mercoledì 7 febbraio 2018

Intervista a Fabrizio Poggi dopo la nomination ai GRAMMY AWARDS 2018



Intervista a Fabrizio Poggi dopo la nomination ai GRAMMY AWARDS 2018

Il 28 gennaio 2018 rappresenta un traguardo importante per Fabrizio Poggi ma, a ben vedere, per tutta l’Italia, un paese capace di esaltare personaggi destinati a sparire nell’arco di una stagione, ed esaltarsi per averne dato i natali.
Ciò in cui è riuscito Poggi avrebbe dovuto trovare spazi immensi in ogni possibile luogo informativo (non solo musicale), e l’italietta dei media, sempre pronta a salire sul carro del vincitore, avrebbe potuto mantenere coerenza nella sua facile ipocrisia, e dare massima visibilità al risultato ottenuto. Certo, qualcosina si è visto, ma davvero poco se si pensa alla portata dell’impresa.
Per chi non lo sapesse - fatto del tutto lecito - Fabrizio Poggi è un uomo di blues: beh, ce ne sono tanti, anche in Italia! Ma la lui in America ha davvero… trovato l’America!
Non è facile in quei luoghi farsi accettare - l’ho scritto più volte -, perché la patente da bluesman viene data con difficoltà, per la nota diffidenza che nasce spontanea da quelle parti quando certa musica viene proposta da un “estraneo”, o “esterno”. Fabrizio è riuscito, da tempo, in questa difficile opera di convincimento portata avanti con tenacia attraverso la sua musica, la sua voce, la sua armonica.
L’ho conosciuto molti anni fa, casualmente, e l’ho visto più volta suonare, spesso “per strada”, e da quei giorni di acqua sotto i ponti ne è passata, tanto che il suo album del 2017, in coppia con Guy Davis (“Sonny & Brownie’s last Train”), risulterà alla fine tra i cinque dischi arrivati in finale ai GRAMMY AWARDS 2018 nella sezione BEST TRADITIONAL BLUES ALBUM, in compagnia di Eric Bibb, Elvin Bishop's Big Fun Trio, R.L. Boyce e… i Rolling Stones, i logici vincitori, se si pensa ad un tacito premio alla carriera. Il tutto è avvenuto, of course, al Madison Square Garden di New York.
Un sogno davvero grande che è diventato realtà!
Mi è venuta la voglia di curiosare tra i suoi sentimenti e gli stati d’animo del momento, e l’intervista a seguire è il sunto del suo pensiero. 


Vorrei partire da cose difficili da spiegare a parole, se non si vivono in prima persona, ma che forse tu riuscirai a chiarire: cosa si prova nel trovarsi in un contesto così importante come quello in cui ti sei trovato tu, pochi giorni fa, al Madison Square Garden?
Grazie Athos per la tua bella intervista. Tu sei uno di quelli che mi segue da sempre e quindi condivido volentieri questa grande soddisfazione anche con te. Chiedo scusa sin d’ora a tutti quelli che leggeranno le mie “cento ripetizioni”. Sono ancora confuso (e lo sareste anche voi al mio posto, credetemi) ma sono certo che mi perdonerete. I Grammys sono davvero un evento enorme in America e al di là di tutte le polemiche sul glamour, il circo mediatico, e i rituali commenti su chi ha vinto e chi no: la manifestazione è davvero e soprattutto una grande festa della musica. Di tutta la musica. In ogni suo genere ed espressione. Certo se non si è una grande star le luci del Madison Square Garden e il tappeto rosso su cui si cammina e dove sei quasi assalito da  fotografi e troupe televisive può far davvero girare la testa. Io davvero - e qui incomincio a ripetermi - non mi sono ancora ripreso. O perlomeno non l’ho ancora realizzato. Ero così emozionato, quasi al limite dello shock, che ad un certo punto sul red carpet mi sono messo a suonare l’armonica. Così ho stemperato un po’ la tensione ma ho anche rovinato alcune foto ufficiali. Guy Davis mi è venuto appresso, e ci hanno persino benevolmente “sgridato” per la nostra esibizione fuori programma. E lì forse un po’ di anima italiana è venuta fuori. Comunque in uno stadio assolutamente blindato da polizia in assetto di guerra e guardie del corpo delle grandi star che apparivano e sparivano come fossero creature ultraterrene, i “lavoratori della musica” quelli “veri”, “quelli come noi” erano tutti stretti in un grande abbraccio. Come ha ben scritto Athos sono cose difficili da spiegare a parole e a volte in queste occasioni le emozioni sono così tante che un solo cuore non basta a contenerle. Ma per quello avevo la mia compagna di vita Angelina, che ancora una volta mi è stata vicino con l’affetto di sempre.


