martedì 29 novembre 2011

LA MONCADA-"TORINO SOMMERSA"



Sono solito unire ai miei commenti su un nuovo album un’intervista ai musicisti, che possa rappresentare il lato oggettivo e il vero pensiero di chi ha sudato e pianto dietro qualcosa che poi sarà commentato con qualche riga “obbligata”. Il limite e il pregio di questo gioco al rimbalzo è che i quesiti via mail (molto più comodi rispetto ad altre soluzioni), magari posti in maniera criptica (mea culpa), possono portare a interpretazioni alternative, con risposte che alla fine risulteranno utili- forse anche di più- alla causa, anche se deviate rispetto al punto di partenza.
La situazione “cromatica” a cui faccio accenno nello scambio a seguire è tesa ad evidenziare uno stato d’animo generale, il vero mood dell’intero album, che ho percepito immediatamente sfogliando il booklet interno, quindi prima dell’ascolto. La risposta permette di conoscere qualche interessante risvolto dell’argomento Art-Work, e questo contribuisce a creare un quadro più completo del mondo di “LA MONCADA”.
Il loro album, “Torino Sommersa”, autoprodotto, è il primo lavoro in studio, e come ogni atto iniziale è il bilancio di un percorso di vita, il primo “punto a capo” che permette di fotografare una situazione personale e renderla pubblica. Non è importante l’esperienza dei musicisti, magari artisti navigati, ma in un esordio si rovescia generalmente la parte più istintiva- e magari repressa- che  si attendeva di fare “esplodere”. Da quel momento in poi si può pensare al futuro.
Da anni non visito Torino, forse 20, forse 30, ricordo solo che ero molto giovane. E le rimembranze giovanili sono pesanti mattoni che non cadranno mai più. La Torino che ricordo è quella che ho visto nelle pagine dell’inserto allegato al CD. Solo bianco e solo nero, colori che in realtà appartenevano a qualsiasi luogo, e che dipingevano stati d’animo angosciosi. Basta guadarsi attorno e valutare le “situazioni attuali” per capire che ogni assioma tendente ad unire i malesseri dell’uomo ai meri colori è del tutto errato.
Ma, chissà perché, ho inserito il CD nel lettore e già avevo le idee chiare.
Sette tracce di… rock cantautorale. Cosa significa?
Riflessioni, messaggi, denuncia sociale e poesia con un abito che definirei folk/ rock, anche se le etichette e la suddivisione in generi servono solo per dare indicazioni e informazioni a chi fa opera di avvicinamento, ma non rendono mai completa giustizia ai veri protagonisti, i musicisti.
Un album come questo non può prescindere dal pieno godimento dei testi in lingua italiana (che fatica sarebbe decodificare liriche piene di metafore e sensi nascosti se ci fosse anche il problema della comprensione immediata!).
Un album come questo avrebbe altra valenza se non ci fosse la necessità/genialità di escursioni ritmiche e trame a tratti prog.
E ancora… un album come questo ha il pregio di scuoterti nell’intimo, farti riflettere e contare le volte in cui hai pensato le stesse cose ma… non ti venivano fuori e in “Torino Sommersa” le vedi scritte da altri.
Sarebbe facile fare esercizio di “citazione” ed elencare esempi d’oltreoceano, ma nessuna comparazione potrebbe dare valore aggiunto, che al contrario si percepisce godendo in ogni sua parte “Torino Sommersa”, musica, testi e “confezione”.
Nient’altro da commentare, certe cose vanno scoperte in piena solitudine. Il passo successivo è la condivisione che, sono certo, sarà azione spontanea e diffusa.




L’INTERVISTA

Partiamo dal nome della band. Spesso è casuale, ma molte volte ha un significato, magari inconscio, che si lega alla filosofia musicale del gruppo. Perchè “LA MONCADA”?
La  Moncada è il nome della caserma che venne assaltata il 26 luglio del '53 da Fidel Castro e i suoi ribelli. Questo episodio diede il via alla rivoluzione cubana e al movimento stesso (il" Movimento 26 luglio"). Il nome è stato proposto da Frank e ci è subito piaciuto perché condividiamo i valori che portarono a quegli eventi .Tra l'altro Fidel ritorna in uno dei pezzi più rappresentativi del disco(Revolucion).E per concludere La Moncada mi sembra molto meglio di "Mattia Calvo band", che è il nome con il quale abbiamo iniziato.
Il luogo in cui si vive ha risvolti importanti che incidono sulle nostre attività, qualunque esse siano. Avreste potuto scrivere “Torino Sommersa”- e mi riferisco a spirito e contenuti- se vi foste “formati” in altre parti d’Italia? Ha ancora senso parlare di “scuola genovese, napoletana” and so on?
In realtà solo tre di noi (io, Gian e Carlo) vivono a Torino e tutti e tre siamo "torinesi d'adozione", ma la nostra provenienza rimane la provincia. Personalmente adoro Torino per molti aspetti…  penso di averne tratto ispirazione in qualche modo, e non credo che tornerei mai a fare il percorso inverso. Detto ciò non credo che La Moncada appartenga alla scena torinese, che a quanto mi risulta attualmente spicca soprattutto per i suoi cantautori e in generale più che alla scuola genovese o napoletana o torinese io guardo alla musica che mi piace senza distinzioni di sorta.
Nel vostro album le liriche sono fondamentali, ma esiste un equilibrio con la parte musicale (istintivamente si può arrivare invece a privilegiare un aspetto piuttosto che un altro). In fase di composizione, esiste per voi una priorità che, almeno inizialmente, vi sbilancia verso uno dei due aspetti citati?
Generalmente io arrivo in sala prove portando uno spunto del pezzo chitarra e voce che sottopongo alle orecchie dei ragazzi. Da qui ciascuno contribuisce con le proprie idee per arrangiarlo nella sua forma definitiva. Il concetto base con il quale ci siamo mossi fin dall'inizio infatti è quello di svestire le mie canzoni della tradizionale forma cantautorale.
Cosa significa per voi la parola “sperimentazione”?
La sperimentazione è alla base di tutta la musica passata e presente che abbiamo sempre ammirato. Bisogna però, dal mio punto di vista, fare attenzione a non cadere nella tentazione di esagerare per colpire chi ascolta con delle stranezze fini a se stesse. Quella più che sperimentazione è onaninsmo intellettuale.
Esistono linee guida musicali, esempi del passato, su cui tutti vi trovate d’accordo?
Ne esistono moltissime, ma senza il bisogno di guardare al passato sicuramente siamo tutti accomunati dalla grande ammirazione per i Wilco e i Radiohead.
Cosa è più gratificante per voi, il lavoro in  studio o le performance live?
Sono due momenti molto diversi tra di loro, ma in entrambi i casi si vivono emozioni molto forti. In studio si può dare sfogo alla parte creativa ed è veramente indescrivibile la gioia che si prova a vedere "nascere" un pezzo. D'altra parte sul palco ci si sfoga a tutto tondo e poi non bisogna nascondere che se si fa musica, in qualche modo è per arrivare alla gente, e ricevere un applauso o un consenso è sicuramente gratificante.
C’è mai stato un momento in cui avete pensato che i vostri sforzi dovevano essere indirizzati  verso qualcosa di più easy, rinunciando magari all’estrema  qualità e all’impegno a favore di una visibilità più facile?
Assolutamente no, anche perché non ne saremmo in grado. Quando abbiamo iniziato a suonare insieme non ci siamo mai posti altri obiettivi se non quello di arrivare ad un risultato che in primo luogo ci rappresentasse e ci gratificasse, senza l'ossessione di essere più o meno mainstream.
Qual è l’essenza di “Torino Sommersa”?
Torino Sommersa è il nostro disco d'esordio, quindi racchiude canzoni che sono state concepite in momenti differenti. Non credo che ci sia un filo conduttore particolare che le leghi una all'altra se non l'urgenza che ha mosso la loro composizione. Alcune di queste nascono da esperienze personali e altre da riflessioni più generali, compagne di un unico giro dove le istantanee del mio immaginario si trasformano in parole alle quali la musica della band da voce.
L’art  work in bianco e nero del vostro album colpisce e… da suggerimenti all’acquirente. Nella vostra musica c’è spazio per altre situazioni cromatiche?
Per l'art work ci siamo affidati alle cure di Elisa Quaglia, fotografa torinese dotata di una grande sensibilità artistica che, conoscendo molto bene la nostra musica, ha saputo cogliere lo spirito "desaturato" di questo disco. Nei prossimi lavori non escludiamo di esplorare altre giustapposizioni cromatiche. Visto che parliamo di art work dobbiamo  ringraziare anche Edoardo Vogrig e Jon Lacaronia per l'ottimo lavoro di impostazione e rifinitura.
Provate  a sognare e ad immaginare il vostro futuro da qui al 2015… cosa vorreste che accadesse?
Dato il gran numero di musicisti che a vario titolo hanno fatto parte di questo gruppo sarebbe già più che sufficiente se nel 2015 fossimo ancora tutti e cinque insieme appassionatamente.

