giovedì 29 luglio 2021

Fabrizio Poggi & Enrico Pesce: "hope"


Fear can hold you prisoner, hope can set you free


È questa la frase in rilievo - tratta dal film “Le ali della libertà” - che colpisce una volta aperto il booklet di “hope”, l’album numero 24 di Fabrizio Poggi, in questa occasione realizzato in coppia con Enrico Pesce, una collaborazione che si distacca da quanto accaduto in passato e che privilegia la proposizione acustica ed intimistica.

Fabrizio Poggi significa blues, America, armonica, contatto con il pubblico e dialogo come focus di ogni esibizione. E aggiungo… voce perfetta per il genere.

Su queste pagine ho più volte scritto dei suoi lavori musicali e non, commentando alcuni live di cui sono stato testimone.

L’acquese Enrico Pesce è compositore, concertista, regista, direttore artistico e docente musicale.

Due storie, due culture, due percorsi che si incontrano per trovare una sintesi che produce nobiltà sonora, un superamento dei generi e delle etichette a favore della qualità assoluta utilizzata per dare corpo ad un messaggio di peso, rinforzato da ospiti prestigiosi e utilizzando saldi binari su cui viaggiano un’armonica che si adagia sulle note del pianoforte, i due strumenti principi del progetto.

Ma forse l’immagine dei binari non è la migliore possibile - se si esclude l’idea di viaggio - perché presuppone una distanza tra gli elementi, distinzione che in realtà non si avverte in nessuna parte del disco.

Ogni volta che mi avvicino ad un nuovo progetto scaturiscono idee e pensieri che mi riportano ad episodi vissuti, frammenti di memoria che mi permettono di dare una mia interpretazione, magari lontana… molto lontana dal pensiero di chi ha creato; in questo caso ha pesato il titolo e la lettura introduttiva di “hope”, quella in cui la “speranza” degli autori diventa l’elemento di cui tutti abbiamo enorme bisogno in questo momento così complicato, da cui spesso sembra impossibile uscire; facile ritornare ad un vecchio brano di successo del 1980, per molto tempo da me male interpretato, ma ora chiarissimo.

Questa la fotografia: un uomo, un pittore, davanti ad una tela vuota che aspetta di essere riempita (ma potrebbe essere un foglio su cui scrivere una canzone, o una poesia… un obiettivo da raggiungere).

L’idea è quella che nel nostro percorso di vita sia necessario lasciarsi andare, sognare senza sosta, sfruttando un possibile vento propizio che ci potrà spingere nella nostra navigazione.

Continuando a sognare e avendo dalla nostra un po’ di fortuna (il vento favorevole), si compirà il miracolo e la tela da pittore si riempirà prendendo, forse, una forma inaspettata, basterà solo avere la pazienza di attendere e qualcosa di magico accadrà.

Nella mia rivisitazione del pensiero di Poggi e Pesce la speranza si miscela alla fede - religiosa o laica - e la loro musica diventa magia pura.



Proverò a ripercorrere i vari episodi che caratterizzano l’album, tutti ascoltabili cliccando sul titolo.

Il brano di apertura, inedito, è “Every Life Matters” , una potenziale hit in quanto di immediata presa.

Ogni vita è importante, un’affermazione quasi banale ma che troviamo calpestata quotidianamente. Concetti sui cui tutti a parole concordano ma che non trovano un giusto corrispettivo nelle azioni.

Ma cosa può fare una canzone per migliorare la situazione? Dilemma di sempre!

Si può racchiudere un’anima tra quattro mura e la si può anche incatenare, ma non si può arrestare la forza della musica, e la canzone si libererà da ogni vincolo e volerà per sempre, in ogni luogo.

Magnifico duetto tra Poggi - creatore della lirica - e Pesce - autore della musica - con la nobile presenza vocale di Sharon White - da venti anni back vocalist di Eric Clapton - che contribuisce nel rendere il pezzo una sorta di manifesto che possa sottolineare l’impegno per i diritti civili.

A seguire “Leave Me to Singthe Blues.

Il blues utilizzato come denuncia e al contempo come attenuazione dei dolori della vita.

Chiosa Fabrizio: “È una rilettura in chiave blues e jazz di una celebre aria del Settecento che si avvale di un’inedita scrittura pianistica di Enrico Pesce. Con l’aggiunta di nuove liriche il brano si è trasformato in un antico canto di libertà dalla schiavitù…”

Voce roca, pianoforte virtuoso e armonica lancinante… sono questi gli ingredienti di una canzone coinvolgente che riporta alla memoria momenti già vissuti, reali o virtuali.



Hard Times (come again no more)”  nonostante la sua freschezza e attualità, è stata scritta a metà dell’Ottocento dal padre della musica americana, Stephen Foster, ed è anche una delle prime ad essere stata incise con il fonografo a cilindro nel 1905.

Un grido di dolore, un monito, una speranza, quella che i tempi difficili possano sparire e non tornare più.

La delicatezza del topic richiede il giusto intimismo che emerge dal minimalismo musicale proposto dai due autori.

Motherlesschild” (o Sometimes I feel like a motherless child)   è un pezzo tradizionale che risale al periodo della schiavitù americana e fornisce l’immagine tragica del dolore più forte, quello della separazione forzata di un bimbo dai genitori, così come quello di un uomo dalla sua terra: tempi che cambiano ma problemi che restano. Ma la descrizione della tragedia non impedisce la visione di una luce, seppur lontana.

Brano blues/jazz che esalta il virtuosismo di Enrico Pesce e permette l’entrata in scena della splendida voce di Emilia Zamuner, giovane cantante jazz napoletana: un calarsi profondo nei locali musicali statunitensi, dove suonare, ascoltare e lenire le pene diventa un tutt’uno.

Goin’down the road feelin’ bad”  è un altro traditional che “sembra che fosse cantato sia dai poveri mezzadri bianchi che dai prigionieri neri incarcerati ingiustamente nelle famigerate galere del Sud”.

Forse basterebbe la musica per emozionare, perché il lamento dell’armonica accompagnato da un semplice giro di pianoforte spinge verso attimi evocativi.

Altro esempio di meraviglioso minimalismo e di facile accesso verso le complicazioni che a volte ci riserva il mondo della musica.

