Ho ricordo indelebile del brano che propongo oggi.
Era la sigla di qualche trasmissione televisiva pomeridiana, a
inizio anni '70.
Forse il lamento dell'armonica... forse il link a qualche momento
buio dell'adolescenza, ma ancora oggi la canzone mi riempie di velata tristezza.
Ecco come è stata descritta:
C’è una canzone che si ascolta sempre per radio e che si fa
ascoltare anche molto volentieri. È un brano strumentale che dimostra che in
fondo ci vuole poco a fare un disco divertente e gradevole, a patto di avere
qualche idea e di farne buon uso. Il nome dell’autore di GROOVIN’ MITH MR. BLOE è
proprio Mr.Bloe, nome fittizio dietro il quale si nascondono gli Hookfoot, complesso che ha accompagnato Elton
John dal 1968 al 1970. Insieme agli Hookfoot ci sono l’arrangiatore e
pianista Zack Laurence e il vero Mr. Bloe, l’armonicista Harry Pitch, noto
musicista inglese. Il 45 giri, in men che non si dica, riesce a salire su in
alto nelle classifiche inglesi per poi catapultarsi in quelle europee
(specialmente in Olanda, Germania,Francia, Italia). Ritmica aggressiva e, come
strumento principe, un’armonica a bocca. Un disco che è stato ballatissimo in
tutte le discoteche durante l’estate e proprio per questa ragione ora ce lo
ritroviamo, a fine stagione, in classifica da noi. Non è facilissimo che un
disco strumentale arrivi di prepotenza in hit parade (il periodo clou sarà il
1974/1975) ed è ancora più raro che un disco con queste prerogative abbia un
successo pari ad altre interpretazioni eseguite da complessi o da noti cantanti
pop. Il requisito principale è la spontaneità e l’immediatezza del motivo e una
buona dose di professionalità.
Il 24 gennaio ho presentato alla Ubik di Savona
- grazie Stefano Milano! - un racconto che ho intitolato “Accadde a Buckhannon”, una storia che avevo
nel cassetto da tempo e non mi decidevo mai a pubblicare.
Il motivo della titubanza era legato al fatto che, seppur in
modo “nascosto” e impossibile da decodificare per chi non mi conosce, parla di
parte della mia vita, argomento che credo possa interessare solo ai miei
affetti e agli amici, per cui ho dato al tutto una dimensione “domestica” e sobria,
a partire dalla confezione modesta e dal contenuto limitato… volutamente
limitato. Anche la realizzazione pratica, questa volta, non è stata affidata a
nessun editore ma mi sono rivolto ad una tipografia che ha realizzato ciò che
desideravo.
Non ho fatto grande pubblicità in occasione della
presentazione, e ho informato direttamente soltanto le persone che mi avrebbe fatto piacere avere
attorno, alcune delle quali hanno fatto parte del mio "viaggio di vita", dai compagni di scuola a conoscenze più recenti ma significative.
Tra queste il mio amico Mauro Selis, che ha avuto il compito
di pormi le domande, come accaduto anche in passato.
Un’ora di quasi monologo dove mi sono messo un pò a nudo, e
ho elargito le mie… “perle di saggezza”, ovviamente opinabili, ma giunto in
questa fase dell’età credo di potermelo permettere!
Per lasciar traccia di questo incontro utilizzo i video di mia
moglie Maura, che ha ripreso una ventina di minuti della chiacchierata, e
qualche fotografia di Cristina Mantisi.
Cosa importante: il libro era un regalo per i presenti ma,
senza alcun obbligo, è stata chiesta una donazione libera e simbolica da
destinare a WeWorld Onlus.
La generosità dei presenti consentirà di fare gratificante opera di
beneficenza.
Pier Gonella realizza un sogno, quello di proporre un disco strumentale,
dove la protagonista assoluta è la sua chitarra. Intendiamoci, anche lui fa
parte di quella schiera di musicisti che vengono considerati un tutt’uno con lo
strumento che padroneggiano, quelli che appena li incontri ti guardi attorno
per vedere dove ha piazzato il suo prolungamento naturale, ma esistono
occasioni in cui certe tendenze emergono ancora di più.
L’album “Strategy”
ne è l’esempio, un contenitore dove è palese e dichiarato l’intento di “raccontarsi”
attraverso lo strumento della vita.
La storia di Gonella disegna un numero impressionante di
album, progetti e collaborazioni, e la sua versatilità - legata a consolidate
skills - è quella che gli permette di passare agevolmente dal rock più metallico
ad un contesto meramente acustico, come quello che ho potuto vivere con i miei
occhi poco prima di Natale quando, circondato da un ensemble “nobile”, è stato
tra i protagonisti assoluti del tributo a Greg Lake - a Palmanova -, tra la
musica degli ELPe quella di Paola
Tagliaferro.
