venerdì 19 dicembre 2025

Recensione – Ivan Jacquin, Intimités (2025)

 


Recensione – Ivan Jacquin, Intimités (2025)

 

Con Intimités, pubblicato il 16 settembre 2025, Ivan Jacquin inaugura la sua carriera solista con un lavoro che sorprende per delicatezza e sincerità. Dopo trent’anni di attività in band e progetti dalle sonorità sinfoniche, prog e metal (Foreign Rock Opera, The Raging Project, Psychanoïa), il musicista francese sceglie di spogliarsi delle orchestrazioni monumentali per abbracciare un registro intimo, quasi confessionale.

Jacquin, pianista, tastierista, cantante e compositore, ha curato personalmente ogni fase del progetto: scrittura, registrazione, mixaggio, mastering e persino la promozione. Questa radicale indipendenza conferisce all’album un carattere autentico, quasi artigianale, che mette in primo piano la voce e il pianoforte, strumenti con cui l’artista si espone senza filtri. Le melodie sono semplici, accessibili, ma mai banali: rivelano un lato più sobrio e pop-rock, con sfumature blues e soft jazz.

BANDCAMP

Pur trattandosi di un album solista, Jacquin ha voluto arricchire il tessuto sonoro con la presenza di musicisti di rilievo internazionale:

Amanda Lehmann (Steve Hackett Band) – chitarra e voce

Maria Barbieri – chitarra

Henri-Pierre Prudent – batteria

Denis Codfert – batteria

Trev Turley – basso

Richard Lefranc – basso

Queste collaborazioni, provenienti da Francia, Inghilterra e Italia, aggiungono sfumature preziose: la chitarra ariosa di Lehmann, il tocco fluido di Barbieri, la solidità ritmica di Prudent e Codfert, il groove di Turley e Lefranc.

I sette brani di Intimités nascono da esperienze personali e da scritti di oltre vent’anni fa, concepiti in un periodo di fragilità emotiva. L’album si muove tra amore, assenza, sogni e introspezione, con testi prevalentemente in francese che, lungi dall’essere un limite, diventano un punto di forza: la lingua madre restituisce autenticità e intensità. Brani come “Un chemin”, “In the Air” e “Derrière la fenêtre” mostrano la capacità di Jacquin di fondere la sua voce sottile con atmosfere eteree e velate, mentre “Un prénom un visage” e “Autre départ” rivelano un gusto melodico che avvicina l’ascoltatore a una dimensione quasi terapeutica.

Se in passato Jacquin si è definito eclettico, capace di spaziare dal prog al metal, dalla musica celtica alla world music, con Intimités dimostra di saper ridurre la complessità senza perdere profondità. È un album che non rinnega il passato ma apre una nuova strada, più intima e personale, senza rinunciare al dialogo con altri artisti. Il futuro sembra già tracciato: un secondo album solista è in preparazione, accanto a nuovi capitoli di The Raging Project e della rock opera Foreign. La dimensione collettiva resta centrale, ma Intimités segna un momento di verità e di coraggio artistico.

Intimités è un lavoro che conquista per la sua sincerità: un disco che non cerca effetti spettacolari ma si affida alla forza delle emozioni e alla fragilità della voce. Ivan Jacquin dimostra che la vera intensità non sta sempre nella potenza sonora, ma nella capacità di raccontare sé stessi con delicatezza. Un debutto solista che merita attenzione, soprattutto per chi ama scoprire il lato umano dietro la tecnica e la storia di un musicista.

Tracce

1.Un chemin 04:18

2.In the air 06:57

3.On revient 03:49

4.Derrière la fenêtre 07:15

5.Si 03:58

6.Un prénom un visage 02:37

7.Autre départ 06:07


L'INTERVISTA...

Puoi raccontarci come sei entrato nella musica e quali sono stati i tuoi primi progetti prima di Intimacies?

Ho iniziato a studiare musica a sette anni al Conservatorio, dedicandomi per otto anni al solfeggio e al pianoforte classico. Successivamente mi sono avvicinato al jazz e all’improvvisazione, che ho approfondito per altri sette anni. Intorno ai 17 anni ho iniziato a suonare in diverse band: dapprima come batterista, poi come cantante e tastierista. La mia prima esperienza è stata con un gruppo extreme metal, gli Horrorified, ma ben presto mi sono orientato verso il rock progressivo, più vicino ai miei gusti e al desiderio di comporre musica originale. Con i Lifeseeker ho lavorato dal 1992 al 2001. In seguito, ho cantato e suonato in numerose formazioni, sempre legate al prog, spesso con sfumature metal e sinfoniche (Acid Rain, Network, Tribute to Hallyday, Symphonic Tribute to Pink Floyd, Aegirson, Psychanoia…), oltre a band da me fondate come Projekt One, Project Rage, Amonya, Foreign Rock Opera e The Raging Project. Ho collaborato con molti artisti, partecipando ai loro album e invitandoli nei miei, e ho calcato i palchi di centinaia di concerti. Oggi ho finalmente pubblicato il mio primo vero album solista, Intimités.

In cosa si differenzia Intimacy dalle tue produzioni precedenti, più sinfoniche e rock/metal, come Foreign Rock Opera o The Raging Project?

