                                                                                                     
C’è spazio nella tua visione musicale per sonorità contemporanee?

In realtà sono abbastanza selettivo in merito a questo repertorio, ma certa musica di autori contemporanei mi piace davvero tanto: spero anche di poter eseguire alcuni miei brani non appena capiterà l’occasione. Se comunque dovessi indicare il mio “periodo musicale” preferito, direi tra il tardo Ottocento ed il primo Novecento.

Ti sei fatto un’idea della valenza della commistione tra musica classica, rock e affini, caratteristica della musica progressiva?

La trovo molto particolare, suggestiva, complessa ma non astrusa. In generale mi piace ascoltare tutto ciò che ha un gusto ricercato nelle sonorità, spaziando e mescolando qualsiasi genere. Il progressive è un ottimo terreno per questo genere di sperimentazioni, che non tradiscono comunque il mio gusto musicale, per cui mi piace!

Ho visto due video in cui ti esibisci da solo: è questa l’espressione che prediligi o trovi anche soddisfazione all’interno di un ensemble più complesso?

Più che da solo, prediligo suonare da solista. Mi piace essere consapevole di ogni mia nota e dare spazio alla mia personale interpretazione dei brani, essere padrone della musica che creo, cosa che diventa differente all’interno di formazioni più ampie. Oppure adoro far parte di formazioni da camera, nelle quali è possibile un dialogo stretto con gli strumenti, creare empatia, ascoltare la loro voce e rispondere “a tono”. Suonare in orchestra, invece, ha tutto un altro sapore: è un tipo di esperienza diversa che mi piace soprattutto per la sua valenza formativa.

Che cosa consiglieresti ad un giovanissimo che decidesse di seguire la complicata via che porta alla definizione/formazione del musicista “classico”?

Lo studio di uno strumento dà i propri frutti nel tempo, e si parla di anni. Certi risultati sembrano non arrivare mai, ma poi arrivano quando meno te lo aspetti; e i progressi non sempre sono subito tangibili. È un percorso nel quale la fiducia e la determinazione giocano un ruolo chiave, e bisogna sempre essere pronti a risollevarsi dai “fallimenti”, una lezione andata male, un errore in concerto, per fare degli esempi comuni. E poi ci vuole umiltà ma anche la giusta sicurezza, e una solida guida.

Che cosa insegna il rigore di una disciplina antica e nobile ad un ragazzo che, come è giusto che sia, è attratto anche dalla leggerezza che spesso accompagna i nostri tempi?

Come detto prima, i risultati appaiono dopo tempo. All’inizio può capitare di voler mollare, anche a me è capitato in passato, poiché nell’era della velocità avere qualcosa il prima possibile sembra essere più gradito che avere ciò che si desidera, ma dovendo dedicarci molto tempo in più. Il rigore quindi lo insegna per prima la passione, seguita poi dai risultati che lo supportano e lo alimentano. Ma attenzione, segregarsi in casa è anche un errore: come dice Rubinstein, è superfluo lavorare per essere artisti se poi non si conosce l’arte nella sua essenza. Bisogna vivere pienamente la propria vita, le esperienze tipiche della propria età, frequentare gli amici, viaggiare… per esprimere in musica il proprio vissuto.

Sogni e progetti per il futuro?

Il mio sogno è quello di perfezionarmi al fine di possedere una tecnica tale da poter suonare ciò che voglio ed esattamente come lo penso. Punto soprattutto al cercare e “marcare” il mio stile per esprimerlo in concerto, sperimentando col mio strumento, spaziando attraverso diversi generi e divertendomi nel farlo. Mi piacerebbe quindi studiare e suonare con i grandi interpreti che ogni giorno ascolto estasiato, conoscerli ed ascoltare le loro storie.