Credo che nessun bluesman italiano abbia mai ricevuto tali soddisfazioni, che sono riconoscimento sia di pubblico che di critica, e forse spiegarlo solo con il duro lavoro e il talento non basta: quali sono stati i momenti chiave della tua vita musicale, la svolta nel tuo percorso?
Credo che la svolta sia avvenuta il giorno in cui ho incontrato Guy Davis alla fine di un percorso che ho iniziato (tra i primi) alla fine degli anni ottanta andando a suonare in America. Lì ho trovato un ambiente musicale aperto e solidale e persone piene di entusiasmo e talento che mi hanno aiutato ad esprimerli al meglio. Da loro - musicisti e non - ho imparato tante cose, non solo musicali o a livello tecnico. Da loro ho imparato ciò che già forse avevo dentro ma che l’ambiente che frequentavo qui da noi non mi permetteva di esternare al meglio. E questo l’ho imparato paradossalmente non sul palco ma nei backstage, ascoltando musicisti e addetti ai lavori raccontare storie edificanti ed esemplari, storie non sempre a lieto fine ma sempre interessanti, storie che mi facevano crescere dal punto di vista umano. Lì ho capito che ognuno ha la sua storia, che ognuno ha il suo percorso, che la musica ha a che fare con le emozioni e che quindi mal si sposa con la competizione ad ogni costo. Ho imparato ciò che loro apprezzano, e cioè ad essere me stesso, a non cercare di imitare qualcun altro. “Ognuno di noi è diverso Fabrizio. E quindi unico”. Questo mi dicevano spesso. Con tutto il rispetto per le tante persone che mi hanno aiutato e sorretto con forza e passione anche nel mio paese (e ancora lo fanno, e Athos ne è un esempio lampante), negli States mi hanno insegnato qualcosa che non si può davvero insegnare e cioè a credere in se stessi al punto da riuscire a fare dei propri  limiti e dei propri difetti il proprio stile. Negli States mi hanno aiutato a credere in me stesso tutte le volte che ho pensato di smettere di suonare (e sono state davvero tante) e mi sono sempre stati accanto nel mio percorso umano e musicale. Anche quando il vento della vita soffiava così forte che sembrava volermi portare via. Non è stato facile, ma sono ancora qui. E non è poco.

Dopo l’annuncio della tua nomination e della serata newyorkese ho postato un commento diretto ad un luogo in particolare, quello dove eri stato protagonista con i Chicken Mambo in una località piemontese - Frabosa Soprana -, a sottolineare quale fortuna avessero avuto, probabilmente senza esserne consci: era il 2009… quanta acqua è passata da allora sotto ai ponti?
Di acqua ne è passata davvero tanta sotto i ponti da quella sera che ricordo ancora con tenerezza e nostalgia. Ogni concerto mi lascia sempre qualcosa. A costo di ripetermi e a costo di porgere la guancia a coloro che mal mi sopportano e usano il termine “predicatore” in senso dispregiativo, perché purtroppo per loro del vero significato del blues hanno capito poco o nulla; quando suono cerco davvero di connettermi con le altre persone. Non c’è retorica in questo e chi la vede così è assolutamente in malafede. Davvero nel blues palco e platea non esistono perché siamo tutti idealmente sotto una veranda in Mississippi. Io sono sempre quello di quella sera. Tanti si sono montati la testa qui da noi per molto meno. Io no, io sono sempre quella persona. Assolutamente imperfetta. Una persona come tante che cerca di arrivare all’anima della gente ovunque suoni la sua armonica. Come sempre ho fatto e come sempre farò. Con passione. La stessa del giorno indimenticabile in cui ho iniziato.