Note


LA MONCADA è il progetto 5 musicisti cuneesi in cui Mattia Calvo, cantautore fossanese, presenta i suoi pezzi contaminati da nuove influenze musicali portate dai musicisti che lo accompagnano, tutti provenienti da differenti esperienze.
Infatti LA MONCADA possiede membri di Mr. Steady Dudes, Treehorn e Fuh. Realtà contrapposte che si miscelano in un percorso di ricerca musicale che va a scavare negli ambienti folk-rock di Chicago, nell’indie di Boston e nel post-rock di Louisville, passando da Wilco a Califone, da Karate a Slint. 
Freddi venti d’oltreoceano che vengono a condensarsi con l’aria calda e tradizionale del cantautorato italiano, dal sapore dei campi di grano secchi sotto il sole li brucia, del bar di provincia dove regnano vecchi e ubriaconi, delle otto ore di fabbrica e domenica al mare.
Il risultato è un temporale di atmosfere instabili e avvolgenti, correnti ascensionali inarrestabili e turbolenze d’umore, città sommerse.

Members:

Mattia : voce, chitarra acustica.
Audrey : chitarra elettrica, elettronica 
Johnny : chitarra elettrica.
Juda : basso.
Frank: batteria.


lunedì 28 novembre 2011

Blue Dawn


Blue Dawn è il nome di un “quartetto rock” che, dopo un primo CD promo, ha esordito  con  l’ album omonimo.
Il termine “esordio” in realtà poco si addice a chi calca le scene da diverso tempo, ma è calzante se si pensa alla novità del progetto.
Nell’intervista a seguire e nella piccola bio successiva, è possibile delineare  un quadro completo della band e della sua filosofia musicale.
E’ rock duro quello che i B.D. propongono, con un tono dark che permea l’intero album.
I dieci episodi vedono in evidenza i riff di chitarra tipici di un certo modello hard, ma il sottofondo è costellato da atmosfere sognanti, eteree, a volte inquietanti.
La bellissima voce di Monica Santo (non tutte le belle voci sono adatte ad un determinato tipo di musica) aiuta nella costruzione di un particolare mood che nasce con il primo brano, Crossing the Acheron, e termina solo con la conclusiva A Strange Night.
Ma è impossibile separare ciò che si ascolta-musica e testi- da ciò che si vede.
La prima cosa con cui normalmente  si viene in  contatto, in fase di nuovo avvicinamento, è ovviamente la “forma”, il contenitore, il CD pieno di notizie.
Il booklet di “Blue Dawn” è l’anticipazione del contenuto, una serie di fantastiche immagini in bianco e nero-tranne il blu scuro di Shattered  Illusions- che sono in stretto contatto con il messaggio e sono il preludio di ciò che di li a poco arriverà assieme alla musica.
Testi -in lingua inglese- introspettivi, carichi di significati esistenziali, realisti e poetici al contempo.
Per realizzare il sound voluto, i quattro musicisti si sono avvalsi della collaborazione in studio di alcuni ospiti che hanno dato un importante contributo a livello di tastiere, sintetizzatori e sax, ma l’impronta metal rock è un marchio indelebile dei B.D. che riporta ai modelli conosciuti degli anni ’70, ma con un’attenzione ai dettagli che un tempo era  improponibile.
Forse la vera evoluzione di quella musica, rock, prog, o qualsiasi altra, sta proprio in un nuovo bisogno che musicista e ascoltatore dimostrano di avere, la necessità di rendere completa ed espressivamente variegata la proposta, un contenitore dove un accattivante svisata di chitarra o un virtuosismo ritmico fine a se stesso non sono più comprensibili, se non costituiscono una parte di una struttura organizzata. E poi dal vivo tutto è concesso!
Ma questo i  Blue Dawn lo sanno bene…
Un album da non perdere, se si ama l’energia… controllata.


L’INTERVISTA

Risponde Enrico Lanciaprima

Chiedo spesso ai nuovi gruppi se esistono motivazioni particolari che hanno condotto alla scelta del nome, convinto che, seppur a livello inconscio, un link possa esistere. Perché Blue Dawn?

L' alba è un simbolo di (ri)nascita, adatto ad un progetto completamente nuovo per noi che comunque non siamo musicisti di primo pelo, in più ha un sapore esoterico, il che su di noi esercita un certo fascino.