“Strategy” è
disponibile da pochissimi giorni, ed è stato registrato e mixato presso i MusicartStudios di Rapallo - la sede di lavoro di Gonella - e vede la collaborazione di Musicart, Diamonds
Prod e Merlin Music Management.
Nove brani spalmati su trentotto minuti di musica che riporta
alla figura di Joe Satriani, per Pier un punto di riferimento sin dagli esordi.
Ma non basta, perché Gonella prova - e riesce - a creare un
prodotto lontano dalla nicchia, quella che contraddistingue la sua produzione
con Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, Odyssea, Athlantis; l’obiettivo
dichiarato è quello di realizzare “canzoni”, termine che riporta alla facilità
di comprensione e a sonorità adatte a tutti i palati. Per fare ciò mette in
campo un’arte solistica che utilizza il virtuosismo intrinseco per disegnare
delle melodie, delle trame sonore che possano essere comprese facilmente e
restare nella mente, insomma, non una azione tesa all’autoreferenzialità, ma
alla ricerca dell’incontro tra tecnica e facilità di comprensione, due aspetti
che non dovrebbero fare fatica a trovare un punto di incontro.
Un brano strumentale non contiene messaggi palesi. Un brano
strumentale dà la possibilità all’ascoltatore di interagire con l’autore, in
quanto lo stimolo sonoro può portare a viaggi/sogni/sensazioni del tutto
personali, e dettati da una reazione istintiva. Un brano strumentale è legato
ad un titolo che fornisce indicazioni sui pensieri del musicista, denominazione
che, a volte, nasce proprio a seguito della genesi della melodia.
“Strategy” è tutto questo, ed è fruibile i modi
differenti, e l’ascolto privo di condizionamenti può condurre alla creazione di
un rapporto osmotico con il ricettore virtuoso, quello cioè che prova a
liberare la mente lasciando fuori pregiudizi e alibi.
Dall’intervista a seguire realizzata con Pier Gonella si
ricavano elementi interessanti, e la proposizione dei due video ufficiali sino
ad oggi rilasciati permette di fornire sintesi al mio pensiero… questo è il
mondo di Pier Gonella… uno dei tanti!
La nostra chiacchierata...
L’intervista che ti feci nell’agosto del 2017, in occasione
dell’uscita di “Wine of Heaven", dei Mastercastle, terminava con una
domanda relativa al tuo futuro immediato, un po’ retorica, ma giustificata dai
tuoi tantissimi progetti musicali: che cosa è accaduto da allora ad oggi in
campo professionale?
Dal punto di vista discografico pochi mesi dopo l’album dei
Mastercastle è uscito “The Age of Dead Christ”, dei Necrodeath, seguito
l’anno dopo da “Refragments of Insanity”. Quindi l’album “Athlantis –
The Way to Rock ‘n Roll”. Nel 2019 come decennale dell’attività dei
Mastercastle è uscita la ristampa su vinile del primo album, “The Phoenix”,
seguita da un nuovo singolo, “Still in The Flesh”. Per il resto sono
stato e sono attivissimo sul palco con i Necrodeath e con gli impegni della mia
struttura MusicArt.
È appena uscito “Strategy”, il tuo primo album da solista:
che cosa ti ha mosso in questa direzione… autarchica?
L’idea di realizzare un album solista era sempre nell’aria, un
po’ per “coronare” la mia passione per la musica strumentale, un po’ spinto
anche da Marco Pesenti e da Giulio Belzer, che poi sono diventati il batterista
e il bassista del progetto.
Trattasi quindi di lavoro strumentale: che cosa hai voluto
cristallizzare all’interno del disco?
In realtà la musica strumentale chitarristica è sempre stata
una mia grande passione. Nel corso degli anni avevo già inserito qualche brano
strumentale all’interno dei sei album dei Mastercastle, ma sempre legati al
genere neoclassico. In questo disco ho voluto concentrare quell’hard rock
americano strumentale stile Joe Satriani che è stato folgorante per il mio
percorso musicale. È stato anche un modo di presentare un lavoro diverso da
tutte le mie altre uscite.
La tua immagine è legata d’impatto al genere metal, ma anche
ad un certo tecnicismo chitarristico: cosa ci si deve aspettare, funambolismo
estremo o canzoni alla portata di tutti?
“Strategy” non è per nulla un disco tecnico o “dimostrativo”.