My story”, due minuti di pura suggestione, una creazione del 2005 di Enrico Pesce, colonna sonora di un suo antico cortometraggio: un viaggio, sognando ad occhi aperti, abbattendo ogni tipo di barriera e ortodossia.

Quanto è importante il testo in una canzone? 

I’m leavin’ home”  rappresenta al contempo titolo e lirica, e ascoltando il magnifico tappeto tastieristico rappresentato dal fraseggio ininterrotto del pianoforte si potrebbe pensare di avere al cospetto una prateria su cui correre con estrema libertà verbale, spargendo i pensieri in ogni dove.

Ma la forza del sonetto conciso è condita dallo stesso ermetismo dell’ungarettiano “Mi illumino di immenso”, concetto in cui ognuno può riconoscere il significato che ritiene più appropriato.

Dice a proposito Poggi: “Per scriverla mi sono ispirato al “ring shout”. Si tratta di una danza cantata di origine africana che gli schiavi eseguivano per ore sino allo sfinimento. Un rituale segreto, estatico e trascendente in cui i partecipanti si muovevano in cerchio, trascinando e battendo piedi e mani come fossero antichi tamburi. È nel “ring shout” che si trovano le radici del blues e del jazz. È una sorta di “mantra” meditativo in cui la ripetizione di una parola o di un verso diventa uno strumento così potente da riuscire ad elevare e guarire ogni spirito.”

Segnalo un nuovo intervento di Sharon White.

The house of the rising sun”  è un’altra canzone tradizionale di cui non si conosce l’autore, anche se la versione di maggior successo fu quella dei The Animals, nel ’64.

Originariamente “The rising sun blues”, rappresentava il bridge tra i bordelli di New Orleans e le case di tolleranza della Napoli degli Anni Venti del Novecento. In quei luoghi di perdizione e svago, era facile trovare grandi musicisti e artisti creativi, magari destinati a restare nel pieno oblio, nonostante le loro qualità.

Questa versione, una delle tante esistenti, appare lontana dalla facile canzonetta coverizzata da miriadi di band ad azione locale, perché il sottofondo jazz e blues le conferiscono nuovo volto e nobiltà.

I shall not walk alone”  è una canzone di Ben Harper, riproposta più volte live da Fabrizio con i Blind Boys of Alabama: ancora voce, piano e armonica per un testo che, accompagnato dalla giusta atmosfera, produce un marcato spleen…

Per entrare nel cuore di “Nobody knows the trouble I’ve seen” occorre l’aiuto di Fabrizio: “La canzone è stata pubblicata per la prima volta nel 1867 ma secondo gli studiosi è stata creata dagli schiavi almeno cent’anni prima e nessuno sapeva davvero le tribolazioni che dovette passare e vedere con i propri occhi il popolo afroamericano piegato a raccogliere cotone negli sterminati campi del sud degli States…”.

Un blues “ortodosso” che vede il rimbalzo continuo tra voce e armonica, mentre l’arpeggio di Pesce rompe gli schemi, quella rigidità cara a chi pensa che il genere sia proponibile in un solo modo possibile.

La chiusura, così come l’apertura, presenta una canzone scritta dal duo Poggi/Pesce, dal titolo “Song of hope”.

La speranza, quella che ha ispirato l’album in ogni sua parte e che è il fulcro del brano, rappresenta la degna chiusura del concept album.

La musica come veicolo per alleggerire ogni peso… la musica come benessere fisico e spirituale… la musica come aggregazione e unificazione del modo di essere… la musica come concetto di rottura di ogni tipo di barriera.

Un ascolto liberatorio, se si è un minimo virtuosi!

Davvero un gran lavoro quello proposto da Fabrizio Poggi e Enrico Pesce, un linguaggio che si nutre di ingredienti consolidati e conosciuti, la cui miscela, però, produce novità e superamento di ogni aspettativa, una fuga da quell’immagine che in modo naturale segue l’artista e lo codifica a vita.

E poi esiste la musica universale, quella che mette tutti d’accordo!

 

TRACKLIST: 

1 Every life matters (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

2 Leave me to sing the blues (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

3 Hard times (Stephen Foster)

4 Motherless child (traditional)

5 Goin’ down the road feelin’ bad (traditional)

6 My story (Enrico Pesce)

7 I’m leavin’ home (Fabrizio Poggi)

8 The house of the rising sun (traditional)

9 I shall not walk alone (Ben Harper)

10 Nobody knows the trouble I’ve seen (traditional)

11 Song of hope (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

 

LINEUP:

Fabrizio Poggi vocals, harmonica

Enrico Pesce piano 

with

Sharon White vocals on “Every life matters” and “I’m leavin’ home”

Emilia Zamuner vocals on “Motherless child”

Hubert Dorigatti guitar

Jacopo Cipolla upright and electric bass

Marialuisa Berto percussion

Giacomo Pisani percussion

 

Arranged by Enrico Pesce

Recorded, mixed and mastered by Giuseppe Andrea Parisi

Produced by Fabrizio Poggi with Enrico Pesce, Giuseppe Andrea Parisi, Angelina Megassini

Logistics and organization Angelina Megassini 

Front cover picture and art: Mauro Negri

Graphics: Manuela Huber

Fabrizio Poggi plays Hohner Harmonicas

Fabrizio Poggi wears The Blues Foundation hat

in loving memory of Jean Franco Formiga (1999 – 2021)





martedì 20 luglio 2021

Porto Antico Prog Fest-17-18 luglio 2021



Luca Masperone, tecnico e membro dell’organizzazione,  prima del set dei The Trip presenta il nuovo libro scritto con Daniele Follero, “La storia di hard rock & heavy metal”.

 



Nella foto: Luca Masperone-Andrea D’Avino-Athos Enrile


Dopo dieci lunghi mesi ho nuovamente partecipato ad un evento live, l’ormai tradizionale Porto Antico Prog Fest che è andato in scena a Genova nei giorni 17 e 18 luglio.

La speranza è che possa essere il primo di un nuovo corso di concerti e che i programmi imminenti conosciuti, relativi al Trasimeno Prog e Veruno, possano essere confermati, ma mai come in questo momento appare appropriato affermare che di “doman non v'è certezza”.

Fare distinzione di genere musicale appare davvero poco importante, giacché ciò a cui più si anela nell’immediato è la normalità e la socializzazione e con questo spirito un buon pubblico - la famosa nicchia del prog - ha presenziato, speranzoso e partecipativo.

