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Innocenzo Alfano mi ha inviato un altro interessante articolo.
Chi non ha mai letto, almeno una volta, una bella classifica dei “migliori 100” chitarristi rock? Credo che sia capitato a tutti di leggerle. Beh, il problema di quelle classifiche è che, purtroppo, sono spesso compilate da persone che non hanno molto chiara la differenza tra chi la chitarra sa suonarla bene e tra chi, invece, la suona in maniera approssimativa o tutt’al più in modo elementare. Ma il guaio ancora più grosso è che, in molti casi, le persone – o gruppi di persone – che compilano quelle classifiche sono considerate "autorevoli". Per parlare (in breve) di questo argomento, sul bimestrale “Apollinea”, ho preso spunto dalle vicende artistiche e umane di Terry Kath, bravissimo chitarrista dei Chicago per dieci anni consecutivi, ma il cui nome, in quelle classifiche, non è mai comparso, e continua a non comparire, troppo di frequente...
Terry Kath e i “100 migliori chitarristi rock”
di Innocenzo Alfano
Come mi piace ripetere ogni volta che ne ho l’occasione, e come ho anche scritto sulla quarta di copertina di Effetto Pop (Aracne, Roma, 2008 e 2010), nel rock i musicisti bravi vengono spesso definiti pretenziosi, quelli mediocri dei geni. Esiste però anche una terza possibilità, ed è quella che consiste, per quanto riguarda però solo i musicisti bravi, nell’ignorarli. È ciò che è successo allo statunitense Terry Kath (nella foto), estroso chitarrista dei Chicago nel corso di due lustri esatti, dal 1968 al 1977, l’anno che precedette quello della sua prematura ed improvvisa scomparsa causata da uno stupido quanto incredibile incidente, avvenuto un pomeriggio in cui Kath, un po’ brillo dopo aver partecipato ad una festicciola, decise, sotto lo sguardo preoccupato della moglie e di un amico, di mettersi a giocare con delle pistole. Vere, purtroppo.
Kath era un chitarrista completo, un musicista in grado di muoversi con disinvoltura in ambiti come il rock, il blues ed il jazz, come pure in territori più sperimentali ed avanguardistici (si ascolti a tal proposito Free Form Guitar, un brano tratto dal primo storico, oltre che doppio, album dei Chicago, pubblicato nella primavera del 1969). Tra i suoi estimatori vi era anche, giusto per dare un’idea del personaggio e delle sue qualità, nientemeno che il grande Jimi Hendrix. Eppure, incredibilmente, il nome di Terry Kath è stato sempre trascurato dalla storiografia rock “ufficiale”, a vantaggio di musicisti spesso nettamente inferiori a lui sia da un punto di vista tecnico che della fantasia. Ed infatti, se diamo un’occhiata alla lista dei 100 migliori chitarristi di tutti i tempi stilata dal mensile Rolling Stone, si noterà come il nome di Terry Kath non ci sia. Ci sono invece George Harrison (21), Keith Richards (10, uno dei chitarristi meno dotati di tutta la storia del rock e nonostante ciò qui addirittura nella top ten, e, come se non bastasse, quattro gradini sopra Jeff Beck!) e Lou Reed, il quale, grazie alla 52ª posizione, è ritenuto persino più bravo del celebre “southern rocker” Dickey Betts, soltanto 58esimo. E pensare che Rolling Stone è stata considerata per lunghi anni la “Bibbia” della musica pop/rock. Ma forse, a ben vedere, il problema è proprio questo.
