Raccontare frammenti di vita musicale di un artista che si conosce personalmente dovrebbe agevolare il compito, che nel mio caso-lo ripeterò sino alla noia- è quello di incuriosire il potenziale lettore e spingerlo ad approfondire.
Ho conosciuto il batterista Lorenzo Capello
in piena estate, l’ultima, in occasione di uno splendido concerto in alta
quota. Mi parlò allora di un’imminente uscita, un album “tutto suo” che mi
avrebbe voluto fare ascoltare. Abbiamo parlato un po’ di musica e da allora
siamo rimasti in contatto, come sempre accade quando ci sono interessi comuni.
Non avevo idea che per risalire alla genesi de “Il Partenzista” si dovesse fare un passo indietro
di circa sei anni. Probabilmente la spiegazione della dilatazione
temporale inusuale di questo parto
musicale risiede già nel titolo, sostantivo anomalo, o neologismo, che Lorenzo
Capello si appiccica addosso, almeno per un certo periodo della sua vita. E
d’altro canto i titoli dei brani hanno enorme significato per Lorenzo…
Per inciso, “partenzista” è il
contrario di “arrivista”.
Le interviste via mail agli artisti sono un mio pallino, per svariati
motivi, ma spesso rispondere alle domande appare come uno sforzo immane (non
tutti amano esprimersi attraverso la scrittura) e in quelle occasioni non
emerge “il volto “ del musicista, ma solo il contorno.
In questa occasione invece Lorenzo Capello ci racconta una vita in poche/tante
righe; riflessioni personali, aneddoti e racconti, che alla fine lo porteranno
a dire:” ... ma lo sai che non è male
essere intervistati!?”.
E’ questo uno di quei casi in cui le mie parole servono davvero a poco
perché è sufficiente leggere il pensiero del musicista per entrare nel suo
mondo, che è poi quello che mi interessa
evidenziare, forse più delle musiche de “Il Partenzista”.
Però anche di musica si deve scrivere, e credo che sia giusto iniziare
col dire che siamo al cospetto di un album che appare complicato sin dal primo
ascolto. Ciò che questo jazzista –ma non solo- ha scritto va assimilato e
capito dopo essere entrati in contatto profondo con il suo pensiero. E cosa c’è
di più bello che scoprire un affascinante mondo altrui, carico di
significati e pieno di profumi? Brani
strumentali, linkati a doppio nodo ad un titolo, intrecci strumentali di grande
difficoltà compositiva e realizzativa, un testo recitato, una ghost track,
inusuale nel jazz, e tante immagini nodali che fanno si che non si possano
scindere i suoni dall’art work.
E proprio sulle pictures della cover ci sarebbe da discutere, quelle
immagini in bianco e nero che si prestano
a molteplici significati, che parlano di momenti positivi, se “lette
dall’autore”, o di stati d’animo un po’ cupi- è così che li ho vissuti- e
chissà quante altre emozioni susciteranno in chi si avvicinerà a “Il
Partenzista”!
I commenti inseriti nel booklet aiutano a rendere chiaro il legame esistente
tra musica-titolo - immagine e favoriscono l’ascolto. La musica da sola è in
grado di “darsi la corretta veste”, ma sono realmente convinto che avere a
disposizione più elementi di valutazione possa rappresentare una sorta di
evoluzione, in un campo, quello della musica, dove spesso si afferma che non
c’è niente da inventare. “Leggere” questo album di Lorenzo Capello in modo
totale, permetterà di entrare in buona sintonia col suo modo di esprimersi, magari
un po’ diverso dal ruolo che si è soliti dare ai drummers.
Una delle frasi che mi ha maggiormente colpito leggendo il fantastico
libro di Bill Bruford, batterista mitico tra rock e jazz, dal ’70 in
poi, riguarda la descrizione di una sua stanza, contenente montagne di CD a lui proposti per una valutazione
che, accatastati un po’ ovunque rimarranno inascoltati e quindi inutili,
dimenticati persino da chi li ha creati, ma ormai presenti in uno spazio che-
dice più o meno Bruford- “ forse occupano
indebitamente, perché nessuno si prenderà mai più cura di loro, nemmeno i “genitori!”