Ciò che proponete ha solide radici che partono da periodi molto lontani. Su che tipo di formazione personale potete contare… che cosa vi ha realmente influenzato in campo musicale?

Per quanto mi riguarda, sicuramente l' hard rock degli anni 70, Black Sabbath e Led Zeppelin su tutti, ma anche gruppi sperimentali come King Crimson, Magma, Roxy Music, fino a bands più moderne come Celtic Frost, Voivod, Tool; per gli altri componenti, sono stati importanti anche Deep Purple, Rainbow, My Dying Bride, Jeff Buckley.

La vostra musica mi pare particolarmente adatta alla performance live. Che tipo di interazione riuscite a stabilire con l’audience nel corso dei vostri concerti?

Il pubblico risponde con entusiasmo, soprattutto sui brani più energici, ma dimostra attenzione anche in quelli più da “ascolto”, diciamo, dove le strutture sono più complesse e dilatate, ci danno anche input, commentando con noi i brani a fine concerto.

Se è vero che Monica Santo è la lead vocalist, si può comunque notare una certa suddivisione delle parti, con raddoppi e scambi vocali. Questo gioco di squadra è qualcosa di studiato a tavolino, in funzione del vostro progetto e delle vostre caratteristiche personali o è il frutto di ciò che è nato spontaneamente nel corso delle prove?

Un po' d' entrambe le cose... conoscendo le caratteristiche vocali molto diverse che abbiamo io e Monica, sapevamo che alternandole avremmo potuto ottenere risultati interessanti, poi in sala proviamo ad improvvisare e vediamo cosa può funzionare oppure no; continueremo a sperimentare anche in futuro, e nel secondo disco ci sarà anche un duetto con un cantante ospite di un certo rilievo, ma non posso ancora svelare il nome.

Pur conoscendola maggior adattabilità della lingua inglese alla musica rock, è imperativo chiedervi: ” Perché testi in lingua inglese?
Come dici tu l' inglese è molto più adatto dell' italiano alla musica rock, perché ha parole brevi e dal suono duro e a noi piace il risultato, pensiamo che funzioni così, ciò non toglie che si possa provare anche un brano in italiano, in futuro.

Ho notato una particolare cura dell’art work, con precisa scelta di immagini e colori. Quanto realmente conta per voi tutto ciò che non è musica ma fa parte di essa?

Ha la sua importanza, l' artwork e l' immagine della band servono ad indentificarci e, quindi, a promuoverci nella maniera giusta, è un aspetto fondamentale per un artista, soprattutto in quest' epoca.

Come è avvenuto l’incontro con la BWR e che cosa vi ha portato di concreto?

Conosco Massimo  Gasperini da circa 25 anni, avevo già lavorato con BWR negli anni 90 con la band che avevo allora, quindi è stato naturale entrare in contatto con loro per questo nuovo progetto. BWR ci sta promuovendo e distribuendo e, grazie alla loro grande professionalità, ci stanno facendo conoscere al mondo musicale attuale.

Torno un attimo ai testi. I vostri mi sembrano molto intimistici, legati ad aspetti interiori. Quanto è importante per voi il messaggio contenuto in una lirica?

I testi sono importanti, perché aiutano a comprendere ed assimilare ciò che la musica sta trasmettendo, sono introspettivi, ma contengono anche metafore riferite al mondo esterno.

Che idea avete dell’attuale businnes musicale e cosa pensate delle potenzialità di internet in relazione alla possibilità di… vivere di  sola musica?

L' industria musicale per come la conosciamo, sta morendo, si trasformerà, esattamente come è difficile dirlo, probabilmente si comprerà e venderà tutto online; vivere di sola musica sarà sempre più difficile, a parte per i grandi colossi, ma penso che il segreto sia diversificare le proprie attività, i propri progetti, essere versatili e darsi molto da fare, promuoversi in ogni modo. In questo la rete ti dà molte possibilità, anche gratis, bisogna saperla usare.

Provate a esprime un desiderio musicale, lungo da qui al 2015.

Vorremmo incidere altri 2 album e andare in tournee in Italia ed in Europa.


BIOGRAFIA

BLUEDAWN nascono nel corso del 2009 da un'intuizione di Enrico (basso) e Andrea (batteria). A loro si aggiungono nel corso del 2009 Monica alla voce e Paolo alla chitarra. Quattro personalità diverse, con gusti musicali diversi cercano di fondare un percorso musicale organico che parta dalle radici dell'hard-rock anni 70 fino ad arrivare a sonorità moderne. Dopo un breve periodo di rodaggio, i BLUDAWN decidono di raccogliere in un album le canzoni che hanno composto. L'album registrato ai nadir-studios cattura l'attenzione dell'etichetta BLACKWIDOW RECORDS che si offre di distribuirlo…


Distribuzione: Black Widow Records



Track List:
CROSSING THE ACHERON
THE HELL I AM
INNER WOUNDS
HYPNOTIZED BY FIRE
SHATTERED ILLUSIONS
IN MY ROOM
A STRANGE NIGHT
DEAD ZONE
THAT PAIN
DECONSTRUCTING PEOPLE

BLUE DAWN is:

Monica Santo - vocals
Paolo Cruschelli - guitars
Enrico Lanciaprima - bass and vocals
Andrea Di Martino - drums

special guests:

James M. Jason - keyboards on Crossing the acheron, Shattered illusions and In my room, sinthesizers on A strange night
Tommy Talamanca - keyboards on Inner wounds, Dead zone and Deconstructing people
Roberto Nunzio Trabona - saxophone on Deconstructing people
Laca - accordion on Deconstructing people


domenica 27 novembre 2011

Garybaldi e Wicked Minds al Teatro Verdi


A poco più di un mese di distanza, il Teatro Verdi di Sestri Ponente(Ge) è nuovamente testimone di un evento musicale dallo stampo prog, che riporta alle radici profonde del rock cittadino, dopo che il 15 ottobre Paoli Siani e i suoi Friends –con Marco Zoccheddu presente in entrambe le occasioni-aveva riportato indietro le lancette del tempo, proponendo però visioni per il futuro.
Tra i due spettacoli, Genova è stata protagonista negativa di episodi drammatici che non hanno bisogno di evidenziazione. Incancellabili le immagini dell’alluvione, ma occorre guardare avanti e magari utilizzare la musica per dare un po’ di sollievo, possibilmente anche materiale, a chi ne ha estremo bisogno. Qualcosa accadrà in questo senso e da queste pagine verrà dato il massimo rilievo possibile.
Il menù della serata, organizzato dalla Black Widow Records, prevedeva due band e alcuni ospiti: Garybaldi, Wicked Minds e … amici.
Aprono i Wicked Minds, da poco in distribuzione con il nuovo album, tributo al prog italiano.
Propongono alcuni brani vecchi e nuovi, con la presenza della “new vocalist” Monica Sardella, davvero convincente.
Prog rock solido, per una formazione di larga esperienza che nell’occasione dimostra anche di sapersi divertire (la musica dovrebbe sempre portare a questo stato, ma non è fatto scontato).
Gli ospiti dovevano essere due, ma Martin Grice dei Delirium è risultato assente… giustificato, impegnato in RAI per una trasmissione in diretta.
Era invece presente Stefano “Lupo” Galifi, ex Museo Rosembach e ora ne Il Tempio delle Clessidre.
Bell’ intermezzo fruibile al seguente link: http://www.youtube.com/watch?v=2x__5P1Rz1Y