Il termine “strumentale” giustamente crea un forte “pregiudizio”, ma si tratta
di un disco di “canzoni”, dove al primo posto c’è solo la melodia. La scommessa è stata proprio cercare di raggiungere
i non musicisti creando delle melodie cantabili di forte impatto. Anche tra i
più grandi, solo in pochi ci sono riusciti, e segnalo l’album “The Extremist di
Joe Satriani”, che non mi vergogno mai di citare come grande fonte di
ispirazione.
Un progetto strumentale non può appoggiarsi sulle liriche per
la diffusione dei messaggi dell’autore: che cosa vuoi “raccontare” con
“Strategy”? Aiutano in quest’opera di comprensione i titoli dei brani?
Per me i titoli hanno sempre la loro funzione. Li ho scelti
man mano in base alle sensazioni o ai ricordi che mi sollecitavano le musiche.
Non essendoci i testi chiaramente ognuno può interpretarli a modo suo, in
maniera magari completamente diversa dalla mia, ed è una cosa divertente. Per
citarne qualcuno, “The Pied Piped”, ovvero il “Pifferaio pezzato”, è il titolo
di un vecchissimo cartone animato sullo stile del “Pifferaio magico”, ma più a
fondo l’andamento malinconico del brano è dedicato a tutti i musicisti che, pur
di mettere la loro musica al primo posto, sono disposti a rinunciare a
tantissime cose della loro vita. Oppure “Devil at God’s Pub”, dove immagino in
maniera goliardica Dio e Lucifero che si raccontano le loro “paure” al bar
davanti a una birra, ma allo stesso tempo tutte le situazioni paradossali
dietro ad un’autorità, come ad esempio due avvocati che si “scannano” in aula
di tribunale difendendo parti avversarie, e finita l’udienza tornano ad essere
amici strettissimi e così via…
Chi ti ha accompagnato nel tuo viaggio realizzativo, sia dal
punto di vista progettuale che da quello delle collaborazioni strumentali?
Alla batteria sono affiancato da Marco Pesenti, conosciuto
naturalmente come fondatore dei Necrodeath, ma qui in veste completamente
diversa, e al basso da Giulio Belzer, con cui collaboro nelle attività Musicart
da tanti anni. Oltre che musicisti di classe A sono sempre stati seri promotori
del progetto da “dietro le quinte”, nonché in prima fila per l’aiuto negli
arrangiamenti dei brani. A questo va unita l’attività comune di insegnamento
che ci vede tutti e tre nella stessa struttura facilitando la gestione pratica
delle registrazioni.
Come sarà distribuito il disco? In quali formati e come sarà
possibile ascoltarlo/acquistarlo?
Il disco è disponibile in formato Digipack fisico tramite
Diamonds Prod, e naturalmente in formato digitale in tutti i maggiori portali.
Lascio qualche link a disposizione per chi fosse interessato:
Hai pensato a momenti di presentazione o a concerti dedicati?
Grazie all’esperienza e al lavoro di Peso e di Merlin Music
Management ci saranno 6 date di presentazione del progetto:
21 febbraio 2020 Scandicci – FI- Circus
22 febbraio Roma – Defrag
20 marzo Santa Margherita Lig – GE
21 marzo Torino – Padiglione 14
24 aprile Mornago –VA- Madhouse
25 aprile Genova – Liggia
L’ultima immagine che ho di Pier Gonella è recente, Palmanova,
Tributo a Greg Lake, una dimensione acustica, lontana dall’immagine del
chitarrista “metallico”: qual è il ruolo in cui ti riconosci di più nel 2020?
Sì, grazie a Paola Tagliaferro ed alla “Compagnia dell’Es” ho
avuto piu’ di una volta la possibilità di suonare in occasione di eventi in ricordo
del Greg Lake. Abbiamo suonato oltre ai brani del suo album “Fabulae”, alcune
cover delle piu’ note ballate di Greg, per cui tutte in versione rigorosamente acustica.
È una dimensione diversa da quelle per cui sono piu’ conosciuto, ma che
comunque mi appartiene. In qualunque situazione musicale mi trovi cerco sempre
di fondere e adattare la mia personalità con quella del progetto in modo da
cercare di valorizzarlo.
Ritorniamo alla domanda retorica: e ora che cosa accadrà?
Per ora mi godo i
buoni feedback di “Strategy”. Per il resto nell’imminente c’è l’uscita del
nuovo album “Athlantis 02.02.2020”, e per aprile una nuova uscita Necrodeath
che sarà accompagnata da numerosi concerti. In parallelo mi sto appassionando
molto anche alla music distribuita in “digitale” realizzando “backing Tracks” e
altri “tools” per musicisti che via via pubblico nel mio canale Youtube www.youtube.com\MusicArtTube.