E’ tragico pensare a possibile talento e sicuro sudore buttati al vento!
Questo è per me un ulteriore buon motivo per provare ad entrare nel mondo di
Lorenzo Capello, e di tanti altri fantastici artisti, che rovesciano parti
importanti di vita- e forse qualche speranza- in un dischetto di alluminio di
pochi cm di diametro.
E assicuro il lettore… non sarà mai tempo perso, e la slide show di fine
post, unitamente all’intervista, risulterà più esaustiva di mille mie parole.
Everybody’s
Drug (brano proposto):
un incauto
passante continua recidivo ad aprire per sbaglio porte che danno su stanze contenenti
persone sotto l’effetto di sostanze stupefacenti più o meno reali di diverso
tipo. In almeno una di quelle stanze c’è sicuramente uno di noi
L’INTERVISTA
All’interno
del booklet è ben spiegato il concetto di “Partenzista”, semplificabile con
“contrario dell’arrivista”. Quanto o quante volte sei stato un “partenzista” nella
tua vita?
Senza entrare troppo
nello specifico, diciamo che fino a qualche anno fa ero spesso un partenzista:
per insicurezze e/o paure varie ero intimorito nel voler iniziare qualsiasi
cosa, anche se mi sforzavo di farlo comunque. Molte cose per altri normali
implicavano per me un dispendio di
energie enorme... pensandoci adesso, erano sensazioni che avevo più che altro
verso cose che non mi sarebbe piaciuto, ma che magari “si dovevano” o “era
giusto”, fare. Poteva essere scambiato
tutto per il capriccio di un giovane viziato, ma, ce n'ho messo di tempo per
capirlo, per me credo fosse una sorta di impreparazione alla vita, almeno a
quella che volevano gli “altri” per me. Il concetto di “Partenzista” viene un
po' da quel periodo. Ed è un periodo al quale nonostante tutto sono
affezionato, perché credo che non bisognerebbe mai disprezzare le persone
che siamo stati precedentemente, e che
ci hanno permesso di diventare quel che siamo adesso.
L’art
work che hai utilizzato è per me angosciante, per immagini e colori, ma ogni
immagine e ogni colore suscita sentimenti molto differenti negli uomini e nelle
donne. Quanta “oscurità e solitudine” c’è, o cerchi nella tua vita?
E' una domanda
interessante, in quanto non ho concepito quello del disco come un artwork
angosciante... preciso che le foto, di Guido Zanone, sono state fatte in quel
modo su mia espressa richiesta, quindi mi prendo la responsabilità del
risultato finale, e non avevo in mente situazioni che potessero angosciare chi
le vedesse... devo ammettere però che amo le sensazioni che mi danno certe
immagini fra il simbolico e l'inquietante, quindi probabilmente nelle foto è
confluito un po' di questo mood. Per quanto riguarda l'impaginazione con le
bande nere sotto e sopra, era un modo per richiamare uno schermo
cinematografico, visto che alcuni pezzi si snodano su percorsi strutturali
vicini a quelli del cinema e che comunque un po' di ambiente da colonna sonora
si ripresenta spesso qui e là, in modo più o meno evidente. E detto questo,
devo ammettere che dentro di me c'è senz'altro una componente di oscurità, e di
solitudine anche. La prima la tengo spesso ben nascosta, ma non per vergogna,
solo per mantenerla “mia” e basta. Affiora magari nella predilezione che ho per
le canzoni “tristi”, “minori”, anche per questo c'è un pezzo di Tom Waits nel
disco, o dal vivo proponiamo Perfect Day di Lou Reed. La solitudine diciamo che
in sé non fa parte della mia vita, ma la vado frequentemente a cercare, per
restare un po' con me stesso e basta. Come dice Peter Gabriel, vado a cercare
il mio Secret World. E poi, ho la sensazione che l'essere umano sia, alla fine,
molto solo di fronte al mondo che lo circonda.