Il sito internet DigitalDreamDoor.com, che contiene a sua volta una classifica simile ma divisa giustamente per generi, ha invece incluso l’ex chitarrista dei Chicago fra i 100 migliori chitarristi rock, sebbene solamente al 55º posto, dietro ai soliti Keith Richards (30), George Harrison (31) e finanche Curtis Mayfield (51), uno che nella sua lunga carriera ha fatto più che altro il cantante. Questo sito internet – cioè i suoi curatori – ha comunque avuto il merito, rispetto all’“autorevole” Rolling Stone, di inserire il nome di Terry Kath escludendo nel contempo Keith Richards dalle prime posizioni. A proposito di nomi, quello di Ollie Halsall, straordinario chitarrista prima con i Patto, poi con i Tempest e in seguito per diversi anni collaboratore nei dischi di Kevin Ayers, non c’è in nessuna delle due classifiche, perlomeno tra i primi cento posti. Forse, mi viene da pensare, perché era troppo bravo, e magari pure un po’ pretenzioso… (digitaldreamdoor “piazza” Ollie Halsall al 160º posto, e al 193º e 194º inserisce Ted Turner ed Andy Powell dei Wishbone Ash, due spettacolari chitarristi che Rolling Stone, naturalmente, ignora del tutto).
A scanso di equivoci va detto che tutte le classifiche dei “migliori
“Mezzafemmina” è il nome scelto da Gianluca Conte per raccontare le sue storie e la sua musica. Non è casuale, è appellativo che ha un suo iter che parte da terre lontane, da momenti antichi, da situazioni che lasciano il segno. Il tutto si potrebbe tradurre in una sensibilità particolare che si tramanda nel tempo e che consente a Mezzafemmina di raccontare delle … “Storie a Bassa Audience”.
Il titolo dell’album non lascia spazio all’immaginazione. Trattasi di racconti di vita quotidiana, molti dei quali aventi come oggetto il disagio, ma poco spendibili nei contenitori pubblici, luoghi in cui la notizia non è mera informazione, ma fa da traino ad un impressionante mondo indotto.
Otto brani, otto episodi di vita che presi singolarmente potrebbero essere lo spunto per discutere dall’alba al tramonto. Ma la musica non è solo discussione, non è solo poesia, non è solo denuncia, ma deve/può essere l’insieme di queste cose più altre ancora, soprattutto se uno sceglie il mestiere del cantautore, del cantastorie.
Cantautore è di fatto colui che scrive ed esegue le proprie canzoni e in questo contenitore può trovare spazio qualsiasi cosa.
Cantastorie è colui che crea pensando a chi riceverà il messaggio, che denuncia e si pone la piccola grande missione di scalfire la montagna del disinteresse verso ciò che purtroppo è divenuto la regola e non l’eccezione.
In questa mia personalissima lettura, Mezzafemmina fa sicuramente parte della seconda, nobile famiglia, e le canzoni che compongono l’album hanno il pregio di “dire con crudezza “, senza dimenticare il lato musicale. Perché è di musica che stiamo parlando.
Esistono album che necessitano di molteplici ascolti prima di essere metabolizzati. “Storie a Bassa Audience” mi ha lasciato immediatamente (al primo colpo) qualche traccia in testa, tra giri di chitarra, pensieri e parole, e anche un “tormentone” (il ritornello di “Insanity Show” mi ha riportato a Rino Gaetano).
Attraverso il sito http://www.mezzafemmina.com/ è possibile arrivare a tutte le notizie utili sul musicista e sull’album, testi e brani compresi.
Nell’intervista a seguire Mezzafemmina/Gianluca Conte soddisfa qualche mia curiosità e … si scopre un po’.
L’intervista…
Ho letto delle tue origini e dalla motivazione del tuo “scangianome”, in cui risiedono radici profonde. Esistono teorie (e libri) che teorizzano e uniscono un particolare tipo di musica alla terra in cui operano i musicisti che la compongono. Quanto influenza ha avuto sulla tua musica la storia della regione da cui tu (o i tuoi genitori) sei partito?
La terra di cui parli mi ha influenzato in maniera diretta proprio nel cominciare a pensarmi come cantante e autore, negli infiniti pomeriggi passati a suonare e cantare con tanti altri ragazzi della mia età. Oggi da un punto di vista strettamente musicale l’influenza della mia terra sulle mie canzoni è soltanto accennata in alcune parti, mentre è molto più forte il riferimento ai cantori pugliesi nel mio modo di raccontare problemi sociali attraverso la storia individuale di una persona.
Per un cantautore, per chi racconta il quotidiano, le parole sono il pane di ogni giorno e il mezzo per “passare” i propri messaggi. La scorsa settimana, leggendo l’autobiografia di un famoso cantautore italiano, ho appreso di un suo momento “da lacrime” legato all’ascolto di una musica priva di liriche. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei suoni, al di la delle parole?