Un’ora di musica e un ‘occasione per ripercorrere sentieri indelebili:



Pochi minuti di intervallo e si ritorna sul palco con un trio Hendrixiano, formato da due Gleemen/ Garybaldi , Maurizio Cassinelli alla batteria e Angelo Traverso al basso,  e Marco Zoccheddu che dopo un inizio anch’esso nei Gleemen percorse altre strade note.
Ma “Garybaldi” significa soprattutto Bambi Fossati, , da un po’ di tempo lontano dalle scene,  e il mix targato “Jimi Hendrix” è tutto in suo onore:
A seguire gli attuali Garybaldi che “raccontano” la loro storia con brani estratti da “NUDA” e “Astrolabio”.
Cinque musicisti in continua rotazione di ruoli e strumenti e tanta voglia di ritrovare il sound di un tempo. I meccanismi sono ancora da oliare e qualche indecisione, alla voce ad esempio, appare evidente, ma in fase live è il sound generale che deve uscire e Garybaldi sembra  formazione capace di essere ancora un punto di riferimento nel proprio genere. E il proseguimento dell’attività non potrà che migliorare le cose.
Nell’ultima parte rientra “Zoc” e si inserisce nel gruppo, presentando il suo brano targato “Nuova Idea”, “La mia scelta”.

Un’altra serata di musica all’insegna del rock proposto dalla BWR, e un’altra serata in cui si può obiettivamente dire che la risposta di pubblico non è stata adeguata all’evento:  Wicked Minds, i Garybaldi, Marco Zoccheddu, Lupo Galifi , il Teatro Verdi e… Bambi Fossati, avrebbero meritato il sold out.

sabato 26 novembre 2011

Ricordando Freddie Mercury a 20 anni dalla morte...


La mia amica Scilla Prog, mi ha ricordato con un suo articolo che un paio di giorni fa, il 24 novembre, ricorreva l’anniversario della morte di Freddy Mercury. Sono già passati 20 anni e mi sembra ieri quando, nel corso di un volo Madrid-Milano, leggevo la drammatica notizia.
Utilizzo un vecchio post per ripercorrere la strada di Freddy.

Freddie Mercury (Stone Town, Zanzibar, Tanzania, 5 settembre 1946 - Londra, Inghilterra, 24 novembre 1991), pseudonimo di Farrokh Bulsara, è stato uno dei più grandi cantanti rock di tutti i tempi.
Britannico di origine indiana, raggiunse una fama internazionale incredibile come leader del celebre e ormai mitico gruppo britannico Queen.
Figlio di Jer e Bomi Bulsara, il padre era un funzionario inglese di origine Parsi (una comunità di antica stirpe persiana residente in alcune zone dell’India e praticante un derivato dell’antica religione Zoroastriana).
Freddie, nato a Stone Town, Zanzibar, si ritrovò a svolgere gli studi a Panchagani (Bombay), presso la Saint Peter’s Boarding School.
Ottimo studente dotato di un notevole talento artistico (era un ottimo disegnatore), Freddie eccelse anche nello sport: fu infatti un abile velocista e un discreto pugile, raggiungendo buoni risultati anche in altre discipline sportive come l’hockey su ghiaccio, il cricket e il tennis da tavolo. Questo comunque non gli impedì di farsi notare per la passione musicale che già nutriva; infatti dopo che il preside ne parlò con i genitori, Freddie prese parte alla classe di musica, entrando nel coro della scuola e imparando a suonare il pianoforte.
Fu nella scuola che frequentava che, nel 1958, nacquero gli Hectics, dei quali Freddie era il pianista.
Nel 1962, finalmente il futuro capo carismatico dei Queen termina gli studi e riabbraccia la famiglia a Zanzibar.
Soltanto due anni più tardi dovranno abbandonare l’isola, a causa dell’instabilità politica per trasferirsi in Inghilterra.
L’Inghilterra poteva soddisfare la sua passione per l’arte, così mentre occupava le vacanze con dei lavoretti all’aeroporto di Londra Heathrow, concentrava la sua attenzione sulla pittura e sul design.
Nel 1966 si iscrive alla scuola d’arte di Ealing e i suoi studi in illustrazione, grafica e design sono accompagnati dalla passione per Jimi Hendrix e per il suo idolo: John Lennon.
Il suo gruppo preferito sono The Jacksons.
Suo compagno di scuola in quel periodo fu Tim Staffell, bassista e cantante degli Smile, completati da Roger Taylor alla batteria e Brian May alla chitarra. Conobbe anche Cris Smith con il quale incominciò a scrivere canzoni.
Terminò gli studi accademici nel giugno del 1969.
Nello stesso anno si unirà agli Ibex di Liverpool, mentre lavora presso alcuni periodici di Kensington; gli Ibex cambieranno nome in Wreckage, ma si scioglieranno con l’arrivo degli anni settanta, che vedranno Freddie raccogliere un annuncio dei Sour Milk Sea che cercavano il cantante.
In sala prove restano impressionati dalla voce di Freddie Bulsara, e partono per Oxford dove ci sono alcuni concerti ad attenderli. Dopo questa esperienza deciderà di seguire la band dell’amico Tim Staffell, dando alcuni consigli su come fare i concerti; dopo non molto Tim Staffell accetterà un’ottima proposta in un altro gruppo lasciando così gli Smile.
Freddie - che condivideva una bancarella di abiti usati con Roger Taylor - accoglie l’invito dell’amico e sostituisce Tim Staffell negli Smile, ai quali cambierà nome in Queen; cambierà anche il suo in Freddie Mercury, in onore di Mercurio, il messaggero degli dei.
Durante questo periodo conosce e si innamora di Mary Austin (con la quale convivrà per sei anni).