All’interno
del CD ci sono 10 brani, di cui 9 strumentali. Qual è il tuo rapporto con le
liriche, con i messaggi che trascendono i suoni?
Sì, ci sono pezzi in
maggioranza strumentali, ma credo sia semplicemente perché mi interessava di
più inserire brani di quel tipo. E poi, il testo ha ovviamente una forza molto
diretta che mi pare che la musica non possa avere, ma sento più difficile poter
dire qualcosa di effettivamente interessante con le parole, si corre spesso il
rischio di esser ripetitivi rispetto ad altri che han detto le stesse cose
molto meglio, o altri che han detto cose molto più originali rispetto a te.
Però ecco, i due pezzi non strumentali (uno recitato e uno cantato) del disco
ci sono perché mi piaceva l'idea della recitazione, e perché mi piaceva
lasciare come ultimo ascolto un pezzo che non c'entrasse nulla o quasi rispetto
a quelli “ufficiali”. E comunque, perché pensavo fossero concetti che per me
sono importanti, e che mi parevano allo stesso tempo interessanti anche per
altri. E mi pare di aver avuto ragione, visto che dopo il concerto di
presentazione del disco, molta gente mi ha detto o scritto che si sente spesso
un “Partenzista”. C'è anche da dire che
nei pezzi strumentali ha una grande importanza, per quanto mi riguarda, il
titolo, che vedo a seconda dei casi come didascalico, complementare, antitetico
rispetto al contenuto del pezzo stesso. Spesso anzi parto dal titolo per
scrivere un pezzo, ad esempio “Everybody's Drug”: volevo scrivere qualcosa che
avesse a che fare con questa idea di noi umani dipendenti da una qualche droga,
intesa in senso figurato e non, ovviamente. C'è chi è dipendente dal gioco, chi
dal cibo, dalle caramelle, dall'alpinismo, da internet, dall'amore, dal sesso,
dall'opinione degli altri, dalla nicotina, dai bonsai, dai gialli scandinavi,
un sacco di cose insomma! E da lì sono partito per scrivere il pezzo, con questa
idea dell'aprire la porta di diverse stanze per trovarvi dentro situazioni di
dipendenza molto diverse fra loro. E poi insomma, un titolo che mi da'
l'opportunità di svelarne il significato mi è molto utile dal vivo, nel senso
che a seconda di quanto la gente è interessata alle mie robe strampalate, posso
decidere di parlare un po' del pezzo, e mi piace farlo effettivamente!
Mi
spieghi cosa accade ne “ il partenzista?”. Cosa rappresenta quello stop di 5
minuti prima della ripresa( di cui non ho trovato traccia nelle note)?
Bé quello è
semplicemente il prologo della ghost-track che arriva dopo il silenzio! Quindi
la ripresa è semplicemente un altro brano, nascosto, di cui quindi non faccio
menzione nelle note di copertina…. tutto questo è ovviamente intenzionale. E'
raro trovare ghost tracks nei dischi jazz, mi piaceva l'idea anche per quello.
E' curioso comunque, e non mi ero reso conto come, in realtà, la ghost-track
(che si intitola “A Refreshment Stand” ovvero “un punto di ristoro”) sia
effettivamente una sorta di sequel de “Il partenzista”: “A Refreshment Stand”
inizia dicendo “still at the starting
blocks”, ovvero “fermo (o ancora)
ai blocchi di partenza” .. un bel passo avanti rispetto al personaggio
desideroso di partire...
Cosa
significa “ringrazio Raffaele Abbate, per
avermi aspettato per anni?”. E’ questo tuo lavoro la sintesi di un
importante periodo di vita… una sorta di bilancio?
