lunedì 2 febbraio 2015

Daniele Sollo si racconta


Scopriamo oggi Daniele Sollo, bassista virtuoso, musicista, sperimentatore e… molto altro.
Incontro casuale il nostro, permesso, come sempre più spesso accade, dalla rete.
La sua storia è costituita da molteplici esperienze e le sue idee musicali appaio davvero interessanti.
In attesa di commentare un suo prossimo progetto, leggiamo il suo pensiero e avviciniamoci alla sua filosofia musicale.

L’INTERVISTA

Da dove ha inizio il tuo percorso musicale, e come si è evoluto nel tempo?

Beh, ho cominciato molto presto… a circa 7 anni strimpellavo “Per Elisa” su un pianoforte giocattolo. I miei hanno sempre assecondato la mia attitudine alla musica, regalandomi dischi e, successivamente, donandomi una pianola della Bontempi, con la quale mi divertivo a suonare ad orecchio i brani che ascoltavo dal mio Hi-Fi…   A circa 14 anni, mi innamoro del basso elettrico (ascoltando, all’epoca acid jazz, un genere assai in voga all’inizio degli anni ’90) e comincio a suonare ad orecchio. Ben presto, però, sento la necessità di conoscere più in profondità la musica e il nuovo strumento. Così, comincia il mio percorso di studi con il bassista Giuseppe Brandi. In questo periodo, ho modo di conoscere la musica classica, il jazz in ogni sua sfumatura… insomma, ho modo di apprezzare tanti altri generi musicali. Ed è in questo periodo che mi avvicino al jazz-rock e al progressive. Va anche detto che, dall’adolescenza fino a quando incontro i VisionAir, ho modo di suonare tanti generi nelle più disparate formazioni. Successivamente (nel 1997 circa), conosco un gruppo di ragazzi con i quali formo la band progressive chiamata VisionAir, con i quali condivido la prima esperienza come compositore e autore di testi. L’esperienza con i VisionAir procede con alti e bassi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 2011 e con un album-demo realizzato. La voglia di mettermi in gioco come musicista, però, non finisce. Anzi, procede buttando giù diverso materiale, che colma nel progetto che sto realizzando, di cui parlerò dopo.

Quali sono i tuoi punti di riferimento, il tuo genere guida, quello che ti permette maggiore espressione?
Beh, sono tanti. Essi corrispondono alle varie fasi della mia vita sia dal punto di vista personale che dal punto di vista della mia formazione come musicista. Ciò si riflette tanto nel mio modo di suonare. Ad esempio, con il mio 5 corde suono prevalentemente con la tecnica dello slap e del tapping polifonico, tecniche che ho avuto modo di apprezzare ascoltando bassisti come Mark King, Randy Coven, Michael Manring, Alain Caron, per citarne qualcuno. Per suonare il fretless, invece, è stato fondamentale lo studio di Jaco Pastorius. Di questo amo dire: “Se la psicoanalisi nasce con Freud, il basso elettrico nasce con Pastorius…”. Ad ogni modo non esiste un vero e proprio genere guida; io amo dire: “Io suono, faccio musica”. Poi, ognuno che ascolta i miei lavori può carpire le differenti influenze che fanno parte del mio modo di fare musica. Il disco a cui sto lavorando, infatti, sotto questo aspetto è “camaleontico”: si passa dal prog rock piuttosto duro alle suite jazz-fusion, ai brani per quintetto d’archi, basso e voce, per poi passare alle rivisitazioni per solo basso e voce di una cover degli America.

Nei filmati che ho potuto vedere, utilizzi il basso per disegnare tratti classici, fatto abbastanza inusuale: da dove nasce questa esigenza?

Fa parte del mio percorso di ricerca. Da un lato, reputo il basso elettrico (sia il fretless che quello con i tasti) uno strumento con grandissime capacità di espressione; da un altro, ci sono tanti brani del repertorio di musica classica che fanno parte di me. Se volessimo parlare di esigenza, ecco, questa esigenza consiste nella volontà di unire questi due fattori.

Nelle tue note biografiche si sottolinea il nome di due grandi bassisti, Squire e Pastorius: esiste un punto di congiunzione tra loro, musicisti differenti? E tra loro e te?

Su Pastorius ho accennato prima all’importanza che ha avuto nella mia formazione come bassista. Analogamente Squire è sicuramente un musicista da cui ho preso tanto. Le analogie che vedo fra questi due musicisti stanno nel modo di concepire lo strumento. Pastorius, sappiamo, ha portato il basso fretless a livelli di espressività altissimi; Squire anch’egli è stato un innovatore in ambito rock. I punti di incontro fra questi due musicisti così “lontani”, secondo me, risiedono nel ruolo che essi hanno dato al basso elettrico: non più uno strumento che “sta dietro” agli altri, ma uno strumento che - pur mantenendo il “ruolo ritmico” -  sono sullo stesso piano delle tastiere, delle chitarre, o altri strumenti. In altre parole, le linee di basso di Squire e Pastorius sono dei veri e propri “assoli d’accompagnamento” che si fondono nel tema principale suonato dalla voce o dagli altri strumenti. Io, di questi musicisti, ho fatto mia proprio questa specifica attitudine: ciò costituisce uno dei  perni fondamentali del mio modo di suonare.