Nel 1971, Freddie opta per John Deacon come bassista; la scelta si rivelerà favorevole per il successo del gruppo.
Sul palco, Mercury si esibiva con gestualità teatrale incantando il pubblico, trascinato da un personaggio tanto carismatico.
La sua carriera musicale lo vede al centro dell’attenzione di tutto e tutti, media compresi. Sebbene sul palco Freddie si mostrasse come una persona spregiudicata e energica, lontano dalla luci dei riflettori era una persona timida e riservata.
Nel 1980, un’altra importante svolta nella sua carriera musicale e nella sua vita privata. Freddie, probabilmente conscio di non essere totalmente eterosessuale, trasforma il suo rapporto di amore e passione con Mary Austin in un rapporto di amore fraterno.
Si mostrerà al pubblico con un look vistosamente differente, capelli corti e baffi secondo il look detto “clone”, come a segnare una rottura con il passato.
Il 1981, sarà un anno di transizione, la vita pazza e sregolata di Monaco mette a dura prova la sua persona e alcune sue amicizie.
Il 29 aprile 1985 esce il primo album solista di Freddie, Mr. Bad Guy (titolo in riferimento a se stesso).
L’opera lasciò dubbiosa la stampa, anche per il fatto che si trattava di un mix di elementi musicali eterogenei. 
Il disco si ricorda per canzoni comunque belle e importanti quali Made in Heaven (che ritroveremo nell’omonimo disco del 1995 dei Queen, in versione diversa) e la title-track.
Dopo questa parentesi solistica, tornò a lavorare sul progetto Queen, vivendo liberamente la propria omosessualità, spesso schernendo gli intervistatori che gli chiedevano se fosse gay, a volte negando e altre volte ammiccando e dicendo frasi come “sono gay come una giunchiglia”; insomma non ammise mai apertamente di essere omosessuale, ma non fece nulla per smentirlo. Arrivò addirittura a girare un videoclip in cui lui e tutti i componenti dei Queen apparivano provocatoriamente travestiti da donne (sebbene la proposta originale fu di Roger Taylor, il batterista, da un’idea della sua ragazza, cfr. Gunn-Jenkins 1992 “Queen la biografia ufficiale” pg.188), smentendo però la connotazione omosessuale del video con questa frase: “Ma il travestimento del video di “I Want to Break Free” non è affatto una dichiarazione di appartenenza gay. Se avessi fatto una cosa del genere, la gente si sarebbe messa a sbadigliare. Mio Dio, guarda Freddie che dice di essere gay perché è una cosa di moda.”
Tuttavia il Freddie Mercury vero era quello del palcoscenico, autore di successi musicali che superano tempo e culture differenti, quello che accolse la sfida di produrre la colonna sonora di Highlander (oltre che di Flash Gordon di Dino De Laurentiis), e che cantò con Montserrat Caballé.
Nel 1987, appunto, esce "Barcelona", famosissimo duetto con la soprano Montserrat Caballé, un disco per molti versi innovativo che per la prima volta unisce il rock all’opera (strada che verrà seguita da Luciano Pavarotti e altri in seguito). La title-track diventa inno ufficiale dei giochi olimpici di Barcellona 1992 .
Freddie aveva ormai abbandonato la sua vita ricca di eccessi. Difatti non partecipò più a concerti live, dicendo che un uomo di 40 anni non poteva saltare con una calzamaglia indosso, non volendo dichiarare pubblicamente di avere l’AIDS; alcune testate scandalistiche cominciavano a sospettare che qualcosa non andasse.
Si fecero sempre più rare le apparizioni pubbliche, quasi nulle, ed egli visse sempre più nella sua villa a Kensington. Freddie nascose il terribile segreto della sua malattia anche agli altri membri dei Queen, per evitare che si potessero preoccupare per lui, impedendogli di cantare.
Il canto, infatti, era la cosa che più gli dava sollievo, e così dall’Inghilterra si trasferì in Svizzera a Montreux, dove acquistò un’appartamento, e dove incise alcune tra le più intense canzoni dei Queen.
Cantò quasi fino alla fine, fece l’impossibile per i suoi fan, spesso, facendosi pregare di smettere dagli altri componenti del gruppo, ma la musica e l’amore della gente erano le cose più importanti per lui. Memorabile la sua ultima apparizione in pubblico nel video della canzone “These are the days of our lives” del suo ultimo album Innuendo: Freddie appare in uno stato a dir poco pietoso: è molto dimagrito, ha le occhiaie, veste elegante e non porta più i suoi celebri baffi.
Rientrò in Inghilterra pochi mesi prima della fine, per stare vicino ai suoi cari. Solo 24 ore prima dell’annuncio della sua morte era stato diffuso un comunicato stampa con l’ammissione di avere l’AIDS.
Il sipario cala alle 18:48 di domenica 24 novembre 1991.
Muore nella sua casa ed il suo corpo, cremato, è conservato dalla famiglia (un’altra tesi ritiene le ceneri disperse nel lago di Ginevra, davanti alla “sua” Montreux).
Il suo funerale ebbe luogo in forma privata secondo le usanze zoroastriane.
Il 20 aprile 1992 a Londra si tiene il Freddie Mercury Tribute Concert.

Freddie Mercury è ricordato a Montreux con una statua in bronzo che si affaccia sul lago.

Ogni anno, dal 2003, in settembre, nella cittadina svizzera ha luogo il Freddie Mercury Memorial Day: centinaia di fan possono prendere diretto contatto con gli ambienti che furono di Mercury e compagni durante il lungo soggiorno svizzero, dalla famosissima “Duckhouse” (la casetta sul lago della copertina di Made In Heaven), ai Mountain Studios dove i Queen diedero vita a diversi progetti.
Il 16 novembre 1992 esce a quasi un anno dalla sua morte il The Freddie Mercury Album, una raccolta delle sue canzoni più famose da singolo, come Living On My Own, Barcelona e The Great Pretender.
Nel 2000 esce il Freddie Mercury Solo Collection, un box-set contenente 10 CD (Mr. Bad Guy, Barcelona, The Great Pretender più altri CD con sessioni di canzoni mai rilasciate ufficialmente) e 2 DVD: The Untold Story e The Video Collection; il primo è un documentario sulla vita di Freddie; il secondo è una raccolta dei suoi video.
Il 4 settembre 2006 viene rilasciata la più grande raccolta mai fatta in sua memoria: Lover of Life, Singer of Songs - The Very Best of Freddie Mercury Solo, 2 CD e 2 DVD per onorare quello che sarebbe stato il 60° compleanno dell’indimenticato frontman dei Queen.






mercoledì 23 novembre 2011

Red Phoenix Blues-"Illegal Blues"