Quello è perché ideai e registrai Ia title track del disco,
assieme a questi due miei amici
(Massimiliano Caretta voce recitante, Enrico Di Bella seconda batteria),
quasi sei anni fa ormai, nello studio di Raffaele. Volevo partecipare al
concorso per percussionisti del Percfest di Laigueglia, ma non con un brano “da
batteristi”, volevo qualcosa di diverso. Allora pensai di “musicare” con sole
percussioni un testo che avevo scritto qualche tempo prima. Al concorso
arrivammo primi alle preselezioni via cd, ma fummo eliminati dal percussionista
che avrebbe poi vinto il primo premio. Conservo un ricordo bello, ma anche amaro
di quell'esperienza, era come se fosse stata eliminata una delle mie prime partenze
d'altronde. Però fu anche una grande occasione, perché Raffaelle apprezzò
molto il pezzo appena registrato, e mi propose la produzione da parte sua di un
intero disco. Per me fu una proposta grande, incredibile quasi, ma cercai di
non sprecare l'occasione, e aspettai semplicemente di esser pronto, soprattutto
a livello compositivo, a scrivere e suonare un disco di quasi tutti pezzi miei.
Il povero Raffa non sapeva che ci sarebbero voluti tutti questi anni per
portare a termine la cosa, ma semplicemente attese, da qui il ringraziamento a
lui. Per quanto riguarda il bilancio di cui parlavi, bè credo che il primo
disco “solista” sia sempre un momento critico, e al tempo stesso passeggero, in
cui si fa effettivamente un bilancio di tutto quello che c'è stato prima, per
prepararsi a quel che verrà dopo. Anni fa in occasione dell'uscita del primo
disco in cui suonavo (“Istralia” del trio omonimo, 2004) un mio amico batterista
mi disse di non farmi troppi pensieri per quest'uscita, mi disse semplicemente
“ è solo il primo, ne verranno altri” . Quindi sì, il primo disco come
bilancio, ma si spera anche come partenza vera e propria. L'unico guaio è che
adesso bisogna fare attenzione a fare uscire un disco, che mica è così
semplice ormai... o meglio, è diventato
più facile a livello tecnico, ma ormai il mondo della discografia è
economicamente un vero delirio. Diciamo che ho voluto insistere su questa
strada per non rassegnarmi al pessimismo dilagante, ma anche nel mio piccolo
per cercare di comunicare attorno a me che è ancora possibile crederci. Detto
questo, speriamo che il bilancio di tutto questo arrivi almeno in pareggio!
Ho letto
i molti ringraziamenti (non solo tuoi) che fanno pensare ad un gran lavoro di
squadra, anche solo come appoggio morale. Tutto questo contrasta- mi ripeto-con
la grande immagine di impotenza che “emana” dalla figura di un uomo solo
circondato da cupi palazzi vuoti, o disteso a terra in balia degli eventi.
Spiegami il segreto… come si può utilizzare il jazz per raccontare tutto
questo?
Intanto, i
ringraziamenti sono doverosi, visto che è il primo album a mio nome, e in più
graficamente ho potuto prendermi senza problemi lo spazio per inserirli. Poi
una piccola parentesi sulle due foto citate, che non hanno per me una
connotazione negativa … quella dei palazzi rappresenta un po' la sfida, contro
l'altezza, contro la grandezza quando ti senti piccolo, ma è una sfida con le
mani in tasca, senza troppa agitazione, con calma … nella seconda foto, sono
sdraiato con la sigaretta in mano, mi sto solamente riposando! (vedi la
canzone-ghost track, A Refreshment Stand). Detto questo, il lavoro è stato di
squadra senz'altro, sennò non saremmo un gruppo, o lo saremmo ma senza avere
troppo senso. Credo che la musica migliore, di tutti i generi s'intende, sia
sempre venuta da realtà che sono riuscite a far prevalere un discorso di gruppo
piuttosto che di un solista. Non mi è mai piaciuta l'idea di un solista che fa
il bello e il cattivo tempo, e il gruppo dietro che lo “accompagna” … mi è
sempre parso molto riduttivo, e un po' un'occasione sprecata. Mi piace invece
l'idea di democrazia e pariteticità, ma anche quella di un leader che
agevolasse le scelte fra le molte idee proposte dai musicisti, mettendo la sua
impronta finale sui percorsi di tensione sonora. Ma perché ciò accada, servono
appunto musicisti che portino idee e le mettano al servizio del gruppo, e della
musica, senza inserire il pilota automatico. Serve poi una situazione musicale
che faccia sentire il musicista singolo apprezzato per le cose che può portare
al gruppo. Serve anche, non ultimo, far capire, far sapere al musicista tuo
compagno che può proporre tutto quello che vuole, che può sentirsi libero di farlo.
