domenica 30 agosto 2020

M'Z-L'autopsie du dogme


Dietro al nome M’Z si cela il progetto di Mathieu Torres - compositore, musicista, chitarrista - che propone il suo concept “L'autopsie du dogme”, una lunga suite di 56 minuti, senza soluzione di continuità.
Incuriosito, ho cercato tracce della sua storia, della sua formazione e delle produzioni pregresse, ma non ho trovato note importanti, per cui mi baso su quanto ho ascoltato e sul pensiero dell’autore, presente nel comunicato di presentazione del disco, tutto tradotto e riportato a seguire.
E sono proprio le sue chiare elucubrazioni che spiegano nel dettaglio il potente messaggio che contiene il suo lavoro, focalizzato su riflessioni che riguardano l’evoluzione dell’industria musicale, con amare sottolineature relative al momento contingente.

Completamente prodotto in proprio, con l’ausilio di quella che Torres denomina “la mia famiglia musicale” - probabilmente i suoi collaboratori di fiducia - mi ha colpito per la capacità di sintesi di stili di cui nel disco si usufruisce in piena libertà, e forse per questa caratteristica precisa il tutto si può collocare in ambientazione prog.
Mi riferisco a generi ben costituiti a cui Torres trova il giusto amalgama, navigando tra classica, jazz, prog puro e musica elettronica, e il compendio tra anni ’70 e ’80 si trasforma in novità, in lavoro fresco e accattivante, pronto per gli anni 2000, con un cantato alternato tra più protagonisti, in equilibrio tra lingua inglese e francese (il progetto è francofono).
D’acchito potrebbe sembrare un ascolto impegnativo, proprio per la mancanza di soste, e in effetti è richiesta una buona concentrazione, ma l’unico avvertimento che potrei dare all’ascoltatore curioso è quello di approcciarsi avendo a disposizione il tempo per una fruizione totale, perché il collante che unisce la musica  - e le idee di “L'autopsie du dogme” - necessita di un flusso completo, che possa far cogliere i differenti momenti di passaggio e i cambi di mood.

Sarebbe interessante sapere se il progetto è il frutto di un lungo lavoro alimentato nel tempo, o se è nato istintivamente e rapidamente, a seguito delle costrizioni legate al momento drammatico che stiamo vivendo, ma senza porsi troppe domande il suggerimento è quello di premere lo start e lasciarsi coinvolgere, perché risulterà estremamente piacevole essere avvolti da un’onda musicale costituita da una estrema qualità sonora, una sorta di episodio didattico che non lascerà di certo indifferenti.

Ma tocca a Mathieu Torres il compito di spiegare i suoi intenti, e a fine articolo propongo l’album per intero, così, tanto per alimentare il confronto…
Partiamo quindi per un viaggio, quello che Torres definisce come “… fatto con molta passione e anima…”.

L'autopsie du dogme" è un brano musicale lungo 55,55 minuti che passa attraverso differenti generi, dal Metal al Jazz, dal Punk all'EDM, dal Jungle al Pop, dal Grunge alla musica da film, da tonale a modale…
Si può considerare un progetto solista, ma nel realizzarlo mi sono circondato della mia famiglia musicale, presente anche nella registrazione.
L’album si sforza di riflettere su due assi in parallelo:

La più ovvia è la satira rivolta all’intera industria musicale all’alba della sua morte, senza risparmiare nessuno, e mi è sembrato importante rendere omaggio, oltre che criticare, ciò che lo merita in questo ambiente, cercando di evidenziare la bellezza di questi pionieri - e dei movimenti di culto corrispondenti -, ben usati da attività denominate “artistiche”, che utilizzano la materia fino al suo totale sfruttamento, come accade per ogni industria, nel mondo del neoliberismo.
Stanca dei capricci e delle "debolezze" di questi artisti che prosciuga, l'industria pensa di poter riprodurre i codici dalla musica, o addirittura crearne di nuovi, senza alcun interesse per l’arte e per chi la persegue, e questa “magia nera” funziona perfettamente per chi ama l'oro e sa che la qualità della materia prima ha poca importanza quando si padroneggiano gli strumenti di propaganda per influenzare il pubblico.