Anche questa è un’altra dimensione che spesso
noi musicisti, annebbiati dal dover “postare” sui nostri social, non riusciamo
a comprendere. Invece è un nuovo mondo da esplorare…
Commentare un album dei The
Who - ma direi la loro produzione in generale - può allontanarmi
dall’obiettività, una condizione complicata da raggiungere quando si tratta di
sonorità che mi accompagnano sin dalla tenera età (ascoltai “Substitute”
a soli otto anni!). La realtà è che il loro rock classico è quello che preferisco
tra i tanti, e credo che la genialità di Pete Townshend abbia pesantemente
inciso sugli ultimi 55 anni della storia della musica.
Mi era capitato anche con “Endless
Wire”, nel 2006, album di inediti arrivato dopo un lungo vuoto discografico,
criticato dai più. Io lo ascolto ancor oggi con discreta frequenza, perché
contiene le linee guida di quello che è, secondo me, il modello “WHO”.
Da circa un anno era noto come
la band inglese stesse lavorando ad un album di materiale originale, brani
scritti e pensati per le attuali possibilità vocali di Roger Daltrey.
Registrazioni fatte in studi separati, aiutati dalla tecnologia e spinte da
relazioni personali che, a dispetto di alcune gioiose esternazioni da parte dei
protagonisti, sono sempre state improntate ad una certa conflittualità, ed è di
questi giorni un’inedita e poco elegante asserzione di Pete rivolta anche ai
due pezzi mancanti, dichiarazioni che hanno visto una repentina retromarcia, ma
che lasciano qualche dubbio sui metodi comunicativi adottati, e/o sull’attuale
stato d’animo del chitarrista.
Prima Keith Moon e poi John John Entwistle hanno lasciato la
band - obtorto collo -, ma Pete e Roger hanno tenuto in vita nome e musica con una
moderata e controllata esposizione live e pochissime novità in studio.
Caratteracci o no, suonare tiene in vita, e siccome gli Who, arrivano ovunque e
abbattono pregiudizi e barriere temporali, la macchina va oliata e proposta,
almeno a sprazzi.
“Who” è l'omonimo dodicesimo album in studio, ed è
stato pubblicato il 6 dicembre 2019.
Rilevo la chiosa di Daltrey che esagera ma non convince: “Penso
che abbiamo fatto il nostro miglior album da “Quadrophenia” nel 1973, Pete è
tuttora un cantautore favoloso, ancora all’avanguardia”.
Io ci andrei cauto, ma questa autoreferenzialità d’autore
appare come un buon atto pubblicitario, soprattutto per i fan sparsi nel mondo,
che di questi tempi preferiscono prendere ciò che viene, piuttosto che
criticare.
Anche in questo caso ho trovato brani decisamente fatti per
me, capaci di sollecitare la memoria e di regalarmi le dinamiche che cerco in
determinati artisti, e credo che alla fine “Who” possa essere considerato
un buon album rock, godibile in molti episodi.
Townshend e Daltrey sono accompagnati nelle registrazioni dai
soliti compagni di viaggio (Simon Townshend alla chitarra e compositore, il
bassista Pino Palladino e Zak Starkey alla batteria) e da una lunga serie di
collaboratori che segnalo a fine articolo, per soddisfare la curiosità di chi ama
i dettagli.
Il progetto è carico di energia, per nulla votato
all’elemento nostalgico. La voce di Roger, spesso fonte di problemi negli
ultimi anni, regge ancora in studio, con gli ovvi accorgimenti del caso, anche
se è lontana la tipicità e la continuità a cui eravamo abituati, ma non ci si
può opporre alla natura e al passare del tempo! Gli anni sono tanti, per lui e
per il compagno di una vita, Pete Townshend, che dimostra la solita incisività
chitarristica e un acume compositivo non comune.
Tra le tracce segnalo
l’iniziale “All This Music Must Fade”, che a dispetto dell’incipit - “Non
mi interessa, so che odierai questa canzone" -, riporta ai fasti degli
Who dei primi seventies.
Pubblicata come
singolo il 3 ottobre 2019:
"Detour" ripercorre i primi giorni della
band, quando il nome era “The Detours”, un flashback che colpisce nel segno.
"I Don't Want to Get Wise" è un pezzo
orecchiabile che riporta al passato, tra orgoglio e rammarico. Pubblicata su
Spotify e iTunes nel novembre 2019.
"Hero Ground zero" vede Daltrey in piedi su
di una montagna del Lake District mentre osserva il futuro che si sta delineando
davanti, anche se i versi criptici di Townshend rendono poco chiaro ciò che
viene predetto. Ascolto gradevole e semplice.