D’obbligo ringraziare l’organizzazione del Porto Antico che ha accolto le idee di Black Widow Records e dei partner Nadir Music e Cornucopia Live.

Rispetto allo scorso anno le serate sono raddoppiate ed è quindi aumentata la possibilità di vedere sul palco band locali miste ad altre mai passate dai palchi genovesi.

Sottolineo l’atmosfera, tra luce piena e tramonto, con la giusta rigidità legata alle norme sanitarie e il merchandise tradizionale di Black Widow e Ma.Ra.Cash., due etichette discografiche specializzate soprattutto nella musica progressiva.

In questo contesto si è trovato lo spazio per chiacchierare sul palco e scoprire nuovi progetti che si spera di veder presto realizzati.

Il mio commento minimale ha il mero scopo di mantenere nel tempo il ricordo di quanto accaduto, senza alcuna pretesa di esaustività né di graduatorie di merito.

Per privilegiare l’oggettività ho inserito nell’articolo due medley che, soprattutto per quanto riguarda la prima serata, presentano un audio davvero scadente… chiedo venia, augurandomi che venga almeno apprezzato lo spirito di condivisione.


Sabato 17 si luglio si apre con gli spezzini Magia Nera, band la cui storia appare singolare: nati a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, producono materiale discografico solo in tempi recenti, dopo la tradizionale ricostituzione, e tra il 2017 e il 2020 rilasciano “L'ultima danza di Ophelia” e “Montecristo”; ed è proprio quest’ultimo che viene presentato in modo cospicuo, permettendo di mostrare le peculiarità di un gruppo nato con la predisposizione verso un rock duro, nel tempo calmierato e miscelato a trame sonore variegate.

A condurre il gioco, mantenendo il bridge con il passato, il chitarrista e vocalist Bruno Cencetti.

Band da riascoltare con un set più ampio…

https://www.facebook.com/Gruppo-Rock-Magia-Nera-196944607729643


Seguono i giovani Melting Clock - protagonisti anche dell’ultimo concerto a cui facevo accenno inizialmente - che vantano un piccolo primato essendo gli unici a presenziare per la seconda volta alla manifestazione.

Gruppo genovese dedito al prog puro, uniscono un raro talento a idee fresche e proiettate nel futuro, tanto per ricordarci che esistono ancora prospettive per un genere a cui si affibbiano spesso aggettivi inappropriati riferiti al tempo che fu.

Un po' di sfortuna li costringe ad un set "semi-unplugged", ma la qualità della loro musica arriva al pubblico, a cui interessa maggiormente l’emozione live piuttosto che la perfezione priva di inconvenienti tecnici, per quella hanno inventato il lavoro in studio!

Destinazioni” è il loro album di riferimento, rilasciato nel 2019, ma dal palco arriva una pillola di novità che conduce ad una nuova uscita, probabilmente nel 2022.

https://www.facebook.com/meltingclockband

 


A questo punto entra in scena il cuore, la storia, la memoria del rock genovese.

Appare fuori contesto se si fa riferimento al titolo dell’evento, ma un tributo a Bambi Fossati è doveroso e permette di ricordare l’importanza di un chitarrista unico, che ritorna tra noi attraverso la performance di due dei suoi gruppi di riferimento - Garybaldi e Gleemen - che ruotano attorno al batterista Maurizio Cassinelli.

https://www.facebook.com/Garybaldi-164474230609862

Un viaggio nel tempo che permette di accogliere sul palco differenti protagonisti del rock genovese, compreso Massimo Gori, in questo caso in veste di chitarrista.

Vengono riproposti brani scritti da Bambi, comprese novità, come la “messa in musica” di una sua poesia.

A completare il quadretto che definisce Fossati come il Jimi Hendrix italiano, l’entrata in scena di un power trio dedicato, quello dei Groove Monkey, che regala al pubblico un sano rock, potente e coinvolgente:

https://www.facebook.com/Groove-Monkey-1699626270285185

 


A chiusura di serata la band che tutti aspettano, i The Trip.

L’occasione è importante: il primo concerto dopo molto tempo, una nuova band, il cinquantennale dall’uscita di “Caronte” e il rilascio del CD - di cui presto parlerò - che comprende la rivisitazione delle tracce dell’album con l’aggiunta di un paio di bonus - “Una pietra colorata” e “Fantasia” - e una composizione del chitarrista Carmine Capasso, “Acheronte”.

Come accade con tutti i gruppi, persiste una percezione di imperfezione nel corso della performance di cui spesso nessuno si accorge se non i protagonisti sul palco, e anche in questo caso l’esigente Pino Sinnone, a fine set, prova a cercare il pelo nell’uovo, ma la sensazione di “pieno sound” che mi è arrivata - così come ai presenti con cui ho chiacchierato successivamente - fornisce l’idea di vera band, lontana dall’idea di “tributo” scontato.

Non è facile trovare giovani così dentro ad un progetto così complesso, e la riproposizione delle parti di tastiera create da Joe Vescovi da parte di un giovanissimo come Andrea D’Avino dà la misura della qualità che Sinnone è riuscito a trovare/creare.

E se Carmine Capasso, oltre a valente chitarrista risulta essere il braccio destro del drummer torinese dal punto di vista organizzativo, il completamento della sezione ritmica con Tony Alemanno appare vincente, senza contare che Andrea Ranfa rappresenta una delle voci rock più belle in circolazione.

Siparietto negativo la caduta sul palco di Sinnone, inciampato in un cavo nel corso dell’intervista di rito precedente al concerto, incidente che avrebbe potuto inficiare il concerto: e invece no, Pino picchia sulle pelli come non mai, dichiarando ufficialmente che un disco di inediti è previsto per il prossimo anno.

Un esempio da seguire!

https://www.facebook.com/thetripbandofficial/about



La seconda giornata, quella di domenica 18 luglio, prevede una band in meno.

Si parte dai veronesi Blind Golem di cui colpevolmente non ricordavo il nome, nonostante li avessi visti in concerto un paio di anni fa a Bordighera. In realtà all’epoca li avevo memorizzati come “Ken Heensley Band”, essendo il gruppo di supporto del mitico membro degli Uriah Heep, purtroppo mancato recentemente.