Ha fatto più effetto per te sapere che tra i grandi nomi in corsa per il primo posto c’erano anche i Rolling Stones, risultati poi vincitori?
La candidatura ai Grammys era qualcosa di assolutamente inaspettato. Anche da parte di Guy Davis che di onori nella sua carriera ne ha ricevuto parecchi. Sinceramente quando mia moglie Angelina mi ha proposto di incidere quello che doveva essere un omaggio a Sonny Terry e Brownie McGhee (sì, perché l’ idea originaria è tutta sua), non mi sarei mai aspettato di essere in lizza per il premio, “contro” gli Stones (ma anche gli altri musicisti non valevano certo di meno). Ancora adesso ogni tanto mi do un pizzicotto per verificare di non stare sognando. Ovviamente non c’è mai stata nessuna sfida con i Rolling Stones. Anzi, specialmente da noi, il fatto che ci fossero gli Stones ha dato maggiore visibilità alla notizia.
Io avevo il poster degli Stones nella mia cameretta quando avevo quindici anni e quindi lo devo un po’ anche a loro se sono arrivato qui. Devo tanto a tutti quei musicisti d’oltremanica che senza volerlo e senza saperlo mi hanno insegnato moltissimo. Se qualcuno dei miei amici di quando ero ragazzo mi avesse detto che un giorno avrei “sfidato” i Rolling Stones ai Grammy Awards gli avrei detto: “Dai, non prendermi in giro, lo sai che non succederà mai”. E invece è successo. Certo, ci sono volute lacrime e sangue e tanti bocconi amari, ma al di là dell’Atlantico, e scusate se mi ripeto ancora una volta, i sogni possono diventare realtà. Io il mio Grammy personale, come molti di voi già sanno, l’ho vinto il giorno che ho cominciato a suonare con Guy Davis, un persona splendida e generosa, autentica leggenda del blues dal talento smisurato, che mi ha voluto al suo fianco e che non finirò mai di ringraziare. Che ci crediate o no io ho gioito quando al Madison Square Garden hanno annunciato la vittoria dei Rolling Stones. E’ come se avesse vinto mio padre. E mi sarebbe sembrato innaturale e irrispettoso vincere a loro discapito quello che poi alla fine per loro è stato un Grammy alla carriera, il Grammy dovuto per grandi dischi come “Exile on main Street” e tanti altri. Io ho imparato “You gotta move” da loro. Poi ho scoperto il reverendo Gary Davis e Mississippi Fred McDowell. E sempre tramite loro e tramite la loro versione di “Love in vain” ho scoperto Robert Johnson. Per la nostra generazione era così. Arrivavi al blues tramite gli Stones, Clapton, Mayall e tanti altri. Chi ha la mia età e lo nega dice una bugia. Quindi ancora una volta congratulazioni ai Rolling Stones! Che resti tra noi, ma con la loro vittoria io ho vinto due volte.

Non è che a questo punto, dopo tanta vita passata negli States, ti senti più americano che italiano?
Diciamo che sono troppo intriso di cultura italiana per essere completamente americano e troppo intriso di “controcultura” americana per sentirmi davvero a casa ovunque. Non solo in America. A volte quando parlo di questo argomento sembra che stia facendo pubblicità all’Agenzia del Turismo USA. Ma è vero. Io la mia America l'ho davvero trovata in America. Ciò che ho ottenuto laggiù qui non l’avrei mai ottenuto. Amo il mio paese, ma non posso far finta di nulla. Qui è davvero così difficile. O almeno, per me è stato così. Un giorno un amico americano mi ha detto “Tu non te ne rendi conto ma il tuo modo di suonare il blues è speciale. Qui negli States sono in tanti a suonare il blues, ma non sono tanti a suonarlo con lo stesso spirito con cui lo suoni tu. E a noi americani questo “arriva”. Arriva subito e tantissimo”.