Questa è una cosa che può sembrare banale, ma mi pare accada troppo spesso, e
non solo nella musica ovviamente, che una persona si chiuda in una gabbia da
sola, senza che nessuno glielo ordini, magari perché è semplicemente abituata a
farlo. Bé, io cerco invece di fare in modo che non ci siano gabbie, o almeno
non ci siano serrature, o che la gabbia sia commestibile a morsi, o che si
possa essere tutti nella stessa gabbia di matti! Tornando alla domanda, mi
piace pensare ad un lavoro come il mio, ma credo che ciò si possa ricondurre ad
ogni attività umana, come ad una sinergia fra me e tutte le persone che mi
hanno influenzato, e insegnato comunque qualcosa durante tutti gli anni che ho
vissuto. Questo sia musicalmente sia umanamente intendo. La sinergia è più
ampia di quanto si creda, e credo che un musicista, un compositore, debba tener
sempre conto di questo, sennò si finisce per far torto a tutte quelle persone
che ci hanno trasmesso delle cose così importanti, che poi insomma, chiamiamola
vita ed è più semplice per tutti.
I
musicisti che hanno collaborato alla realizzazione del CD sono i migliori anche
dal punto di vista dei rapporti umani? Quanto conta l’amicizia per arrivare
sino in fondo serenamente?
Non ho “scelto” i
musicisti perché sono i migliori sui loro strumenti, d'altronde io non sono
affatto il migliore sul mio strumento! Anche se ero ovviamente desideroso di
trovare gente che suonasse alla grande, ma ho privilegiato e molto la
“simpatia” fra noi, intesa in senso lato, come potersi fare un sacco di risate
in studio e sul palco ma anche come gli esplosivi che esplodono per simpatia.
Ad esempio, non avevo previsto di inserire un trombone nella band fin quando
non ho conosciuto Francesco e mi son reso conto che era perfetto per i miei
progetti, sia umanamente, sia come padronanza dello strumento, come del resto
lo sono Antonio, Lorenzo e Dino. Da qui si arriva al discorso amicizia, che
conta eccome: dal sentirsi tutti sullo stesso piano quando si suona, alla
coscienza di star interpretando anche una buona fetta della vita che abbiamo in
comune, all'affrontare ridendo ma anche con parole dirette le problematiche
della vita musicale ed extramusicale.
La musica
jazz, nonostante sia notoriamente “free” ha delle regole rigide, e non mi
immagino un disco jazz che presenti differenti modi espressivi(ma non sono un
esperto e potrei sbagliare). Nel tuo album ci sono frammenti di recitazione e
questa è già una deviazione dallo standard. Ma forse non volevi fare un album
jazz, e nemmeno recitato… volevi solo fare il tuo album. Sono molto lontano
dalla verità?