Mi parli delle tue collaborazioni e dei progetti realizzati?

Come accennato prima, nell’arco di circa vent’anni di attività ho suonato di tutto: ho suonato in varie band rock; ho preso parte nelle orchestre latin-jazz e di liscio (estremamente importanti dal punto di vista formativo…); ho suonato in band acid-jazz; in progetti di commistione fra jazz e classica, ma, le esperienze più importanti sono legate al già citato progetto con la band VisionAir. Si tratta di una band con la quale ho realizzato un demo-album chiamato “InVisible Visions” e che, purtroppo, è rimasto accantonato definitivamente con lo scioglimento della band. È stata una band che ha riscosso anche un discreto successo nei (pochi) concerti tenuti. Con i VisionAir si è fatta sperimentazione musicale in senso stretto, anche se – dal punto di vista commerciale – la band era etichettata come prog band. La formazione del gruppo era assai eterogenea, e ognuno dei membri portò nel progetto la propria formazione musicale, dando vita ad un progetto, ahimè, incompiuto anche per mancanza di forza di volontà. Fra le altre collaborazioni importanti cito quella con il chitarrista e compositore Domenico Cataldo, co-autore di alcuni brani del mio lavoro; quella con il tastierista Luca Scherani, per il quale ho suonato il basso in un brano dei Pink Floyd (“See Emily play”, edito dalla Mellow Records in una compilation-tributo ai Floyd) da lui arrangiato. Scherani ha anche arrangiato il quartetto d’archi presente in un mio brano. Un’altra collaborazione importante è quella con Fabio Zuffanti, che ha registrato la voce in un mio pezzo (quello di cui mi sono valso della collaborazione di Scherani). Poi, il tastierista americano Jason Rubenstein, che ha composto apposta per me un brano (anch’esso presente nel mio lavoro) dopo aver sentito il mio primo singolo pubblicato. Infine, ci sono gli altri musicisti - bravissimi - che hanno suonato nel mio primo singolo: Marco Dogliotti, Samuele Dotti e Maurizio Berti. Ad oggi sto lavorando al mio primo album da solista, del quale ho pubblicato - autoproducendo il tutto - due singoli con più brani. Questi sono: “11-IX-1683” e “Turn left”, disponibili per il download digitale su iTunes ed altre piattaforme multimediali. Queste faranno parte dell’album intitolato “Order and DisOrder”, che spero vedrà luce in tempi non biblici.

Possibile vivere di musica di questi tempi?

La mia personale esperienza mi ha insegnato che è quasi impossibile vivere di musica. È chiaro, ci sono tanti casi. Ci sono i casi in cui devi mettere da parte tutto ciò in cui credi e “venderti” per comporre le musichette destinate al cellulare e/o i jingle delle reti televisive locali, oppure ancora riuscire a suonare stabilmente con Gigi D’Alessio; ci sono casi - come la maggior parte dei musicisti che conosco - in cui chi fa musica si occupa d’altro per poter vivere: il sottoscritto è libero professionista. Ci sono casi limite come il seguente: la band storica di Vasco Rossi - che, si suppone sia composta da persone che vivono di musica - per “arrotondare” ha dato vita alla tribute band ufficiale di Vasco Rossi e fa tour nei locali in tutta Italia.

Entrando nel tuo sito si è colpiti da alcune frasi di Giuseppe Verdi: da dove nasce la sintonia tra te e certi concetti, belli ma allo stesso tempo amari?

Beh, quelle frasi interpretano stati d’animo che, secondo me, sono comuni a tutti coloro che hanno “metabolizzato” appieno il processo creativo, che sia musica o altro: un dipinto, una scultura, un romanzo, ecc.
Ami la fase live?

Certo. Dal vivo riesci a trasmettere emozioni che in studio non puoi dare: l’interpretazione, il dialogo che stabilisci col pubblico, l’adrenalina che hai e che trasmetti, ecc.

Mi pare che il tuo “suonare il basso” abbia a che fare, anche, con la ricerca e la tecnologica: quale potrebbe essere lo sviluppo dello studio del “tuo “ strumento?

Il basso elettrico è uno strumento relativamente giovane. Esistono approcci allo strumento che spesso ne hanno cambiato le caratteristiche. Basti pensare a Michael Manring, che ha realizzato il suo “Hyperbass” in funzione delle sue esigenze. La liuteria, oggi, procede ancora lungo questo sentiero. Nel mio caso specifico, ho lavorato assieme al mio liutaio di fiducia Emiliano Nencioni (che ha realizzato strumenti anche per Patrick Djivas e Ares Tavolazzi) nella realizzazione di uno dei miei strumenti: un basso a 5 corde configurato apposta per il tapping e lo slap.

Domanda d’obbligo: quali sono i tuoi progetti più vicini?

Beh, continuo con la lavorazione del mio album. L’autoproduzione ti costringe a tempi molto dilatati, per quanto riguarda la realizzazione di un lavoro. Ho anche suonato in un album del gruppo indie Maisie (che dovrebbe uscire quest’anno se tutto va bene). Infine, ci sono anche contatti per ulteriori lavori con Fabio Zuffanti e Luca Scherani per quanto riguarda il progetto Höstsonaten per maggio di quest’anno.





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