È anche un modo per creare un parallelo - e una riflessione - tra la morte di Dio raccontata dai pensatori moderni e quel che resta di quei dogmi creati per promuovere il controllo e il dominio sui popoli. Sarebbe pazzesco pensare che basta uccidere Dio per emanciparsene: oltre la figura di Dio ci sono tutti i dogmi tentacolari che sussistono e che per la loro eleganza, i loro sofismi, le loro manipolazioni - o auto-manipolazioni - sanno ancora sedurre, e c'è poi il percorso individuale che ognuno può intraprendere affinché finalmente Dio non occupi più un solo cuore umano.

Ci sarebbe anche un terzo asse, più personale, dove ognuno di questi personaggi sarebbe una parte del mio essere, perché ovviamente sarebbe troppo caricaturale e manicheo pensare alle cose in modo così binario, e mi sembra che ognuno di noi possa essere alternativamente un'industria, un sacco di dogmi, o un tiranno, quando usiamo male gli ingredienti che abbiamo a disposizione. Tutti gli elementi sono utili, purché applicati nella giusta quantità.

Spero quindi che questo album possa fornire un punto di equilibrio e che sappia rendere omaggio sia al pragmatico che al sognatore, e quindi impedire a una delle nostre voci interiori di parlare più forte delle altre, almeno per un po’."


I MUSICISTI

Stéphanie Artaud: pianoforte, liriche, voce
Hugo Lemercier: oude (da 07:50 a 11:06)
Julien Langlois: sassofono, clarinetto, voce
Baptiste Segonne: batteria (eccetto I campionamenti nella parte di and Camille Bigeault)
Camille Bigeault: batteria (da 21:43 a 24:12)
Laurent Avizou: chitarra solista (da 25:54 a 27:48)
Matthieu Paolini: flauto, voce
Yannick Cognet: Flauto e sassofono (da 38:43 a 39:37)
Mathieu Torres: Composizione, programmazione, orchestrazioni, chitarre, testi e concept










martedì 25 agosto 2020

Marco Damiani, il jolly della PFM

Marco Damiani, seduto in basso a sinistra

In ogni settore lavorativo, in ogni nuovo progetto, in qualunque gruppo di anime in movimento organizzato, esistono elementi che lavorano nelle retrovie, che non hanno - e non amano - i riflettori, che sono in ogni caso motore della progressione, e di loro il grande pubblico, quando va bene, si accorge solo nel momento dell’epilogo, alla fine del percorso di una vita.

Non conoscevo Marco Damiani - mea culpa -, ma scopro oggi quale grande merito abbia avuto nella svolta storica della PFM, con il passaggio dal pop di I QUELLI al nascente prog, che avvenne proprio grazie a lui.

Questo fatto mi ha incuriosito e ho ricercato le origini, chiedendo a Giorgio “Fico” Piazza, bassista di quelle formazioni, come siano andate le cose. 
Rendergli omaggio mi sembra il minimo.
Sono passati tanti anni, la memoria non può riportare ai dettagli, ma il suo racconto mi sembra interessante…