Poco più di due anni fa mi capitò di vedere i neonati Red Phoenix Blues dal vivo, un trio con repertorio rock-funky-blues, che nell’occasione si esibiva  a Cairo Montenotte.
Fu proprio in quel giorno di inizio gennaio che Giacomo Caliolo mi accennò ad un progetto, un album da realizzare assieme al bassista Antonello Palmas Cotogno e a Elisa Pilotti alla batteria.
Giacomo e Antonello sono elementi di spicco della  scena musicale genovese e non solo, e i loro trascorsi sono di un certo rilievo, mentre Elisa è una promettente musicista impegnata su diversi fronti.
Quei timidi propositi si sono ora concretizzati.
Ho ascoltato in anteprima l’album -che dovrebbe essere distribuito a partire da fine mese-e a seguire presento un’anticipazione.
La prima sorpresa è stata quella di trovare una fantastica voce, quella di Daniela Venturelli. Parto da lei perché la sua presenza ha permesso a Caliolo di dedicarsi allo strumento senza caricarsi del peso di vocalist e questo, soprattutto in fase live, diventa a mio giudizio un gran vantaggio. E poi non sto parlando di normali qualità vocali, ma di “possibilità” personali abbinate a grande tecnica (lei è anche vocal coach), unite ad una timbrica calata meravigliosamente su questo “Illegal Blues”, disco di cui parla Giacomo nell’intervista a seguire.
Album “illegale” nel senso che ha poco a che vedere con la tradizione.
La miscela è ricca di ingredienti, e oltre al blues indicato nel titolo non si fanno attendere spruzzate consistenti di jazz, soul e funky.
Nove brani variegati, dove la sezione ritmica formata da Elisa e Antonello fugge dalla consuetudine per inventare tempi … internazionali.
Sì, non sembra questo un album italiano, ne fatto da italiani, ma un prodotto che potrebbe essere uscito da un qualsiasi studio di Chicago, e la distinzione è d’obbligo se si pensa ai giudizi pieni di preconcetti che da chi vive oltreoceano vengono indirizzati a chi decide di accostare la parola”blues” alla propria musica, arrogandosi un diritto che-secondo loro- non hanno.
Caliolo guida la band su percorsi a lui congeniali e il risultato è un fantastico sound che induce spesso al movimento. Ma è impossibile stratificare il suono della band, nè viene spontaneo sottolineare i singoli ruoli, perché è la sensazione di amalgama che provoca piacere al cervello e allo stomaco.
Un album che nasce bene e promette ancor meglio, “illegal or authorized” ha poca importanza,  e sarà questa un’altra occasione per riaffermare  che la buona musica resta tale indipendentemente dagli schemi che, per convenienza, si è soliti creare.


L’INTERVISTA

Da molto tempo mi parli di questo tuo progetto che finalmente sta venendo alla luce. Cosa rappresenta per un musicista esperto come te questa nuova pagina, tenuto conto dell’aggiunta di una vocalist di grande qualità. Daniela Venturelli?

Abbiamo iniziato questo progetto in trio, io, Antonello Palmas Cotogno, con cui suono anche nel progetto Rondò Anthology, ed Elisa Pilotti. Inizialmente sapevamo di non voler suonare le “ solite cose”, perché l’appiattirsi non fa parte del nostro DNA musicale, pur provenendo da esperienze e generi diversi: io sono partito dal rock classico e sono approdato al prog e poi al pop (naturalmente passando per il blues!); Antonello proviene dal Jazz, Elisa dal Metal! Mentre eravamo in studio e avevamo già i brani con la guida della mia voce, è subentrata Daniela Venturelli,  che con le sue eccezionali doti vocali ha interpretato le canzoni come le avevamo in testa noi,  e ha portato del soul  nel sound del gruppo. C'è voluto comunque un anno di lavoro per arrivare alla conclusione del progetto.

”Illegal Blues”, avrà un significato ben preciso, ma a me riporta alla difficile accettazione dei bluesman italiani che propongono la loro musica negli States, laddove il blues è nato. Il tuo/vostro album mi pare abbia tutte le carte in regola per imporsi ovunque… hai già pensato che sarebbe bello osare un po’ e uscire dai nostri confini?

“Illegal Blues” per me e per il gruppo rappresenta una crescita professionale ed emotiva … naturalmente. Il titolo ha diverse interpretazioni, la nostra è la seguente: i puristi del blues, quello delle 12 battute si irriteranno... per loro sarà un blues illegale! Questo è il “nostro” senso del titolo,  ma sinceramente, a parte qualche rimando al blues rurale ed elettrico tradizionale presente in Slide Guitar Ride, dedicato al musicista americano Bob Log III, un personaggio incredibile, il resto dei brani ha origini blues, ma miscelati a rock, soul, funky e fusion, come ad esempio in “Sardinian sog”-dedicata a Giulio Capiozzo-  e “Night Groove”. Abbiamo volutamente realizzato un cd “non italiano”... beh, sai, noi quattro amiamo gli States, musicalmente parlando, e quindi speriamo almeno di destare interesse in Europa anche se- per scaramanzia non mi sbilancio- un artista americano ha mostrato apprezzamento per il progetto.

Ti sei allontanato da Genova per la registrazione e distribuzione dell’album. Ci sono motivi particolari?

 Il cd è stato registrato a Genova, allo StudioMaia di Verdiano Vera,  un amico comune; l'ingegnere del suono è stato Giorgio Massaro, ma per il resto abbiamo preferito un'etichetta di Milano.

Prova a dare un giudizio “di parte” di “Illegal Blues”… perché bisogna assolutamente acquistarlo?

Un giudizio? Acquistare un cd come il nostro fa bene al portafogli-nostro- e alla musica in generale…  ahahah, scusa ma è la verità.   



Info Album

1) Night Groove:  Giacomo Caliolo, guitar & keyrboards; Daniela Venturelli, vocal; Elisa Pilotti, drums;  Antonello Palmas Cotogno, bass.
2) Slide Guitar Ride (dedicata a Bob Log III): D. Venturelli, vocal; A. Cotogno, bass; E.  
    Pilotti, drums, G. Caliolo, acustic & ekectric guitar.
3) Illegal Blues: Pilotti-Cotogno Caliolo.
4) Pay For Love: Giampaolo Casati, trumpet; A. Cotogno, bass; D. Venturtelli, vocal,
     G. Caliolo, guitar.
5) Sardinian Song (dedicate to Giulio Capiozzo).
6) In the mirror.
7)For Pippo dei Trilli: Giorgio Palombino, percussion, Stefano Guazzo, saxes; Marco
    Falanga, piano; A. Cotogno, bass; D.Venturelli, vocal, E. Pilotti,  drums; G. Caliolo, 
    electric guitar. 
8)Don't  look back
9)China Shipping: Marco Falanga, piano; D. Venturelli, vocal; G. Caliolo, guitar;  A.
    Cotogno, bass; Elisa Pilotti, drums.