Le osservazioni sull'invecchiamento - a cui ci ha abituato
Townshend sin dai tempi di “My Generation” - sono a tratti toccanti
("Devo accettare il fatto che potrei finalmente morire", canta
Townshend in "I'll Be Back") e banali ("La vita è
incredibile ma è stata una strada accidentata").
"Non credo di essermi mai sentito così sul margine",
annuncia Daltrey in “Rockin' in Rage”.
“Ball and Chain”, pubblicato come primo singolo il 13
settembre 2019, è una ri-registrazione di una canzone solista di Pete Townshend
intitolata "Guantanamo", che era stata pubblicata nella sua
compilation del 2015, “Truancy: The Very Best of Pete Townshend”.
L’artwork è dell'artista pop Peter Blake, già collaboratore
con la band per "Face Dances nel 1981, famoso soprattutto per
la copertina di “Sgt. Pepper's…”; si tratta di un mosaico di 25
quadrati: 22 mostrano diverse immagini colorate posizionate intorno a tre
quadrati che formano la parola "WHO" al centro della copertina
dell'album. Le 22 piazze raffigurano alcune delle influenze e dei simboli della
band, della loro carriera e cultura.
L’album è supportato dal “Move On! Tour”,
che si prolungherà sino a metà 2020, tra Inghilterra e America.
Giudizio complessivo positivo,
al netto di una forza fisica calante, of course, a cui si contrappongono però idee
che mantengono un buon livello, e l’ascolto privo di pregiudizi potrà dare
buone soddisfazioni.
Gli Who sono trasversali, in
alcuni casi fanno parte del tessuto culturale di un territorio, e non solo in
patria. Un motivo ci sarà se questi vecchietti terribili - che a 20 anni o poco
più cantavano “Voglio morire prima di invecchiare” - riescono ancora a
deliziarci e a farci sognare!
Track
listing
Tutte le
canzoni sono state scritte dal solo Pete Townshend eccetto quelle segnalate in
modo diverso.
1."All
This Music Must Fade"3:20
2."Ball
and Chain"4:29
3."I
Don't Wanna Get Wise"3:54
4."Detour"3:46
5."Beads
on One String" (Pete Townshend and Josh Hunsaker)3:40
Alcuni giorni fa, a fine serata, mi sono imbattuto in un movie che aveva
come protagonista Mel Gibson. Lo avevo già visto, mi piacciono i film di azione e Gibson è un bravo
attore che istintivamente mi ispira simpatia.
Non sapevo come, ma c’era di mezzo la musica… ricordavo l’abbinamento di
quelle immagini a qualcosa di piacevole: questi aspetti non mi sfuggono mai.
Si trattava di…
"Payback
- La rivincita di Porter(Payback), un film
del 1999, diretto da Brian Helgelandeinterpretato daMel Gibsone Maria Bello. Si può considerare un
remake del filmSenza un
attimo di tregua (Point
Blank) di John Boorman,del 1967, essendo entrambi basati
sul romanzo "Anonima Carogne", diDonald E. Westlake". "Wikipedia".
Il brano è
arrivato immediatamente, essendo il fulcro della colonna sonora.
Un’atmosfera da “007”,
ma con l’inserimento di un sax che incrementava la tensione delle scene, lo
stesso stato d’animo che è tipico di tracce della produzione di David Jackson.
Vado alla ricerca di notizie si di lui e trovo un curriculum impressionante
e una candidatura all’Oscar.
Cerco su Facebook, lo trovo e gli mando un messaggio, alla ricerca di
qualche domanda.
Passa un’ora e mi risponde…
“Sure. But will have to wait till the weekend. Let’s figure out a
time? Send me any info about the publications you write for”. Mi chiede di aspettare
il fine settimana? Incredibile! Rispondo e… tutto
finisce lì… abituato a Hollywood la mia intrusione aveva poco senso, ma resta
la sorpresa per la gentilezza e la semplicità usata da una star nei confronti
di uno sconosciuto. E la sua musica è
grandiosa!
I due terzi dei The Samurai Of Prog
propongono “Gulliver”,un concept album dedicato ai viaggi che hanno reso
famoso il protagonista del romanzo di Jonathan Swift.
La sezione presente è quella composta
dal finlandese Kimmo Pörsti(batteria e percussioni) e dall’Italiano Marco Bernard(basso
Rickenbacker 4003), quest’ultimo anima organizzativa.
La denominazione corretta del progetto, in uscita
a metà gennaio, è la seguente:
Bernard and Pörsti - “Gulliver”
In fase di preascolto ho sintetizzato
il progetto come spin-off dell’originale, una strada parallela a
quella dei TSOP, che sono già al lavoro su un nuovo album incentrato sulle storie
di Narnia.