Intanto prima si
dovrebbe, forse, definire che cosa è jazz e che cosa non lo è… ma si rischia di
scrivere un trattato kilometrico pieno di parole noiose. Allora direi
semplicemente che, secondo me, dire jazz è come dire rock. Quindi dentro
l'etichetta ci stanno un sacco di cose diverse, dal new orleans al bop al free
al latin jazz, al jazz-rock, e a molto altro. Esistono regole, esistono
musicisti che le seguono, altri che non lo fanno, altri che le sanno seguire al
momento giusto, altri ancora che l'hanno fatto e non lo fanno più, e
viceversa... insomma un gran casino. E c'è sempre stato posto per tutti in
qualche modo. Io non so, non ho scelto proprio di stare dentro una o l'altra
delle possibili sottoetichette di jazz. Volevo sì, come dici tu, fare
semplicemente il mio disco, senza aderire troppo a una o all'altra corrente.
Un'unica cosa avevo deciso, quando pensavo al disco, ed era semplicemente stata
quella di non fare un disco di standard, ovvero di quei pezzi nati come canzoni
a tutti gli effetti di cui il jazz si è appropriato, riarmonizzandoli e
modificandoli e improvvisandoci sopra. Ci sono migliaia di musicisti che han
suonato e suonano gli standard meglio di me, e non credo di poter aggiungere molto
di interessante all'immaginario di cui questi brani fanno parte. A parte questa
decisione, il resto è più o meno come ce l'avevo in testa, con i limiti della
mia scrittura musicale ancora acerba ma che insomma, a suo modo mi funziona
bene e mi suona bene in testa ogni volta che mi riascolto il disco.
Quanto
bisogna essere bravi, tecnicamente parlando,
per realizzare un album come il tuo? E quanto cuore e istinto servono?
Son partito scrivendo
che non bisogna esser bravi, ma probabilmente stavo dicendo una gran cazzata,
quindi cancello … Direi che effettivamente alcuni pezzi sono piuttosto
difficili, anche se non è una difficoltà che ho ricercato ad ogni costo, o
comunque fine a se stessa. Ho cercato, come dicevo prima, di far arrivare alle
orecchie di chi ascolta (non bisogna mai dimenticare che ci saranno orecchie ad
ascoltare... e di chi saranno??) quello che avevo in testa. E alcune volte, ciò
che ho in testa è davvero molto complicato! Ma io vedo molto la mia musica come
una rappresentazione fatta in diversi modi, della mia vita, dei mondi più o
meno reali che mi circondano, o che io stesso circondo. Quindi, non puoi
pretendere che queste cose siano semplici, specialmente se per buona parte
della tua vita hai sempre pensato che tutto fosse così difficile... e poi
diciamocelo, sarebbe anche tutto un po' noioso se davvero la vita fosse facile.
Quindi ecco, un po' bisogna esser bravi sì, sia a leggere (ché la mia
calligrafia musicale nonostante la scrittura al computer è un po' da medico
della mutua) sia a suonar ovviamente. Ma la cosa che voglio, quando suoniamo, è
che ci sia la giusta concentrazione
sulle cose che stiamo suonando in quel momento: leggere un pezzo complesso,
improvvisare liberi senza struttura, ridere sguaiatamente e poi fischiettare sono
operazioni molto diverse che richiedono presenza mentale di diverso tipo sul
proprio strumento, ma la concentrazione deve essere sempre forte, perché come
dicevo tutti abbiamo molte cose da dare alla musica quando si suona, e non
farlo è un po' un delitto... E quindi, se c'è concentrazione, il
cuore-istinto-bravura che il musicista ha vien fuori senz'altro.
So per
esperienza che una volta che un nostro progetto è venuto alla luce si è già
pronti per il seguito. Quale potrebbe essere la tua follow up?