Gli uomini passano ma la musica e le forti passioni restano e così ritrovo quella proposta così precisa che ascoltai nell’agosto 2019, dedita all’hard rock, rinforzata da un paio di elementi guidati dal bassista Francesco Dalla Riva, che avevo conosciuto discograficamente parlando molti anni fa, ascoltando un album dei “suoi” Bullfrogg.

Un set davvero piacevole e ultradinamico!

https://www.facebook.com/BlindGolem

  

La seconda esibizione prevede una band di casa, i Fungus Family, tra prog, psichedelia e rock, tanto per dare soddisfazione a chi ama appiccicare etichette.

Amo la loro musica perché trovo sia il miglior compendio possibile tra passato e visione del futuro.

Il cantante Dorian Mino Deminstrel è a mio giudizio tra i migliori frontman in assoluto per la sua capacità di trasferire all’audience il sentimento da palco, che è quello dell’ensemble, ma inevitabilmente il vocalist diventa la connessione che conduce al pubblico, modellando e veicolando i messaggi attraverso contenuti e comunicazione non verbale.

Alla fine, arriva anche la novità, un brano cantato in italiano che porta a pensare che un nuovo lavoro, magari con novità espressive, sia in cantiere.

Emozionanti!

https://www.facebook.com/FungusProject

 


È tanta la curiosità di vedere/ascoltare la proposta di RaneStrane, band romana che ha concluso la kermesse e che ha potuto contare sul supporto del Fanclub.

Partiamo col dire che i quattro componenti hanno un curriculum di primissimo piano e collaborazioni ed esperienze stellari.

Mi riferisco a Daniele Pomo - batteria e voce -, Riccardo Romano - tastiere e voce -, Massimo Pomo - chitarra - e Maurizio Meo al basso.

Vidi una loro performance tre anni fa in contesto simile, ma la loro proposta era di tipo tradizionale, mentre accomunare il loro nome a “The Wall”, come accaduto in questa occasione, stimola l’immaginazione.

Il nuovo progetto della band si inserisce nell’ambito del “CineConcerto”, una commistione di musica e immagini che si trasforma in opera rock.

Nello specifico viene quindi proiettato “The Wall” - film del 1982 diretto da Alan Parker -, dove le parti vocali con i testi originali si intrecciano con frammenti dei dialoghi cinematografici.

Daniele Pomo, intervistato, ha dichiarato: “Il film di Alan Parker è esattamente ciò che ha ispirato la band, oltre 20 anni fa, a intraprendere un viaggio originale e multimediale nella scena rock contemporanea. È un onore per la band italiana rendere omaggio a questo capolavoro. La reinterpretazione personale dei RanestRane della colonna sonora del film e della musica originale e delle parti totalmente inedite viene accompagnata da una completa sincronizzazione con il film, per creare quello che ora è il "marchio" dei RanestRane: il CineConcerto, uno spettacolo unico nel suo genere.”

Prima parte di concerto magica, dedicata totalmente al film che aveva come protagonista Bob Geldof.

È un modo particolarissimo di vivere il concetto di “progressive”, con un’estensione verso differenti rappresentazioni dell’arte che coinvolgono tutti i sensi dell’appassionato virtuoso e open mind.

Il pubblico gradisce incondizionatamente e la normale conseguenza è un lungo bis che prevede un estratto dei precedenti album estrapolato dalla “trilogia di Stanley Kubrick”.

La speranza è che il video a seguire possa fornire una piccola idea dell’atmosfera venutasi a creare… approfondire potrebbe essere lo step successivo.

Concerto indimenticabile!

https://www.ranestrane.net/


Ancora una volta la musica ha unito e permesso di accantonare i disagi del momento, non ha eliminato la difficoltà oggettiva ma ha contribuito alla creazione di attimi di serenità accompagnati dalla qualità della proposta.

Non resta che ringraziare, come al solito, chi ci mette faccia e portafoglio, tecnici e organizzatori. Ovviamente i musicisti. Naturalmente il pubblico, quella branchia di intrepidi - alcuni arrivati dalla Francia - e mai domi che, anno dopo anno, si ritrovano per commentare il conosciuto e gioire al cospetto delle novità, quelle che danno maggiori soddisfazioni se arrivano dai giovani.

Prog on!


giovedì 15 luglio 2021

Elisa Montaldo-“Fistful of planets part II”


A distanza di pochi mesi dall’ultima uscita, “dévoiler”, Elisa Montaldo prepara “Fistful of planets part II” - il seguito del “part I” (uscito nel 2016) - che ho ascoltato in anteprima.

Potrei dare un’immagine di insieme citando… “l’inizio di un viaggio e la fermatura del cerchio” … va da sé che un lustro di vita comporta cambiamenti e differenti visioni del mondo, anche se il credo basico rimane lo stesso.

Il commento di un nuovo progetto può essere guidato dall’interpretazione personale, ma appare illuminante poter avere la visione di chi crea, concetti basati su elementi oggettivi e linee guida certe. Ed è per questo che, come spesso capita, ho posto alcune domande a Elisa che, rispondendo come sempre con entusiasmo, mi ha permesso di andare in profondità: l’intervista a seguire risulterà icastica.

L’immagine di Elisa Montaldo è, a mio giudizio, in continua evoluzione e il ruolo di tastierista in ambito prog, seppur gratificante, risulta sempre più stretto e limitativo, perché le sue qualità, coltivate nel tempo, le permettono di ambire ad una dimensione che oltrepassa il singolo genere, una nuova proposta musicale che annoda passioni, credo profondo, impegno sociale, cultura e sperimentazione.

Un raccontarsi mettendo a disposizione del mondo le proprie emozioni utilizzando l’elemento sonoro e visivo.

Ma non basta. Chiosa Elisa: “Ho scoperto che scrivere musica per me è ancora qualcosa di inspiegabile, l’idea, la melodia, le parole, arrivano così, senza premeditazione, e ogni volta sembra l’ultima ispirazione…”.

Avverto che una delle attuali preoccupazioni della sensibile Elisa sia quella di non essere compresa appieno e c’è da concordare, perché un lavoro così complesso, vario e fuori dagli schemi come “part II” potrebbe trovare resistenza in chi ha negli occhi e nella testa un quadretto ben preciso che la colloca tra le poche donne del prog, davanti ad una tastiera.