I Red Phoenix Blues nascono a Genova dall'incontro tra Giacomo Caliolo (ex Rondò Veneziano, fondatore e produttore dei Soundflowers,Presage, Rondò Anthology, produttore pop, ex membro di Struttura e Forma, gruppo prog-rock genovese), Antonello Palmas Cotogno, bassista (collaboratore già con Andrea Mora, Pippo Franco, Alan Sorrenti, Sandro Oliva, Pippo dei Trilli) ed Elisa Pilotti, batterista e songwriter.  Dopo un inizio in trio allargano formazione con l’arrivo della nota cantante genovese Daniela Venturelli, vocal coch e turnista. Il repertorio è costituito sia da brani cantati che strumentali, senza eccessive preoccupazioni  di tipo commerciale.

In attesa di brano dimostrativo.

martedì 22 novembre 2011

Cristiano Parato with Mike Stern & Dave Weckl “Riding Giants”


Presentare un album che può vantare importanti collaborazioni è fatto abbastanza usuale, che riguarda sia nuovi musicisti che quelli che hanno fatto al storia del rock italiano. Spesso l’incontro è occasionale mentre a volte è il risultato di una ricerca precisa. Avere la possibilità di poter contare su artisti del calibro di Dave Weckl  Mike Stern non può che impreziosire il “momento musicale”che si decide di proporre, ma a giudicare da questo Riding Giants, non ci sono ne voglie ne necessità che possano indurre i due”giganti” a ergersi, uscendo dal contesto per affermare il loro talento. Il gioco di squadra  è al contrario palese, e Cristiano Parato pare tenga saldamente nelle mani le redini del gioco.
Virtuoso del basso, nelle righe a seguire si “scopre un po’”, spaziando su vari aspetti relativi al pianeta musica e non solo al mondo “Parato”.
Dodici brani strumentali infarciti di funky, jazz, tempi dispari e… melodia. Le eccelse doti tecniche dei singoli restano in primo piano, ma esiste uno scenario superiore,  orchestrale, che aiuta a dosare i vari componenti con una risultate di incredibile effetto.
Parato “parla” attraverso i suoni e utilizza il basso elettrico per raccontare le sue storie e per soddisfare la propria e altrui voglie di ritmo. Ogni episodio si distingue dal precedente anche se si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad un concept album, affermazione azzardata quando si tratta di musica strumentale, ma in fase di realizzazione è probabile che si consolidi il legame tra “pezzi” che, pur privi di liriche, dimostrano un unico filo conduttore ideale.
La sezione fiati, unitamente agli archi, contribuisce a donare la sensazione di musica “matura”, che non significa ne vecchia ne profilo  affine, ma completa, quasi ridondante, capace di diventare modello da seguire.
L’album si sviluppa melodicamente in crescendo e  quando si arriva a C DREAM, ultima traccia,  si tocca mio giudizio un punto altissimo, un brano capace di “smuovere” i sentimenti più reconditi, dopo che il funky spinto è riuscito a provocare altri tipi di scossone.
Varietà di suoni, talento, trame aritmiche e, mi ripeto, straordinario senso melodico.
Davvero un album godibile.


L’INTERVISTA

Partiamo dalla fine, cronologicamente parlando, e cioè dal 2011, anno in cui alcuni importanti incontri hanno dato nuovi impulsi al tuo lavoro. Come è stato l’impatto con Dave Weckl  e  Mike Stern, e quanto sono stati determinanti nella realizzazione di “Riding Giants”?

L’impatto è stato notevole, sia dal punto di vista musicale, che da quello umano; ho incontrato due grandi persone, disponibili, sensibili e ovviamente esageratamente professionali. Il progetto “Riding Giants” è nato il giorno in cui Mike e Dave mi hanno dato la loro disponibilità. Ovviamente la gran parte dei brani esisteva già, ma le stesure definitive e gli arrangiamenti  sono stati condizionati dalla loro presenza. Un brano in particolare, “Escape Plane”, l’ho scritto appositamente per loro, e ho provato grande soddisfazione quando Mike Stern dopo le registrazioni a New York, mi disse che era il suo brano preferito.  Pensa che il primo titolo, era  “X Stern”. 

Quali sono i musicisti e i generi musicali  che, sin dal momento della tua primaria formazione, ti hanno guidato sino al momento attuale?

Musicalmente sono nato ascoltando i Beatles, infatti quando il mio primo insegnante mi chiese chi fosse il mio bassista preferito, io dissi Paul McCartney, ma sinceramente credo che a quattordici anni conoscessi solo lui, che comunque considero un grande. Il gruppo che più di tutti ha segnato il mio cammino musicale sono stati i Police e ovviamente Sting, ma il bassista che maggiormente a condizionato la mia formazione è stato  Jaco Pastorius. Ovviamente negli anni ho studiato altri bassisti come Marcus Miller, Stanley Clarke, Michael Manring, e ascoltato altri gruppi come Weather Report, Electrik Band, Yellow Jackets, Yes, Toto e tanti altri.

Nell’immaginario comune il basso elettrico ha una funzione ben precisa e cioè quella di costituire il 50 % della sezione ritmica. Mi è capitato più volte di sentire il “tuo” strumento usato in modi differenti, non ultimo con lo scopo di essere l’unico accompagnamento di una-splendida- voce. Che cos’è per te “il basso”, e da chi sei rimasto … incantato nel vederlo suonare?

Il basso per me è il mio migliore amico, mi diverte, mi fa stare bene ed è stato fido compagno negli anni difficili dell’adolescenza, quando lo studio del mio strumento mi impegnava e mi dava la voglia e la possibilità di sognare, e secondo me i sogni sono fondamentali per la vita di ognuno di noi. A parte questa visione nostalgica e romantica, credo che il basso più di altri strumenti, riesce a rappresentare il mio carattere, è incisivo, ritmico, preciso e melodico. Lo adoro.

Che cosa rappresenta per te una performance live? Meglio studio o palco?

Di solito si sente sovente parlare di “animale da palco”, io invece mi considero un animale da studio. Adoro lavorare in studio, perché sono maniacale nella ricerca del suono, nella scelta delle corde, del set up del basso e ovviamente mi piace lavorare sugli arrangiamenti e sui mix. Suonare dal vivo ovviamente è più emozionante, è la vera prova del nove e di solito tira fuori il meglio dagli interpreti, ma lavorare in studio è altrettanto impegnativo e gratificante.