Pare incredibile che non ci siano stati titoloni, a livello di media nazionali, su un riconoscimento come quello che hai ricevuto tu: cambierà mai qualcosa a livello di informazione musicale?
Vivo e suono in  questo bellissimo paese da così tanti anni da non essere più stupito di nulla. Questo è davvero un paese meraviglioso. Sotto tutti i punti di vista. Certo nei giorni prima dei Grammys e ancora in questi giorni sono state tante le TV, le radio e i giornale d’oltreoceano o anche del resto d’ Europa che mi hanno chiamato per un’ intervista. Qui da noi qualcosina è successo. Non mi posso lamentare. Ho avuto molto più interesse di quanto io stesso auspicassi nelle mie più rosee previsioni. Certo, come dico spesso, gli americani sono diventati grandi nel mondo della cultura perché riescono a dare importanza al grande business e ai piccoli numeri. Ma lo stesso è successo anche ai tedeschi o agli svedesi. Qui da noi tutto è legato ai poteri forti. Al volante di giornali e televisioni ci sono, con le dovute eccezioni, per la carità, pessimi autisti. Ci dicono spesso che questo è un luogo comune, che sono chiacchiere da bar, che noi italiani abbiamo la brutta abitudine di piangerci addosso e per questo non andremo da nessuna parte.  Non è così. Credetemi. Pensate che la considerazione che mi hanno fatto e mi continuano a fare all’estero è: “Chissà i media italiani come saranno stati orgogliosi di te e quanto spazio ti avranno dato? Non è una cosa da tutti i giorni avere un italiano nominato ai Grammys. E poi per il blues una musica che più americana di così non si può”. Io non amo dire le bugie, e non ne sono capace. E si viene sempre scoperti, prima o poi. Ma in questo caso, con il cuore in lacrime, ho detto che sì, in questi giorni sono stato sulle pagine di tutti i giornali, e tra le notizie importanti dei telegiornali del mio paese. Ho mentito e andrò all’inferno, ma se è vera la leggenda lì mi sentirò a casa.   