We need people with an open mind…”, mi viene da dire, perché l’“esperienza polisensoriale” che ci viene proposta necessita di apertura mentale e voglia di allargare gli orizzonti personali.

Per tutti i dati oggettivi. Le info e i contatti consiglio un clic sul seguente link:

https://mat2020comunicatistampa.blogspot.com/2021/05/elisa-montaldo-fistful-of-planets-part.html


Ma cosa significa “esperienza polisensoriale”?

Partiamo dalle protagoniste, più di una, perché oltre ad Elisa troviamo Delphine - fotografa/grafica, visionaria - e La Strega del Castello, creatrice di profumi artistici e scrittrice.

Nelle prossime righe sarà la stessa Elisa a raccontare nei dettagli la distribuzione dei compiti e la meta, ma vorrei sottolineare un concetto che conosco nei dettagli e di cui sono stato testimone nel tempo, quello legato all’effetto sinestesico della musica, capace di creare  situazioni in cui la stimolazione uditiva si unisce a quella olfattiva, tattile o visiva, una miscela, non sempre positiva, attraverso la quale i ricordi prendono vita, spinti da sonorità conosciute che al loro arrivo producono profumi e immagini indelebili.


La volontà di Elisa è quella di… “creare uno spazio “polveroso”, come se il passare del tempo cosmico avesse fatto arrugginire i pianeti e avesse cosparso di polvere la galassia, un cumulo di relitti meccanici in orbita e di pietre millenarie che fluttuano con incrostazioni e polveri gravitanti…”.

Questa lunga introduzione è necessaria per dare rilievo ad un lavoro che, lo anticipo, è di grandissima qualità, al di fuori di schemi ed etichette riconosciute.

I quasi 45 di musica - suddivisa su 9 tracce - permettono di creare un viaggio che può essere comparativo - tra fruitore e artista - perché il tentativo di decodificare lo spirito dell’autrice convive con un itinerario del tutto personale, quello che scaturisce spontaneo quando l’ascolto diventa esperienza di vita. E così il percorso di Elisa suggerisce differenti ramificazioni.

Dal punto di vista delle collaborazioni, una mia domanda specifica porta alla sottolineatura dei vari ospiti… ancora un po’ di pazienza!

Veniamo agli aspetti musicali, gli unici di cui posso scrivere al momento.

Il viaggio nel tempo - e nello spazio - inizia con “Valse des Sirenés” - musica e parole di Attala Alexandre, che vede Elisa alla voce e al piano, con l’intervento di Matteo Nahum per quanto riguarda gli arrangiamenti.

La perla trovata in rotazione libera nella galassia è una canzone/valzer che, attraverso un suono antico e la puntina claudicante di un vecchio grammofono, riporta ad una musica sacra, ancestrale, primigenia.

È un punto di partenza carico di malinconia, come solo la lingua francese sa suscitare, una proposta di immagini in bianco e nero e un odore intenso di fumo proveniente dai tabarin, tra danze notturne e varietà.

Segue “Floating /Wasting Life”, parole e musica di Elisa Montaldo che canta e si propone alle tastiere con le percussioni affidate a Paolo Tixi/Mattia Olsson e Hampus Nordgren Hemlin impegnato in una miriade di strumenti (mellotron, basso, vibrafono e tubular bells).

Smettiamola di sprecare la vita, dobbiamo smetterla di sprecare la vita e perderci… proviamo a trovare un significato, svegliamoci e facciamo la scelta giusta…”.

Magnifica nel significato e nella concatenazione vocale, con arrangiamenti raffinati che realizzano il bridge tra generi ed ere.

Lo strumentale “Earth’s Call”, di Elisa Montaldo, vede l’autrice alle tastiere accompagnata ancora da Olsson e Hampus Nordgren, con l’entrata in scena di frammenti del “mondo Samurai”: Steve Unruh al flauto, Rafael Pacha alla chitarra classica, Nina Uzelac al violoncello e Jose Manuel Medina alla gestione degli archi.

Il riferimento è all’esosfera, lo strato più esterno dell'atmosfera terrestre.

La sensazione d’ascolto rende vivide immagini caratterizzate da particelle che si disperdono nello spazio interplanetario, in rotazione libera in un caos entropico affascinate e preoccupante allo stesso tempo.

Un sogno ad occhi aperti!

We are magic” (parole e musica di E.M), permette l’utilizzo di effetti e strumenti ricercati, come accade un po’ in tutto l’album.

Elisa Montaldo - piano, tastiere, effetti vari e autoharp - chiede ausilio ancora a Mattias Olsson e Hampus Nordgren Hemlin e realizza un “pezzo” sognante, di facilissima presa, questa volta in lingua inglese:

Quando non sai dove stai andando, quando non riesci a vedere il tuo percorso, fermati un attimo e prova a sentire il ​​respiro del vento; se sei preoccupato per le tue scelte, se non trovi pace nella tua mente, rilassati e bevi un bicchiere di vino, c'è un modo segreto per fermare il tempo: cavalca tuo istinto e starai bene, respira la libertà del presente e non voltarti indietro… siamo magici!”.

La complicatezza degli arrangiamenti viene qui resa apparentemente semplice e concetti che pesano come macigni si riducono ad una dimensione comprensibile e "umana".

Haiku” è un altro “quasi strumentale” di EM che la vede nel suo ruolo naturale, accompagnata ancora da Olsson alle percussioni ma con l’aggiunta di Ignazio Serventi alla chitarra classica e David Keller al violoncello; la parte recitativa e affidata a Yuko Tomiyama e Maitè Castrillo.

L’utilizzo di un componimento poetico giapponese per la descrizione in musica del “pianeta arancione”, una traccia acustica di grande atmosfera che permette di azzerare l’effetto gravità e liberare corpo e mente. Meravigliosa!

Feeling/Nothing/Into the black hole” vede la compartecipazione autorale di Mattias Olsson e il ritorno di Steve Unruh al flauto e al violino elettrico, Stefano Guazzo al sassofono e Tiger Olsson alla voce nella seconda parte del brano.