Difficile trovare un centro di
proposizione musicale così prolifico, vario ed efficiente!
Per chi come me segue con costanza la
loro idea di musica, “Gulliver” non rappresenta una sorpresa, ma la conferma
che siamo di fronte a chi, almeno in studio, riesce a presentare il miglior
volto possibile del prog tradizionale, fatto di commistione tra classicità e
rock e apertura totale alle contaminazioni.
È sorprendente come tutto questo
avvenga con il coinvolgimento trasversale di musicisti che mutano di volta in
volta, da disco a disco, anche se esistono ormai collaboratori che garantiscono
apporto costante.
Come anticipato, “Samurai” mozzati, ma
non fa mancare il suo apporto - vocale e violinistico - Steve Unruh,
americano, terza costola del progetto originale.
La caratteristica principale di “Gulliver”
riguarda la fase compositiva, interamente affidata a musicisti
italiani: Andrea Pavoni, Oliviero Lacagnina, Mimmo Ferri, Alessandro
Di Benedetti, Luca Scherani e Alessandro Lamuraglia.
L’album è composto da sei lunghi brani
che si dipanano su oltre un’ora di musica.
Per ogni traccia mi pare interessante proporre
i dettagli della composizione/partecipazione, tenendo conto che resta immutata
la sezione ritmica formata da Pörsti e Bernard.
Si inizia con “Overture XI” (7:40),
creato da Andrea Pavoni.
Pezzo strumentale che vede il
compositore impegnato alle tastiere, con i significativi interventi alla
chitarra di Kari Riihimäki e quelli di Marek Arnold al sax.
Una base classicheggiante su cui si
innesta una melodia dettata dall’elettrica di Riihimäki, una precisa idea di
inizio del viaggio.
A seguire una lunga suite (17:45)
denominata “Lilliput Suite (Parte I - Lilliput)”, così suddivisa:
1.The Voyage of the "Antelope"; 2. Prisoner; 3.
Inside the Emperor's Palace; 4. Peculiar Traditions; 5. The Theft of the
Blefuscudian Fleet; 6. The Departure.
La mano questa volta è di Oliviero
Lacagnina, con i testi di Aldo Cirri.
Lunga la lista degli strumentisti: lo
stesso Lacagnina alle tastiere,Ruben
Álvarez all’elettrica, Rafael Pacha alle chitarre (elettrica e acustica),Marc Papeghin al corno francese e alla tromba,Olli Jaakkola al flauto, Tsuboy Akihisa al
violino e Marco Vincini alla voce.
Ed è proprio Vicini l’elemento che fa
da collante tra i vari tratti, caratterizzando con il suo tono vocale la perla
creata da Lacagnina. Profumo di Genesis, of course, per una suite che nulla ha
da invidiare a quelle famose del passato in ambito prog, e che potrebbe
rappresentare elemento didattico.
“The Giants” (8:40) è un altro
strumentale e porta la firma di Mimmo Ferri.
Si segnala la presenza di Marek Arnold
al sax, Carmine Capasso alla chitarra acustica ed elettrica, e dello stesso
Mimmo Ferri al pianoforte.
Atmosfere trionfali e creazioni di
immagini che dilatano le forme, come suggerisce l’unione tra titolo e sonorità.
Il gioco tra piano ed elettrica fa da
linea guida al percorso.
“The Land of the Fools” (14.25)
è disegnata in toto (musica e liriche) da Alessandro Di Benedetti.
Chitarre divise tra Federico Tetti e Massimo
Sposaro, con l’intervento tastieristico dell’autore e lo spunto vocale di Daniel
Fäldt - di stampo rock metal - in una traccia che presenta cambiamenti di ritmo
e di situazioni sonore.
“Gulliver’s Fourth Travel” (10:15)
vede la mano - musica e lirica - di Luca Scherani, naturalmente presente come
tastierista.
È questo il brano in cui avviene la
reunion dei TSOP, con la partecipazione di Steve Unruh al violino e alla voce.
E sono proprio i suoi duetti vocali
con Stefano “Lupo” Galifi - in inglese e italiano - che lasciano il segno, tocchi
di classe che trovano la perfezione nell’alternanza dei colori che ogni voce è
in grado di fornire.
Alle chitarre un’altra musicista
italiana, già presente in altri progetti dei TSOP, Marcella Arganese alle
chitarre.
In chiusura troviamo la traccia più breve
(3:00), dal titolo “Finale”, altro strumentale composto da Alessandro
Lamuraglia, presente alle tastiere, ancora con Carmine Capasso alle chitarre, un iter gioioso
in crescendo che chiude perfettamente l’idea di viaggio, accomunato da sempre
al nome di “Gulliver”.