Il suono è assolutamente importante. Per quanto il testo sia fondamentale nel mio progetto e nella mia idea di canzone, la musica è ciò che da respiro e che rende più (o meno) piacevole qualsiasi cosa si scriva. Non a caso in questo album c’è stato un lavoro molto attento di arrangiamento e l’uso di moltissimi suoni anche molto particolari: dal piano giocattolo al metallofono, dai clap clap al semplice mantice della fisarmonica, dal sax distorto al basso cotonato. Tutto questo perché anche se, ribadisco, ho sempre dato un ruolo di primissimo piano nelle mie canzoni al testo adoro ascoltare gruppi e artisti che al contrario mettono il suono in primo piano, ed è quindi molto facile trovarmi, come dicevi nella domanda, assorto ed emozionato nell’ascoltare Beethoven e i Sigur Ros, o caricato dall’ascolto dei 65days of Static o dei Mogwai o dei Prodigy.
Esiste un artista più di altri, che con il suo esempio ti spinto sulla strada della musica?
In età adolescenziale sono stati fondamentali Nirvana e Litfiba prima, e Sonic Youth e Marlene Kuntz poi nell’offrirmi un certo tipo di visione della musica, sotto tutti i punti di vista. Forse non avessi incontrato questi gruppi nel momento in cui cominciavo timidamente a cimentarmi nella musica oggi non farei quel che faccio o comunque lo farei in maniera diversa. Per questo reputo questi gruppi fondamentali per la mia formazione musicale. Ovviamente ce ne son stati e ce ne sono sicuramente tutt’oggi altri che in qualche modo, magari anche inconsapevolmente, mi ispirano, ma quelli rimangono i “pro-genitori” imprescindibili.
Forse raccontare il disagio in cui viviamo è più semplice che non descrivere i momenti sereni, per il solo fatto che il materiale a disposizione è di maggiore quantità. E’ possibile però avere la predisposizione a cantare il dolore piuttosto che la gioia?
Non credo che si possa parlare di una predisposizione a cantare il dolore. Certamente ci vuole probabilmente una sensibilità particolare per immedesimarsi in storie che non ci sono nemmeno così vicine, in alcuni casi, ma non opererei questa distinzione netta tra gioia e dolore. In fondo in questo cd ci sono parecchie storie raccontate in prima persona da alcuni personaggi che cantano la loro situazione di disagio. Ma già il fatto di cantarla, e quindi riconoscerla, e renderla pubblica, è un grosso passo avanti per cambiare la situazione stessa e, in un certo senso, passare dal dolore alla gioia. Vorrei anche sottolineare che è senza dubbio vero che raccontare il disagio è più semplice, per certi aspetti, ma è molto difficile e pericoloso sotto molto altri, perché è davvero molto semplice cadere nella retorica, nel pietismo, oppure nell’errore di raccontare male alcune cose che non si son vissute sulla propria pelle.
Seguendo sempre il filo delle mie letture, sono in questo momento impegnato su un libro relativo a Lucio Battisti (di Donato Zoppo), che racconta la svolta “prog” (un episodio) avvenuta nel 1971 con “Amore e non Amore”. Non avevo ben chiaro quel periodo (in cui Battisti era per me “leggero”) ma ricordare la voglia di novità di un musicista affermato mi ha fatto riflettere. Ti capita di aver voglia di muoverti su piani musicali differenti, magari molto diversi tra loro?
Assolutamente si, anzi da questo punto di vista uno dei miei più grandi diktat che mi pongo è quello di non correre il rischio di fossilizzarmi su un solo tipo di sonorità, ma cercare di giocare e in un certo senso anche rischiare con varie soluzioni. Per il primo disco avevo in mente un certo tipo di sonorità e così è stato, ma per il secondo, per esempio, ho già in mente un suono diverso, come già sta uscendo in sala, e non escludo che man mano nel tempo ci possano essere molte altre novità. D’altronde io sono apertissimo dal punto di vista musicale, ascolto molta musica molto differente da ciò che faccio e mi intriga molto collaborare con musicisti con gusti e sonorità anche molto diverse dalle mie. Per esempio da qualche mese si è aperta una collaborazione con un duo di miei concittadini, i Nonlinear, gruppo elettronico fenomenale e dalla creatività veramente trascinante, e nonostante, apparentemente, da un punto di vista musicale siamo agli antipodi c’è un grosso apprezzamento reciproco e stiamo cominciando a valutare molto più concretamente una collaborazione futura.