“Ho avuto la brutta notizia da “Zeta”, uno dei nostri roadie dell’epoca.
Marco Damiani era chiamato all’epoca “Il gorilla”, anche se non ne ricordo il motivo.
Era di Brescia, all’epoca quasi avvocato, e sentì suonare I QUELLI al PARADISE, locale cittadino in cui suonava anche Mauro Pagani con il suo gruppo.
Noi de I QUELLI proponevamo il rock dell’epoca, quello dei Deep Purple, dei Led Zeppelin e degli Uriah Heep ma lui, dopo aver intuito il nostro potenziale, ci spinse ad ascoltare il nuovo che stava arrivando, e ci fornì il materiale per toccare con mano la musica dei King Crimson e dei Jethro Tull, tanto per fare un paio di esempi. Sintetizzando al massimo, Mauro Pagani si unì a noi e… nacque così la PFM!
Marco - riconoscibile ai tempi per barba e occhiali - diventò il nostro fonico, facendo parte dell’entourage assieme a Lombardi - conosciuto tramite il nostro manager Franco Mamone - che ci forniva gli strumenti e che crebbe professionalmente assieme a noi.
All’interno del PARADISE provammo per mesi il genere suggerito da Marco, lavorando su musica “vecchia” e nuova, e quando fummo pronti iniziammo ad aprire i concerti dei grossi nomi, favoriti dall’attività internazionale del nostro manager che ci inseriva in contesti più prestigiosi.
Ricordo che non c’era mai una seconda data simile, perché la nostra bravura rappresentava un problema per gli headliner che temevano di vedere ridimensionata la loro performance.
Andammo avanti così per un paio di anni, ma ridurre il ruolo di Marco Damiani a quello di fonico e illustratore sarebbe ingeneroso, e penso al contrario che possa essere considerato il fautore dell’inizio della storia della PFM.
L’ultima volta che lo vidi fu una decina di anni fa, nella cascina in cui abitavo all’epoca, e la visione della mia casa, un po' isolata e di ampie dimensioni, lo portò a viaggiare con la mente, pensando alla costituzione di una comune… uno spirito libero, il jolly della PFM!”



Sulla pagina facebook della PFM si legge:


“Un grande abbraccio a Marco Damiani, nostro primo fonico e autore dell'immagine interna di "Storia di un minuto", che ci ha lasciato. BUON VIAGGIO e grazie per essere stato uno di noi.”










Anche Franco Mussida ha un pensiero per Marco.

"Oggi se n’è andato Marco Damiani, un sensibile e bravo compagno di Musica in un periodo magico, quello in cui la PFM si stava formando. Amico di Mauro, mi è rimasto nel cuore per la sua coraggiosa eccentricità anticonformista e, soprattutto, per la capacità di governare il suono del gruppo in modo magistrale, con mezzi e impianti voce della prima ora. Con un Mixer Lombardi, con pochi canali e poche casse, era capace di creare amalgama sonori di grande suggestione. Lavorava con i reverberi creando effetti, per quei momenti, unici e di grande fascino. Ha contribuito a dare una ulteriore personalità al suono live del gruppo.
Di lui mi rimane il ricordo di una persona buona ed entusiasta, che ha sempre visto la realtà fisica come una porta da superare, come apparenza, e il mondo del suono una magia capace di creare mondi fantastici.
Devo a lui una delle sensazioni più belle che un musicista possa vivere su un palcoscenico: quella di ascoltare il suono complessivo del gruppo con tutti i suoi giusti equilibri naturali. Il modo con cui disponeva le casse a semicerchio attorno ai locali e non di fronte al pubblico (alcune quindi rivolte dalla sala verso di noi) era tale da restituirmi la magia dei suoi mix integrali, cosa che con i monitor davanti non è mai possibile avere. Un vero godimento. Grazie Marco… buon viaggio.
Franco".

Eccolo in un video storico della RAI




venerdì 14 agosto 2020

Nel ricordo di Roy Buchanan


Il 14 agosto del 1988 ci lasciava Roy Buchanan, considerato tra i 100 chitarristi più bravi di tutti i tempi. Il filmato che presento a seguire è "Sweet Dream", uno dei suoi pezzi più famosi, ma forse non rappresentativo delle enormi qualità chitarristiche di Roy.

Un po' di biografia...

È forse l'artista che ha avuto la carriera più difficile nella storia della musica ed è solo dopo l'uscita del suo primo album solista, nel 1972, che il pubblico si accorge di lui. Era però da oltre un decennio che Roy Buchanan suonava come session man, ruolo con cui si conquistò una fama quasi leggendaria. 