Mah, esattamente non lo
so ancora. Ma da qui al prossimo disco (sperando che ci sia un prossimo disco, e chissà se sarà un disco)
voglio sicuramente migliorare ancora la scrittura e l'arrangiamento. Poi, vedo
che dal vivo ci spostiamo spesso verso una visione più
cabarettistico-surreal-quasidemenziale che esclusivamente musicale, quindi
forse ci sarà un po' di questa cosa. Ritmicamente credo ci sarà meno swing, e
già nel Partenzista non ce n'è molto... è un feel ritmico che ovviamente mi
piace molto, ma lo vedo più, a livello di composizioni mie, più come un
“colore”, un “ambiente” che come un naturale humus per la mia scrittura. Poi
però, che ne so, in genere tutte le previsioni che faccio son sempre sbagliate
ora più ora meno, quindi non mi preoccupo tanto di cercare indizi per il
“futuro possibile”.
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BIOGRAFIA
SCRITTA DA LORENZO…
Inizio a suonare la
batteria nel 1989, studiando nel corso degli anni con Massimo Sarpero, Alfred
Kramer, Salvatore Camilleri, Ellade Bandini. Frequento svariati corsi e
seminari di specializzazione, per strumento, musica d'insieme, arrangiamento e
composizione: da Berklee Clinics at Umbria Jazz '95, ai genovesi We Love Jazz
'98 '99 '00, a Nuoro jazz 2002 (dove ottengo la borsa di studio per formare il
gruppo dei migliori allievi), a Siena Jazz '00 '01 '06 e Siena Jazz
Trioincontri '00-'01, al master biennale Siena Jazz In.Ja.M. '08/'10,studiando
e/o suonando con alcuni dei più importanti artisti della scena musicale
mondiale:Ben Riley,Ettore Fioravanti, Fabrizio Sferra, Claudio Fasoli, Stefano
Battaglia, Paolo Birro, Franco D'Andrea, Enrico Rava, Pietro Leveratto, Paolino
DallaPorta, Roberto Gatto, Adam Nussbaum, Ben Perowsky, Eric Harland, Massimo
Manzi, Ferenc Nemeth, Jack Walrath, Paolo Fresu, Gianluca Petrella, Robin
Eubanks, Glenn Ferris, Bruno Tommaso, Anders Jormin, Gianluigi Trovesi, Tim
Berne, Ben Allison. Ho inoltre studiato sassofono contralto, arrangiamento e
composizione, e mi dedico da qualche anno alla composizione di brani originali.
Dal 2003 insegno batteria presso la Società Filarmonica di Sestri Levante (GE)
e il Centro Musica e Arti Figurative di Cicagna (GE) ,e dal 2008 dirigo
un'orchestra laboratorio basata sull'improvvisazione per i giovani allievi
della stessa Filarmonica; dallo stesso anno tengo anche dei corsi di
introduzione al ritmo per i bambini delle scuole elementari del Comune di
Sestri Levante. Come batterista lavoro in diverse formazioni, in studio e live
sia come free lance sia come membro stabile di band come Lorenzo Capello
Quintet, Mojca Malievac Quartet,Red Row Trio, Luca Falomi Quartet, Joscha
Zmarzlik band; collaboro anche con la Compagnia del Teatro Cargo di Genova come
musicista in scena nello spettacolo “Il Naso di Darwin”. Nel corso degli anni
ho suonato dal jazz al rock al funk alla musica classica al folk in diverse
formazioni.
Discografia:
2004 - “Istralia” del trio omonimo, prodotto da
Louisiana Jazz Club e Teatro Carlo Felice di Genova.
2004 - “Provvisorio”, ALEA
Ensemble diretto da Paolo Damiani, etichetta Splasc(h)
2006 - “Intìma” della cantante slovena Mojca
Malievac, registrato con gli “Istralia”nel novembre 2005 e uscito in Slovenia
per la Goga Music.
2008 - “Renaissance”, cd del
progetto folk “Tears of Othila”.
2010 - -“Druga Sila”, sempre
di Mojca Malievac & Tina Omerzo, uscito in Slovenia per l'etichetta Sanje.
2011 - “Viens Voir”, il primo cd del chitarrista
genovese Luca Falomi.
2012 - “Il Partenzista”- OrangeHomeRecords, il mio
disco in quintetto,con brani composti e arrangiati da me.