Come già sottolineato il tutto avviene
sotto la direzione dei due pilastri, Kimmo Pörsti e Marco Bernard, presenti in
ogni registrazione, spina dorsale strumentale ma anche artefici di un progetto che si
associa ai tanti incredibili album che i Samurai propongono con buona
frequenza.
L’artwork è come al solito del grande Ed
Unitsky, capace di inventare vere opere d’arte contemporanee dal sapore antico, ma posso solo intuire ciò
che è stato è realizzato nell’occasione
osservando l’immagine della cover del disco e i frammenti che scorrono sul
video a seguire, elementi che appaiono sufficienti per emettere giudizio
positivo.
Che dire… un bell’inizio di anno per chi
ama la musica progressiva DOC!
Per prenotazioni
e acquisto seguire le indicazioni sul sito:
Sembrerebbe eccessivo parlare di biografia quando il percorso
da delineare è quello di un ventenne, ma a giudicare da quanto emerge a seguire
vale la pena soffermarsi su una strada iniziata da poco, ma già ricca di
esperienze e di indicazioni per un mondo giovanile che difficilmente prende in
considerazione la musica colta.
Il contesto fa la differenza, e non è usuale che un adolescente, quasi sempre attratto istintivamente da ciò che viene imposto dai media, possa pensare di
avvicinarsi ad un violino, ad un’arpa, ad una mandola, strumenti lontani dalla concezione
di modernità, almeno per chi - e sono la maggioranza - sente il forte e
fuorviante impulso che porta all’identificazione a tutti i costi col gruppo.
E poi esiste chi vive in ambito domestico una situazione che
favorisce l’apertura mentale e la conseguente capacità di scelta, perché ciò
che normalmente spaventa è ciò che non si conosce, e a volte un piccolo spiraglio
diventa il preludio ad una apertura totale.
Gabriele Maria Ferranterientra nella categoria di quei
giovani che inseguono un sogno, in questo caso nato in tenera età, legato al
profumo musicale sparso con sapienza e naturalezza da genitori, entrambi
musicisti.
Ciò che voleva e che vuole è suonare il violoncello, colpito
da un evento particolare che ha aperto un sentiero che mano a mano si è allargata.
Ho chiacchierato con lui, nella speranza che il suo pensiero possa
rappresentare un esempio positivo per tanti ragazzi. A conclusione propongo un
video che riporta stralci di sue recenti performance.
L’intervista…
Ho letto la tua completa biografia, ma vorrei che
sintetizzassi la tua “storia musicale” per i lettori.
Sono stato a contatto con la musica sin dalla prima infanzia;
i miei genitori sono entrambi musicisti e mi hanno cresciuto in un ambiente
ricco di musica. Ho iniziato a studiare a circa 6 anni e sono entrato l’anno
dopo in conservatorio. In questo periodo (che ha avuto tanti alti e bassi) ho
vissuto alcune esperienze che col tempo hanno contribuito a plasmare la mia
persona: ho partecipato a concorsi e fatto parte di diverse orchestre, così
come ho seguito masterclass, suonato in tournée e così via, fino a completare
gli studi di violoncello al conservatorio un paio d’anni fa. Da quel momento ho
cominciato a puntare al perfezionamento e ad esibirmi in pubblico più spesso e
in contesti che avrebbero rappresentato per me via via una sfida maggiore.
Facile ipotizzare da dove nasca la tua passione, ma vale la
pena raccontare gli inizi, l’atmosfera che hai vissuto tra le mura domestiche!
Quello che ricordo è che la musica è sempre stata di casa e
infatti questa passione, che è cresciuta nel tempo, è sempre stata coltivata.
Ero incuriosito nel sentire i suoni degli archi dai CD o dal vedere un
musicista suonare il proprio strumento durante i concerti che trasmettevano in
TV, e ho anche adorato animazioni come i due Fantasia della Disney. Ero
inoltre circondato da strumenti musicali sempre a mia disposizione. In realtà
ci sarebbe un aneddoto: a due anni e mezzo, il giorno del mio onomastico, mio
padre mi portò in un negozio di strumenti musicali per regalarmi un giocattolo
sonoro e io vidi un violoncello, che volevo per forza! Costava troppo e fui
accontentato con un violino due quarti: mi dissero che era un violoncello per
bambini! L’inganno durò poco e io tornai all’attacco, ma il mio primo
violoncello mi fu regalato per Natale poco prima che compissi 6 anni… È stato facile innamorarsi della musica!