Diviso in due sezioni, con la prima preparatoria ad una atmosfera distopica, sottolineata da un sax devastante che disegna emozioni molto forti:

All'improvviso la luce sta svanendo e la gravità mi tira su fino al soffitto della mia stanza: dove sto galleggiando? Non è il mio solito mondo! Ho lasciato la terra dirigendomi verso l'ignoto perché qui non c'è speranza. Il buio del silenzio ci abbraccerà tutti e i fantasmi dei cieli antichi ci mostreranno come guardare nei buchi neri delle nostre anime perdute…”

Elisa, solitaria al pianoforte, descrive la sua interpretazione del “Wesak”, uno di quei giorni speciali in cui la divinità si piega amorevole sui suoi figli e li benedice, affinché ciascuno possa ricevere la sua parte di felicità.

L’idea che si materializza è quella del lungo cammino utile a presenziare alla grande festa, ogni anno in primavera, per partecipare ad un grande evento spirituale.

Washing the clouds” è una canzone di Elisa di cui ho già parlato in altre occasioni, anche se in questo nuovo progetto assume ulteriore volto.

Una delle domande a seguire verte proprio su questo argomento, che sarà quindi sviscerato a dovere.

I protagonisti e i relativi strumenti sono:

Elisa Montaldo al piano, tastiere e voce

Paolo Tixi e Mattias Olsson alla batteria e percussioni

Diego Banchero al basso

Ignazio Serventi alle chitarre

Hampus Nordgren Hemlin al mellotron

David Keller al violoncello


Dice Elisa a proposito:

Un giorno guardando dalla finestra, vidi nel cielo delle nuvole nere e, poco distante, delle altre nuvole bianchissime. Immaginai che le nuvole fossero nere perché piene di “sporco”, di negatività… e quelle bianche non erano nient’altro che nuvole nere ma “pulite”, come se fossero state passate in lavatrice. Da questa surreale visione ho elaborato nella mia mente l’idea che, se le anime delle persone fossero come quelle nuvole, si potrebbero “lavare” e purificare per tornare ad essere belle e pure come all’inizio.”

Una creazione che si è evoluta nel tempo, lasciando intatta l’idea di completa armonia con ciò che di bello ci circonda.

A chiusura si ritorna su “Valse des sirenes (grand finale)”, con gli arrangiamenti orchestrali di Jose Manuel Medina e il pianoforte di Elisa Montaldo.

Valzer meraviglioso che termina con un recitato simultaneo in doppia lingua, inglese e italiana:

“… ora, che ti sei trovato i confini della tua mente le tue mani e il tuo olfatto sapranno scoprire dove la verità si nasconde, i tuoi occhi vedranno più chiaramente la forma delle cose e le tue orecchie sapranno riconoscere il suono del richiamo cosmico; smetti di sprecare la vita, devi smettere di sprecare la vita…”.

Un monito, una speranza, il contributo che ognuno di noi può dare e che, nel caso di una artista come Elisa Montaldo, può trovare facile amplificazione.


Trovo l’album impegnativo e bellissimo, cibo per la mente, un superamento di ogni idea tradizionale di progetto musicale.

Il mio giudizio è ovviamente parziale perché si sofferma sui soli aspetti compositivi ma, come già detto, c’è molto di più in gioco.

Ho cercato di fornire una mia interpretazione, sperando che non sia troppo lontana dagli intenti di EM, ma in fondo reinterpretare in modo personale l’arte altrui rientra nella bellezza delle cose.

Elisa Montaldo si conferma una musicista straordinaria, capace di esibirsi in differenti lingue, costruendo in proprio ogni singolo episodio, padroneggiando il suo strumento e, sempre di più, la voce.

A tutto questo aggiungiamo la sua voglia di percorrere nuove strade unendo il necessario pragmatismo alla spiritualità, elementi con cui tratta argomenti di ordine superiore.

Svolgere il ruolo di apripista rappresenta un valore aggiunto e ciò che è contenuto in Fistful of planets part II” non mi pare abbia eguali, e allora mi sovviene una citazione nobile dantesca:

Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte...”

Ma cosa ne pensa Elisa?


Come nasce il tuo ultimo progetto, così “nuovo” rispetto alle esperienze precedenti?

Già dal 2016 avevo voglia di continuare il mio viaggio “galattico” iniziato con “Fistful of Planets part I”, ma per motivi personali e di lavoro ho avuto un lungo periodo di difficoltà e blocco artistico. Lavorare come musicista mi aveva inizialmente reso “arida” … suonare sei ore al giorno toglie molte energie e l’ultima cosa che avevo voglia di fare quando stavo a casa era quella di mettermi a suonare. A marzo dell’anno scorso, con l’avvento della pandemia, mi sono ritrovata ferma per alcuni mesi. Ciò mi ha permesso di ritrovare finalmente del tempo per me e soprattutto il piacere di fare musica con l’anima, la mia musica. Avevo già alcune idee in cantiere da anni, ma è tra marzo e dicembre 2020 che “Fistful of Planets part II” ha preso forma (così come anche il mio album “devoiler”) … due album in pochi mesi: è chiaro che fossi in astinenza!

Sono tre le figure femminili coinvolte ma il preascolto di cui mi hai privilegiato - quindi essenzialmente gli aspetti musicali - mi impedisce di comprendere appieno il contributo delle tue compagne di viaggio: me ne parli?

Le altre due donne - artiste sono coinvolte nella produzione in modi differenti: quando ho pensato al progetto del “box polisensoriale” sono partita dall’idea di voler corredare il disco di elementi che potessero stimolare i sensi umani. Ho proposto a Delphine - una fotografa/grafica che avevo conosciuto all’hotel in cui lavoro e che fin da subito mi è sembrata in sintonia con il mio mondo - di partecipare e di aiutarmi a creare la veste grafica del CD. Ma non solo: le ho spiegato il progetto e la mia volontà di creare uno spazio, ma non come quello dei film di fantascienza, realistico e “scientifico”: uno spazio più “polveroso”, come se il passare del tempo cosmico abbia fatto arrugginire i pianeti e abbia cosparso di polvere la galassia. Io immagino veramente lo spazio in questo modo, pieno di relitti meccanici in orbita e di pietre millenarie che fluttuano con incrostazioni e polveri gravitanti. Abbiamo poco a poco collegato l’idea del concetto musicale alle immagini, che si sono poi estese sul mio sito e sulle foto che Delphine ha fatto ed elaborato per decorare il libretto e comunicare l’avvento di questa nuova “galassia”.