Nato a Ozark in Arkansas il 23 settembre 1939, figlio di un predicatore, cresce a Pixley in California ascoltando soprattutto gospel e folk. Inizia lo studio della steel guitar verso i nove anni poi a circa quindici anni si trasferisce prima a Los Angeles e poi a San Francisco. Nel 1958 entra a far parte del gruppo di Dale Hawkins, dove sta per tre anni e contribuisce a rendere "Suzie Q" un hit internazionale. Infatti l'assolo di chitarra inventato da James Burton viene ripreso e migliorato in modo eccezionale da Roy. Suona rockabilly e diventa musicista molto richiesto. Durante un tour a Toronto Roy incontra un giovanissimo Robbie Robertson che comincia a muovere i primi passi nell'ambiente musicale. Lo stesso Robbie Robertson ricorda: "Era grande, grandissimo, il miglior chitarrista che io abbia mai visto. Mi ricordo di avergli chiesto come aveva sviluppato il suo stile e lui mi rispose che era un lupo, per metà". Nel 1959 Roy riesce ad incidere anche alcuni singoli a suo nome. Nel 1962 partecipa insieme ad Al Downing al singolo di Bobby Gregg "The Jam", che entra nei Top 30 di quell'anno. 

Il 1963 è l'anno del trasferimento a Washington D.C., la città di sua moglie Judy, e quì suona nei clubs con varie bands da lui formate, ma le difficoltà a trovare ingaggi buoni lo costringono a lavorare part-time come barbiere senza però abbandonare la sua fedele Telecaster; in questo periodo affina sempre di più il suo personale stile chitarristico sperimentando suoni particolari con il feeback, il distorsore e il fuzztone. Fino alla fine dei '60 impartisce lezioni di chitarra e suona regolarmente al Crossroads Club di Bladensburgh nel Maryland, incide alcuni demos con la band del momento "The Sound Masters". Finalmente la stampa comincia ad occuparsi di Roy Buchanan e Rolling Stone lo definisce "Il miglior chitarrista sconosciuto del mondo", corre voce che anche i Rolling Stones lo vorrebbero con loro per sostituire Brian Jones. La Polydor che si comincia a muovere sul mercato americano lo mette sotto contratto e incarica il produttore Bob Johnston (Bob Dylan, Leonard Cohen) di occuparsi di Roy, affiancandolo ad un'altro emergente, Charlie Daniels. Pur senza aver inciso nessun disco Roy Buchanan riesce a fare il tutto esaurito alla Carnegie Hall; nel frattempo Tom Zito, dopo alcuni set di registrazioni, riesce a mettere insieme il materiale necessario per incidere il primo disco di Roy. 

Questo avviene nel settembre del 1972 ed il titolo è semplicemente "Roy Buchanan". Roy disse che la registrazione in studio durò soltanto cinque ore, ma ciò non impedì che fosse un ottimo album, un mix di Blues e Folk che rifletteva in pieno i trascorsi musicali di Buchanan supportato da assoli di chitarre limpidi e precisi. Le vendite dopo un anno raggiunsero la ragguardevole cifra delle 200.000 copie vendute. In verità il vero primo disco di Roy fu una autoproduzione dei primi anni Settanta, "Buch and The Snake Sretchers". Passato inosservato, raggiunse negli anni successivi notevoli quotazioni di mercato, mantenendo anche nella ristampa la sua originale confezione con il sacchetto di iuta. 

La Polydor visto il successo del primo disco pubblicò nel febbraio del 1973 "Second Album" il miglior disco in studio inciso da Buchanan, un perfetto connubio tra Blues e Musica delle radici, un successo di vendite con mezzo milione di copie. Il cruccio principale di Roy Buchanan è la scarsa propensione al canto, tanto che egli preferisce molto suonare brani strumentali, ma per motivi commerciali la casa gli impone di collaborare con dei cantanti e Roy ne cambia molti fino a quando non incontra Billy Price, un buon cantante con una spiccata tendenza alla musica nera. 
Con Price Roy, sempre nel '73, incide il terzo disco "That's What I Am Here For" mantenendosi sugli standard dei precedenti lavori. 

Con il quarto album "In Te Beginning" (in Europa con il titolo"Rescue Me") si hanno i primi segni di appannamento. Le cose vanno meglio con il successivo "Live Stock" registrato alla fine del '74 a New York, performance di notevole effetto. 