Intimacy rivela un lato molto più sobrio della mia musica, quasi pop, che non avevo mai esplorato. In passato mi sono sempre dedicato a grandi orchestrazioni e a collaborazioni con musicisti prevalentemente rock e metal. Qui invece mi espongo maggiormente: canto accompagnandomi al pianoforte, con melodie semplici e accessibili. Ho lavorato sulla mia voce per renderla più sottile e meno aggressiva, e ho ripreso le mie abilità pianistiche, che avevo trascurato a favore dei synth.

Hai sottolineato di aver curato quasi tutto da solo (composizione, registrazione, missaggio, promozione). Cosa significa per te questa scelta radicale di indipendenza?

Si tratta di brani scritti molto tempo fa, che non avevo mai avuto occasione di finalizzare. Ho voluto sperimentare l’intero processo creativo di un album: dalla composizione alla registrazione, fino al mixaggio e al mastering. Il risultato, per essere una prima prova, credo sia più che dignitoso. Naturalmente ci sono aspetti da migliorare, ma l’esperienza mi servirà per crescere: non ho alcuna intenzione di fermarmi qui.

Come sono nate le collaborazioni con ospiti come Amanda Lehmann, Maria Barbieri o Trev Turley?

Amanda Lehmann aveva già partecipato a due miei album precedenti, Foreign e The Raging Project. L’ho conosciuta grazie a un concerto di Steve Hackett, con cui suona da oltre dieci anni, e sono rimasto colpito dal suo stile chitarristico e dalla sua voce. Nei miei brani porta un tocco personale, arioso e melodico, oltre a una preziosa sensibilità femminile. Trev Turley, noto bassista inglese, si è offerto spontaneamente di collaborare e ho accettato con entusiasmo. Maria Barbieri l’ho scoperta attraverso i suoi video di improvvisazione jazz e prog: mi ha conquistato con il suo stile fluido e virtuoso. Nel mio album brilla sia nel blues Derrière la fenêtre sia nel brano più prog Autre départ.

Hai scelto di cantare principalmente in francese. Pensi che questo possa avvicinare o allontanare il pubblico internazionale?

All’inizio temevo fosse un ostacolo, perché non mi sento del tutto a mio agio a cantare nella mia lingua madre. Tuttavia, considerando che metà dei musicisti ospiti sono inglesi o italiani, credo possa diventare un punto di forza. Le vendite e le recensioni, infatti, arrivano soprattutto dall’estero: Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Norvegia, Polonia, persino dagli Stati Uniti. In Francia, invece, è molto difficile raggiungere il grande pubblico quando si è autoprodotti e indipendenti.

L’album è descritto come intimo, fragile, etereo. Quali emozioni o esperienze personali ti hanno guidato nella scrittura?

Molti di questi brani risalgono a oltre vent’anni fa. Li scrissi in un periodo in cui sentivo il bisogno di esprimere emozioni più intime e personali: amore, assenza, sogni, la mancanza dell’altro. Uscivo da due relazioni molto difficili e la scrittura fu per me una sorta di terapia, un modo per liberare emozioni intense. Nonostante il tempo trascorso, i testi restano ancora attuali.

Dopo Intimacies, pensi di proseguire su questa strada più intima o tornerai alle grandi produzioni rock e metal?

Entrambe le dimensioni ormai convivono. Ho già pronte alcune canzoni per un secondo album solista, forse ancora più raffinato, e sto lavorando a un EP di The Raging Project. Inoltre, devo iniziare a progettare la terza e ultima parte della rock opera Foreign. Tutto questo avviene in parallelo alle collaborazioni con artisti che ammiro e che, fortunatamente, ricambiano con entusiasmo. L’aspetto umano e collettivo della musica è per me essenziale.

Alcuni ospiti sono italiani e il pubblico qui potrebbe non conoscerti ancora. Hai in programma concerti o collaborazioni specifiche in Italia?

È la prima volta che collaboro con un’artista italiana e mi piacerebbe molto lavorare di nuovo con Maria Barbieri: è una persona splendida e di grande talento. Per il futuro sogno di coinvolgere Angela Di Vincenzo dei Secret Rule e Cristina Scabbia dei Lacuna Coil: sarebbe un onore scrivere per voci così straordinarie. Sono anche in contatto con Andy Menario, chitarrista dei Secret Rule, che probabilmente remixerà uno o due brani del primo album dei Foreign, originariamente cantati da Amanda Somerville. Questa nuova uscita è prevista per il 2026. Quanto ai concerti, al momento non ci sono date fuori dalla Francia, ma mi piacerebbe molto portare la mia musica anche in Italia.

Guardando alla tua carriera, dai tributi ai Pink Floyd ai progetti prog e metal, come definiresti oggi la tua identità artistica?

In una parola: eclettico. Ho gusti musicali molto vari — rock, metal, classica, prog, jazz, fusion, elettronica, musica medievale, celtica, world music — e sono felice di poter esplorare universi diversi, sempre con passione e gioia. La cosa più importante è essere circondato da artisti straordinari, ognuno capace di portare nuove energie e stimoli.