Quanta importanza dai alla sperimentazione, all’evoluzione tecnologica?
Ho un rapporto un po’ particolare con l’evoluzione tecnologica. Personalmente faccio una certa difficoltà a stare al passo con i tempi e difatti arrivo sempre molto in ritardo su qualsiasi novità. Questo però non vuol dire che sono un nostalgico del passato o che demonizzi la tecnologia. Ritengo che, nella musica come in qualsiasi altro aspetto della nostra vita, la tecnologia sia importante, ma solo quando è funzionale e davvero utile a migliorare qualche aspetto, altrimenti diventa soltanto fine a se stessa.
Che tipo di rapporto riesci a stabilire col tuo pubblico in fase live? Cosa rappresenta per te il concerto?
Il concerto è l’elemento che più adoro. Inoltre ho l’abitudine di suonare in contesti anche molto diversi tra loro e con formazioni diverse: spesso da solo, a volte in duo, altre con il gruppo al completo composto da ben 5 o 6 membri. A prescindere dai contesti e dalla formazione cerco di avere un rapporto sempre molto paritario e interattivo con il pubblico. Voglio che si percepisca che anche se in quel momento sono io il soggetto e l’oggetto della scena rimango comunque prima di tutto un loro amico, un loro coetaneo o comunque una persona con cui dialogare, a prescindere dal ruolo che in quel momento assumo. Non a caso c’è una canzone in cui è richiesta una partecipazione attiva del pubblico, “Insanity Show”, e devo dire che ho sempre avuto un ottimo feedback.
Come giudicheresti l’attuale stato del businnes attorno alla musica? Cosa bisogna fare per vivere di suoni e parole… solo di quelli?
Questa è una domanda da un milione di dollari, a cui tutti noi cerchiamo di risponderci ogni giorno. Sappiamo benissimo che siamo in una fase culturale in cui la vita artistica del paese è stata pressoché azzerata. Io penso semplicemente che nel mondo della musica siano ancor di più enfatizzate le difficoltà che i giovani oggi stanno incontrando in pratica in tutti i contesti lavorativi, per cui è davvero complicato per tutti riuscire a trovare una certa stabilità a livello di identità lavorativa e personale oltre che economica. E’ sempre difficile riuscire a capire dove può finire la passione e può iniziare la professione e quanto sia realisticamente fattibile buttarsi con un minimo di tranquillità nella musica. Qual è la soluzione io non saprei dirlo, è una questione che riguarda tutto il clima artistico-culturale che deve tornare a dare il giusto valore all’arte e più fiducia ai giovani.
Mi dici il nome di tre canzoni del passato che avresti voluto scrivere tu?
Senza dubbio “L’avvelenata” di Guccini, “Paranoid android” dei Radiohead e “Youth against fascism” dei Sonic Youth
Cosa potrebbe esserci dopo “Storie a bassa audience” ?
Ammetto che proprio in questi ultimi giorni sto cominciando a pensare al secondo cd, di cui ho già molti pezzi pronti. Nonostante sia molto soddisfatto del risultato di “Storie a bassa audience” vorrei lavorare al prossimo cd in maniera diversa, avendo anche la possibilità, attualmente, di suonare con dei musicisti “fissi” (Andra Ghiotti, Emanuele Pavone, Rocco Panetta e Silvia Crovesio), con i quali sicuramente arrangerò i nuovi pezzi con delle nuove sonorità. A questo vorremmo cercare parallelamente di abbinare una intensa attività live.
Link: www.mezzafemmina.it
http://controrecords.wordpress.com
http://nmlrecords.wordpress.com
Contatto per promozione: New Model Label - Govind Khurana - govindnml@gmail.com