Tra i tanti strumenti di cui avrai sentito il profumo sin da
bambino, che cosa ti ha spinto verso lo studio del violoncello?
Non saprei rispondere con certezza, si parla di tanto tempo
fa, ma ricordo perfettamente che mi colpì il video di un concerto che vidi con
mio padre, nel quale Rostropovich suonava con l’orchestra. Ne rimasi incantato,
ne adoravo la prorompenza ed in opposto il timbro vellutato, lo ricordo come
primo vero evento che diede origine alla passione per questo strumento.
Che cosa hai realizzato ad oggi a livello concertistico?
Oltre che in varie città italiane ho suonato in Cina, in Russia
e a Malta, sia da solista che in formazioni da camera e in orchestra. Ma
sicuramente è stato particolarmente emozionante suonare al Musikverein di
Vienna, un luogo nel quale si condivide una atmosfera di grande rilievo
artistico.
C’è spazio nella tua visione musicale per sonorità
contemporanee?
In realtà sono abbastanza selettivo in merito a questo
repertorio, ma certa musica di autori contemporanei mi piace davvero tanto:
spero anche di poter eseguire alcuni miei brani non appena capiterà l’occasione.
Se comunque dovessi indicare il mio “periodo musicale” preferito, direi tra il
tardo Ottocento ed il primo Novecento.
Ti sei fatto un’idea della valenza della commistione tra
musica classica, rock e affini, caratteristica della musica progressiva?
La trovo molto particolare, suggestiva, complessa ma non
astrusa. In generale mi piace ascoltare tutto ciò che ha un gusto ricercato
nelle sonorità, spaziando e mescolando qualsiasi genere. Il progressive
è un ottimo terreno per questo genere di sperimentazioni, che non tradiscono
comunque il mio gusto musicale, per cui mi piace!
Ho visto due video in cui ti esibisci da solo: è questa
l’espressione che prediligi o trovi anche soddisfazione all’interno di un
ensemble più complesso?
Più che da solo, prediligo suonare da solista. Mi piace
essere consapevole di ogni mia nota e dare spazio alla mia personale
interpretazione dei brani, essere padrone della musica che creo, cosa che
diventa differente all’interno di formazioni più ampie. Oppure adoro far parte
di formazioni da camera, nelle quali è possibile un dialogo stretto con gli
strumenti, creare empatia, ascoltare la loro voce e rispondere “a tono”. Suonare
in orchestra, invece, ha tutto un altro sapore: è un tipo di esperienza diversa
che mi piace soprattutto per la sua valenza formativa.
Che cosa consiglieresti ad un giovanissimo che decidesse di
seguire la complicata via che porta alla definizione/formazione del musicista
“classico”?
Lo studio di uno strumento dà i propri frutti nel tempo, e si
parla di anni. Certi risultati sembrano non arrivare mai, ma poi arrivano quando
meno te lo aspetti; e i progressi non sempre sono subito tangibili. È un percorso nel quale la fiducia e la determinazione giocano
un ruolo chiave, e bisogna sempre essere pronti a risollevarsi dai
“fallimenti”, una lezione andata male, un errore in concerto, per fare degli
esempi comuni. E poi ci vuole umiltà ma anche la giusta sicurezza, e una solida
guida.
Che cosa insegna il rigore di una disciplina antica e nobile
ad un ragazzo che, come è giusto che sia, è attratto anche dalla leggerezza che
spesso accompagna i nostri tempi?
Come detto prima, i risultati appaiono dopo tempo. All’inizio
può capitare di voler mollare, anche a me è capitato in passato, poiché
nell’era della velocità avere qualcosa il prima possibile sembra essere più
gradito che avere ciò che si desidera, ma dovendo dedicarci molto tempo in più.
Il rigore quindi lo insegna per prima la passione, seguita poi dai risultati che
lo supportano e lo alimentano. Ma attenzione, segregarsi in casa è anche un
errore: come dice Rubinstein, è superfluo lavorare per essere artisti se poi
non si conosce l’arte nellasua essenza. Bisogna vivere pienamente la propria vita, le esperienze
tipiche della propria età, frequentare gli amici, viaggiare… per esprimere in
musica il proprio vissuto.
Sogni e progetti per il futuro?
Il mio sogno è quello di perfezionarmi al fine di possedere una
tecnica tale da poter suonare ciò che voglio ed esattamente come lo penso.
Punto soprattutto al cercare e “marcare” il mio stile per esprimerlo in
concerto, sperimentando col mio strumento, spaziando attraverso diversi generi
e divertendomi nel farlo. Mi piacerebbe quindi studiare e suonare con i grandi interpreti
che ogni giorno ascolto estasiato, conoscerli ed ascoltare le loro storie.