Nel Frattempo il contratto che lo lega alla Polydor si scinde e con l'Atlantic pubblica il suo sesto album "A Street Called Straight", seguito da "Loading Zone", lavori dignitosi ma molto lontani dai primi, con sonorità funky rock non particolarmente brillanti. Il secondo live, del '78, "Live In Japan", migliore del primo, contiene una versione stupenda di "Hey Joe", un grande omaggio a Jimi Hendrix. Nel 1980 è la volta di "My Babe" con l'etichetta "Waterhouse", lavoro da dimenticare; il momento più basso della carriera. Da questo momento Roy scompare dalla circolazione, assillato da problemi esistenziali, dall'alcol e dalla droga e si rifugia con la sua famiglia a Reston, in Virginia. Nel 1985 rientra in scena con un contratto con l'Allligator e pubblica i suoi ultimi lavori " When a Guitar Play The Blues" (1985), "Dancing on The Edge" (1986), "Hot Wires" (1987); ottimi dischi a cui si alternano tournees in Europa e in Australia, Roy sembra un uomo rinato ma purtroppo non è così, la dipendenza dall'alcol non gli evita di essere arrestato per ubriachezza ed il 14 agosto 1988 il nostro Roy s'impicca nella prigione della sua città. Scompare uno dei più grandi talenti chitarristici di tutti i tempi, sottovalutato da pubblico e critica, introverso e schivo, tormentato da problemi esistenziali ha vissuto una vita travagliata e sofferta come testimonia il brano "Dual Soliloquy" (sull'antologia Sweet Dreams) performance acustica di struggente carica emotiva.

Sweet Dream







Christine Hinton e il dolore di David Crosby



Nel 1971 David Crosby propone “If I could Only Remember My Name”, suo primo album solista.
Ci ha lavorato duro nella seconda metà del ’70, ma con lo stato d’animo depresso principalmente ispirato al dolore. La morte per incidente stradale, l’anno precedente, della fidanzata Christine Gail Hinton lo ha gettato nella disperazione più cupa.
Lo studio di registrazione è il solo luogo in cui Crosby riesce a trovare una relativa pace, circondato dalla “creme” musicale californiana (Joni MitchellGraham NashGrace SlickJerry GarciaPaul KantnerJorma KaukonenNeil Young …).
A disco ultimato, David Crosby cade in una profonda crisi esistenziale e trascorre un anno in prigione, per possesso di armi e droga.
Ma cos’era accaduto a Christine Hinton?

Ezio Guaitamacchi, nel suo “Delitti Rock”, lo racconta così…

Christine sta guidando il pulmino di David e al suo fianco c’è Barbara Langer, moglie del chitarrista di Country Joe and the Fish. Siamo a 
NovatoCalifornia, ed è il 30 settembre del 1969.
Le due donne sono attese da un veterinario che deve curare i gatti di Christine. Gli animali sembrano molto agitati, e durante il tragitto uno di loro fa un balzo dal sedile posteriore e si ritrova in braccio alla Hinton, che perde il controllo del veicolo. Sulla corsia opposta sta giungendo un’altra vettura e lo scontro è inevitabile. Barbara Langer se la cava con qualche ferita, ma Christine muore sul colpo.
Crosby, subito avvisato, si precipita all’ospedale, giusto in tempo per vedere la sua donna avvolta in un lenzuolo insanguinato, trasportata in una bara dall’ambulanza.
Lo shock è terrificante.
David Crosby impiegherà anni a metabolizzare il lutto: dopo un anno di navigazione sul suo veliero d’epoca spargerà le ceneri della sua amata nelle acque dell’Oceano Pacifico, sotto le arcate del Golden Gate.
A lei, nel frattempo, ha dedicato una delle sue canzoni più belle e ispirate di sempre: si intitola “Guinnevere”, e racconta di una donna dolce e bellissima, con grandi occhi verdi.

Ascoltiamola dal duo David Crosby/Graham Nash