Nella scatola, oltre al CD, ci sarà una stampa di un ritratto fatto ed elaborato da Delphine su una carta speciale “velvet” (numerato e autografato) e ancora, la scatola di cartone è decorata con timbri realizzati da lei riproducenti i nostri tre loghi “stregati”.

La Strega del Castello è una creatrice di profumi artistici di Genova: sono venuta a sua conoscenza tramite una coincidenza incredibile, proprio quando stavo cercando un produttore di profumi che potesse essere in linea con la mia idea. Ci siamo subito incontrate e abbiamo capito di avere visioni simili dell’arte e la passione dei profumi come elementi capaci di risvegliare memorie sepolte nella mente e richiamare in modo istintivo momenti del nostro passato o sogni e visioni.

Insieme abbiamo trovato un profumo che potesse “raccontare” e accompagnare l’ascoltatore nella prima parte del disco: è un sogno che ho da anni, fin da quando durante i concerti del Tempio delle clessidre spruzzavo dal palco un profumo a base di datura prima di eseguire il nostro brano “danza esoterica di datura”, quindi sono molto felice di essere riuscita a realizzare questo connubio! Credo molto al potere dell’olfatto unito a quello dell’udito per portare ad un livello superiore l’ascolto della musica e comprenderne i messaggi nascosti.

Il profumo sarà presente nella scatola e avrà un’etichetta personalizzata e “misteriosa”, lasciando così sconosciuto il sentore al fine di stimolare al massimo il senso dell’odorato e lasciare che l’ascoltatore si lasci trasportare dal proprio istinto e dalla propria memoria olfattiva.

Mi pare che al momento non sia garantita una distribuzione tradizionale: come hai pianificato la pubblicizzazione? 

Ho preferito procedere in modo del tutto autonomo, non conoscendo lo sviluppo della situazione generale e personale. Ho composto le canzoni in fretta perché ero davvero molto ispirata, lavorando 10/12 ore al giorno in casa per oltre tre mesi. Ho registrato tutto da sola nel mio appartamento, ma con materiale professionale (un amico mi ha prestato un bel microfono a condensatore e mi sono costruita un rudimentale studio nella mia cantina!). Quando la stesura dei brani era completata ho coinvolto i musicisti e ho passato la parte della coproduzione a Mattias Olsson, che lavorando da Stoccolma ha completato il tutto. Non è facile lavorare a distanza, ma per fortuna in questi ultimi anni ci siamo abituati (anche per “il-ludere” del Tempio era stato fatto così). Ho poi raccolto tutte le registrazioni e gestito l’editing. Questa è la parte che meno amo del lavoro, e avrei voluto avere la possibilità di delegare tutto ciò a uno studio professionale. Ma, come si dice, “di necessità virtù”, ho fatto passi avanti e a forza di risolvere problemi sono riuscita ad arrivare alla fine anche con i miei mezzi limitati!

Ho elaborato il mio sito e il mio Bandcamp personale in modo certosino affinché possa essere comodo ed efficace gestire le vendite dei miei lavori.

Sono attualmente in discussione per avere una distribuzione dell’album, alla fine credo ne valga la pena. Presto saprò come muovermi in questo senso.

Mi parli delle collaborazioni musicali? Mi pare ci siano molti nomi del “vecchio” habitat più nuove conoscenze derivanti dal mondo dei The Samurai Of Prog…

Alcune collaborazioni sono arrivate per caso, come quella con Ignazio Serventi, chitarrista che conoscevo da anni ma che avevo perso di vista, con cui casualmente è iniziata la collaborazione su alcuni brani di “dévoiler. Gli ho mandato alcuni brani per Fistful e li ha da subito amati. Per le batterie ho subito pensato a Paolo Tixi, semplicemente perché è il batterista che preferisco tra tutti quelli con cui ho suonato, per stile e intenzione sonora. L’ho coinvolto per i brani più “prog”, mentre per quelli più sperimentali ho dato la palla a Mattias, anche perché gli arrangiamenti prevedevano anche percussioni e suoni orchestrali.

Diego Banchero suona il basso in “Washing the clouds” ed è stato casuale, poiché proprio quando Ignazio stava registrando per me, si è incontrato con Diego: visto che nel brano mancava ancora il basso il tempismo era perfetto e dopo un breve scambio di messaggi Diego ha registrato la parte: gli sono davvero riconoscente e ovviamente dà un valore in più a questo brano!

Stefano Guazzo è un sassofonista genovese che ammiro molto: ho pensato subito a lui perché so che avrebbe dato qualcosa di speciale nell’improvvisazione “folle” del brano “Into the black hole”. Volevo un sax, anzi due, che potessero richiamare i brani più jazzati dei King Crimson e che potessero dare quella sensazione di “aggressività” che il suono del sax può dare, quando è usato in un certo modo.

C’è poi Steve Unruh, polistrumentista che ho avuto il piacere di conoscere grazie alle collaborazioni con The Samurai Of Prog: per me è un musicista fenomenale e lo ha confermato con i suoi interventi, ha aggiunto personalità e vibrazioni meravigliose alle parti che avevo composto con strumenti virtuali.

Importantissima ovviamente la collaborazione con Mattias Olsson, che ha coinvolto anche il suo collega Hampus e ha portato i brani ad un livello superiore: incredibile la ricerca sonora con l’uso di sintetizzatori vintage ma processati in maniera sperimentale… l’uso di vere tubular bells, di mellotron che hanno sostituito i miei virtuali, di percussioni e ritmiche che hanno dato colore e dinamica come mai avrei potuto fare da sola.

Questi sono alcuni dei musicisti coinvolti, quindi puoi immaginare la mole di lavoro che c’è dietro nel gestire il tutto e la difficoltà di portare avanti un filo logico senza troppo andare fuori tema. Ma ora posso dire di aver raggiunto l’obiettivo senza discostarmi, e grazie alla disponibilità degli amici e artisti questo è stato possibile.

Come avevo già anticipato commentando “dévoiler” - tuo album rilasciato ad aprile - su “Fistful of planets part II” è presente la canzone “Washing the clouds”, ricorrente nei tuoi ultimi lavori, seppur con diversi arrangiamenti: cosa rappresenta per te?