Ho letto alcuni tuoi commenti che comprendevano soddisfazione e al contempo amarezza: vuoi levarti qualche sassolino dalla scarpa?
C’è a volte amarezza in quello che ho scritto o detto in questi giorni, ma non vorrei essere frainteso. Io sono felicissimo di come sta andando la mia vita musicale in questo momento. Ripeto, non mi posso lamentare. Conosco persone che venderebbero l’anima al diavolo per raggiungere alcuni dei miei risultati. Non solo come musicista ma anche come essere umano. Per me le due cose vanno di pari passo. Anche se è vero che si può essere ottimi musicisti e brutte persone. Non ho sassolini nelle scarpe. Sono in tanti a volermi bene e sono in tanti a dimostrarmelo ogni giorno. Con quelle righe e quelle parole volevo solo davvero ringraziare  tutti coloro che suonano, organizzano, scrivono, amano il blues e che NON  hanno avuto nemmeno il coraggio di mettere un MI PIACE su FACEBOOK. Coloro che si sentono sempre in guerra e in competizione. A coloro che non hanno nemmeno la stoffa morale di concedermi l’onore delle armi. Ma a me, ve l’assicuro, va bene così. Il loro ignorarmi e le loro malefatte mi hanno fatto arrivare sin qui, quindi... Se non riposo la notte non è per colpa loro. Anzi il loro atteggiamento mi ha fatto lottare e arrivare lontano. Ma ripeto non ci perdo il sonno e se l’Italia è un paese non completamente sviluppato culturalmente è anche colpa loro. O merito loro. E non si devono lamentare, perché molti di loro in questo mondo ipocrita vivono e lavorano benissimo, facendo finta di lamentarsi di tanto in tanto. Ma senza voler davvero cambiare nulla. Credo fosse un mio dovere, arrivato a questo punto della mia vita e della mia carriera, dire e scrivere queste cose. E se qualcuno non mi chiamerà più a suonare nel suo locale o nel suo festival vorrà dire che me la sono andata a cercare, e finalmente ho capito perché. Insomma la mia è stata una specie di sfida bonaria e vedremo chi saprà farne tesoro.  Ma ripeto (e perdonatemi per questo) nel mondo del blues e della musica anche in Italia ci sono tante persone perbene. E’ che spesso, come succede ai grandi, queste persone non amano né il turpiloquio e nemmeno le risse verbali e non.  E voglio ripetere ancora una volta e a lettere d’oro: dedico la nomination a tutti coloro che suonano, organizzano e scrivono di blues. A tutti coloro che come me, qui in Italia, ogni giorno spendono “sangue, sudore e lacrime” per far conoscere agli altri una musica che riesce sempre a toccare il cuore. Ai Grammys - e anche questo l’ho dichiarato con orgoglio cento volte -  ho volutamente portato tutto il blues “made in Italy”. Senza se e senza ma.    
La prossima estate compirò 60 anni. Anche nella migliore delle ipotesi non so fino a quando riuscirò a soffiare nella mia armonica. Io spero fino a cent’anni, ma gli anni passano, ve l’assicuro, e bisogna essere realisti. Ecco perché mi piacerebbe sinceramente che la famiglia del blues italiano mi invitasse a suonare in Festival in cui, nonostante i quasi quarant’anni di carriera, non ho mai suonato, in manifestazioni che ho a volte aiutato a fondare e a crescere, in cui non sono più stato invitato da dieci o vent’anni, e vorrei jammare come spesso faccio (quando e come posso) con tutti i giovani musicisti che ci sono in giro, che ogni volta mi commuovono perché mi ricordano come ero io alla loro età. Insomma vorrei che mi succedesse ciò che da anni mi succede in America, che non è il Paradiso naturalmente, ma è un paese in cui ogni persona può trovare ciò che va cercando. E questo non è poco. Bisogna trovare anche da noi lo stesso spirito che alberga nei cuori blues d’oltreoceano, dove polemiche, rivalità ed ego smisurati vengono superati facilmente al solo pensiero che ognuno è diverso, e per questo unico e inimitabile. E se dovrò scriverlo e ripeterlo cento volte ancora, se ne avrò la forza, lo farò.

Proseguirà la tua collaborazione con Guy Davis? E più in generale, cosa hai pianificato per il futuro prossimo?
Con Guy Davis la collaborazione continuerà con lo stesso spirito che ci tiene uniti da dieci anni a questa parte. Sono già confermati alcuni tour in varie parti del mondo, e naturalmente a maggio ci saranno i Blues Music Awards che ci vedono nuovamente candidati, e anche questo risultato non è cosa da poco. Per il resto continuerò a suonare come sempre, cercando di mostrare l’armonica che ho tatuata sul cuore e che suonerò con passione finché avrò forza e salute. Spero che questo risultato aiuti tutti coloro che suonano una musica considerata qui da noi “figlia di un dio minore” ad avere più rispetto e considerazione. Purtroppo è una speranza difficile da tenere accesa. Io sono dovuto fuggire dal mio Paese per realizzare i miei sogni. Spero che i ragazzi che oggi decidono, come ho fatto io quarant’anni fa, di suonare “l’altra musica” lo possano fare in un Paese “musicalmente civile”. Spero di avere con la mia  infinita passione sfondato una porta che da ora in poi resterà sempre aperta per tutti coloro che, come me, vorranno percorrere un cammino lungo e tortuoso, ma che dona tante di quelle emozioni che un cuore solo non basta a contenerle. Ecco perché vanno condivise. Con tutti. E scusate se “sono stato lungo” ma come dice un amico fraterno “non avevo il tempo per essere breve”. Vi voglio bene.