Washing the clouds è una canzone che scrissi nel 2017. Come ho detto prima, stavo vivendo un periodo molto difficile, mi ero appena trasferita in Svizzera per lavoro, mi sentivo sperduta e non parlavo nemmeno il francese. Non componevo musica da quasi un anno e mi sentivo triste. Un giorno guardando dalla finestra, vidi nel cielo delle nuvole nere e, poco distante, delle altre nuvole bianchissime. Immaginai che le nuvole fossero nere perché piene di “sporco”, di negatività… e quelle bianche non erano nient’altro che nuvole nere ma “pulite”, come se fossero state passate in lavatrice. Da questa surreale visione ho elaborato nella mia mente l’idea che, se le anime delle persone fossero come quelle nuvole, si potrebbero “lavare” e purificare per tornare ad essere belle e pure come all’inizio. Questo pensiero anche perché ero a contatto con persone fortemente negative e piene di “energia tossica” e stavo soffrendo molto cercando di curare in qualche modo gli altri, ma non riuscendoci mai. Ho pensato dunque di farlo scrivendo questa canzone. Per questo motivo l’arrangiamento non è stato subito creato, ho registrato una rudimentale versione solo piano e voce e suoni virtuali, ma soltanto nel 2020 sono riuscita a riprenderla in mano ed elaborarla. Prima con i “Samurai”, avendo già un’idea di come procedere per “Fistful”, e poi con quella “ufficiale” per il mio disco. A differenza della versione proposta con i TSOP, che è stata gestita interamente da loro, per questa versione abbiamo attraversato molte difficoltà e problemi durante la lavorazione. Non ero mai soddisfatta del risultato, è stato un vero e proprio travaglio! Alla fine, però, ci siamo riusciti. Mattias è stato paziente ed è arrivato a ricreare il finale che volevo… per me è estremamente importante riuscire ad esprimere le emozioni allo stato puro tramite la musica, ma non sempre si sa come fare. Qui l’arrangiamento è incredibilmente complesso, pensa che ci sono nove piste soltanto per il violoncello, oltre a mie voci sovrapposte, mellotron, percussioni di vario tipo, strumenti con il suono di “sirena spaziale”, tutto è volto a creare una melodia che faccia volare e che si stacchi dalla realtà.

Seguendo costantemente la tua proposta si ha la netta sensazione dell’evoluzione e della tua crescita personale, nonché della maturazione che passa attraverso la ricerca di nuovi percorsi: puoi provare ad autodefinire il tuo momento professionale?

Da quando faccio musica a tempo pieno lotto con la stanchezza e la pigrizia durante il tempo libero, ma dall’anno scorso ho ritrovato un equilibrio e ho deciso di usare tutto il tempo e le energie che ho a disposizione per evolvere e creare. È il mio scopo di vita e niente e nessuno può più soffocare questo istinto. Mi sento serena sotto questo punto di vista poiché sono maturata come persona e come musicista. Suonare da soli per ore ed ore può portare a “fossilizzarsi” oppure a una continua evoluzione. La paura di divenire un esecutore meccanico di piano bar mi ha fatto reagire e andare ancora più a fondo nella mia personalità artistica. Ho dedicato tutto quanto prendendo questa direzione e ho scoperto che scrivere musica per me è ancora qualcosa di inspiegabile, l’idea, la melodia, le parole, arrivano così, senza premeditazione, e ogni volta sembra l’ultima ispirazione. Se vogliamo è una sorta di sofferenza perché non so mai se ci saranno nuove ispirazioni o se mi bloccherò. parallelamente a ciò mi sono rimboccata le maniche e ho passato giorni al computer cercando di riuscire ad essere il più autosufficiente possibile in fatto di produzione musicale (e da un po’ di tempo anche video e web), ammetto che è molto faticoso perché non possiedo basi adeguate, ma ho risolto problemi e raggiunto risultati che mai avrei pensato di essere capace di raggiungere. Questa mia attitudine si rispecchia un po’ in tutti gli aspetti della mia vita. Sono aperta e non ho paura di esprimermi… certo spesso sento frustrazione e sono triste per l’indifferenza che c’è tutt’intorno, ma non perdo tempo a farmi domande e continuo, perché so che per qualcuno potrebbe avere un senso e perché è il senso della mia vita.

Puoi tracciare l’elemento di continuità tra “Fistful of planets” part I e part II?

La parte 1 è stato l’inizio del viaggio, concretamente, perché sono partita per andare a lavorare in vari luoghi e artisticamente, perché ho creato questa idea della galassia immaginaria e dei pianeti/canzoni di diversi colori. Adoro tutto ciò che è spazio e ignoto, astronomia ed enigmatica sono state tra le mie passioni più spiccate da quando ero bambina. Durante i miei spostamenti ho voluto provare a fissare alcune sensazioni e visioni. Nella “part I” tutto ciò è ancora piuttosto timido, i brani sono brevi e la durata del disco è limitata, proprio perché avevo paura di “rubare troppo tempo” all’ascoltatore e di annoiarlo. Questa paura esiste tuttora, credo non la supererò mai. Ma nella “part II” ho osato di più. Mi sono sentita di raccontare in modo più incisivo questo universo, ho aggiunto elementi come il buco nero e l’esosfera proprio per sensibilizzare l’ascoltatore su come questo viaggio sia adesso più profondo e importante. “Fistful of Planets part II” inizia con un forte legame alla Terra, ad un’epoca passata dove esistevano i grammofoni, le stoffe vellutate, le foto sfumate seppia… e passa velocemente ad uno stato di smarrimento algido in un abisso sconosciuto, con echi di pianeti amici, ma con un inevitabile senso di vuoto e di introspezione che spesso fa paura. Spero davvero di portarvi con me in questo viaggio e di sorprendervi trovandovi diversi alla fine dell’ascolto.

È ipotizzabile una tua proposizione live di “Fistful of planets part II”?

Per ora non saprei. Me lo sono immaginato più volte durante il processo lavorativo, perché mi piacerebbe tantissimo poter portare questa musica dal vivo. Gli arrangiamenti sono articolati e sarebbe impossibile riproporli tali e quali in sede di live, ma le canzoni sono state composte quasi tutte in modo intimo e con l’idea di essere “raccontate”. Io credo che se una canzone ha questo tipo di anima, essa può essere eseguita in diversi modi ma mantiene la sua essenza. Se ci saranno occasioni di live, ho già previsto delle eventuali soluzioni e non mi tirerò indietro, anzi, ne sarei emozionata e contenta!