Vorrei un tuo giudizio relativo al web: cosa toglie e cosa da ai musicisti, che siano già affermati o in cerca di visibilità?

Le tecnologie attuali e il web ti permettono una grande facilità di comunicazione e di scambio tra i musicisti di tutto il mondo, e questo è un grande pregio, ma di fatto internet ha ucciso il mercato musicale tradizionale imponendo un sistema di diffusione meno qualitativo, meno affascinante e anche penalizzante dal punto di vista economico.

Nel comunicato ufficiale di “Riding Giants”, si evidenzia un mix di ingredienti, tra  Latin, funky e fusion, probabilmente il tuo DNA musicale. Esistono altri “spazi musicali” che ami perlustrare, magari in momenti di … relax?

In questa vita così frenetica, il tempo per il relax e l’ascolto della musica, è sempre più sacrificato, ma quando riesco, io ascolto di tutto, soprattutto cose diverse dalle mie; posso passare da un brano pop ad uno sinfonico, dipende dal mio stato d’animo. Quando ascolto la musica, per me è importante carpire quello che l’artista voleva far succedere di preciso quando ha composto e arrangiato il brano. Ogni artista parte da un’idea e spera che alla fine questa venga rappresentata, a volte anche solo da un riff o un suono in particolare, ma quello sarà il messaggio, quella cosa che deve colpire, entrare nella testa e non uscirne più.

Cosa significa suonare con miti musicali? Più facile, per la loro professionalità o complicato, per il ruolo che ricoprono?

Vedi, se solo quattro o cinque anni fa mi avessero detto che nel breve avrei fatto due dischi con Scott Henderson, Lele Melotti, Mike Stern e Dave Weckl, avrei riso pensando che sarebbe stato più facile vincere alla lotteria. Quando ti avvicini a musicisti di questa caratura, subito provi una sensazione di inferiorità e soggezione, ma poi quando vedi che loro ti ascoltano, ti seguono, credono in te, allora tutto cambia, perché ti rendi conto che sono persone normalissime, che amano confrontarsi accettando, pur essendo all’apice della carriera, nuove sfide. Credo che il segreto di chi ha sfondato, ovviamente parlando di artisti seri, sia quello di aver sempre coltivato la creatività e la curiosità senza mai sentirsi arrivati. Lavorare con loro è ovviamente più semplice, ogni cosa che fanno non è mai scontata ed è sempre in armonia con la situazione in cui si trovano.

Cosa rappresenta per te un testo musicale? Qual è il tuo rapporto, in generale, con le liriche?

Nella prima fase della mia carriera musicale sono stato autore di testi musicali, amavo scrivere perché mi dava la possibilità di esprimere tutto quello avevo dentro ma, ad essere sincero, ora quando scrivo una bella melodia, che venga suonata da me, o da un altro strumento, a me fa provare la stessa sensazione di ascoltare un testo cantato. Credo che per la gente il testo sia più immediato, ma una bella melodia suonata bene, a volte può essere molto più efficace, anche perché, pur avendo a disposizione più parole che note, i testi oggi giorno, sono  monotoni e scontati.

Mi dai un tuo giudizio su i Talent Show? Sono davvero una scappatoia?

Lo show business esiste da quando l’arte ha iniziato a monetizzare, ma la differenza è che negli anni 50, 60, 70, la caratura degli artisti era ben diversa. Fare il musicista, era un’esigenza, era un bisogno espressivo dell’artista, poi sicuramente il prodotto e il personaggio venivano sfruttati al massimo, ma il talento e le capacità per esprimerlo, venivano prima di tutto. Ora è tutto diverso, prima si crea uno show, poi si cercano i partecipanti, e poi forse tra tutti,  qualche talento lo si scova anche, ma è tutto troppo preparato e artefatto, alla fine non riesci più a capire quanto il talento sia vero, o semplicemente creato a tavolino come certi atleti, che poi al primo stop o al primo vero esame si dimostrano fragili come castelli di carte. Io credo nello studio, nella gavetta, nel sacrificio, ma soprattutto nel fatto di amare e coltivare una passione senza pensare al successo. Non ho mai smesso di fare musica vivendo a volte anche momenti di sconforto, ma ora mi trovo a suonare con alcuni tra i migliori musicisti al mondo, quindi credo che la mia costante voglia di crescere e migliorare stia dando i suoi frutti.

Prova ad esprime un desiderio musicale da realizzarsi entro il 2015.

Ho appena terminato un lavoro molto impegnativo, quindi in questo e momento per me è difficile pensare a un nuovo progetto discografico. Ora vorrei concentrarmi sulla promozione, curando oltre all’aspetto mediatico, anche l’aspetto dell’esibizioni live. Il  mio desiderio più grande sarebbe quello di suonare dal vivo con gli ospiti del mio ultimo CD, e credo sia fattibile come era già successo con Scott Henderson nel 2010.



Cristiano Parato nasce musicalmente nella metà degli anni ottanta, quando inizia a suonare il basso elettrico all’età di quattordici anni, seguito da Marco Gallesi ex bassista degli “ Arti  mestieri. La composizione e l’arrangiamento lo hanno sempre affascinato. Nel 2009, grazie alla collaborazione con il grande chitarrista americano Scott Henderson e il batterista Lele Melotti, nasce “Ostinato Bass”, dove Cristiano Parato oltre ad essere compositore e arrangiatore, si cimenta in diverse tecniche creando uno stile accattivante ed elegante. Segue un anno dedicato principalmente al discorso live tra cui spiccano esibizioni con lo stesso Scott Henderson e con il chitarrista Dominic Miller ( chitarrista di Sting da oltre vent’anni). Nel 2011 Cristiano ha la fortuna di conoscere uno dei più grandi batteristi al mondo, Dave Weckl, e il mito della chitarra elettrica Mike Stern. Ne scaturisce una felicissima collaborazione da cui nasce “Riding Giants”, elegante produzione in cui i dodici nuovi brani evidenziano la crescita tecnica, musicale e compositiva dell’artista nostrano. Un evento senza precendenti  in quanto in una produzione discografica  italiana Mike Stern & Dave Weckl non avevano mai suonato insieme. Un album dalle sonorità importanti, dove oltre al suono potente e raffinato del basso troviamo un Weckl  che riesce ancora una volta a stupire i suoi fan con pregevoli e deliziosi interventi, precisi, ma mai  invasivi, lasciando  il doveroso spazio alla band di Parato. Una bella e costante  sezione di fiati contribuisce alla realizzazione di questo capolavoro arricchito dalla presenza di Mike Stern: la ciliegina sulla torta! Le parole per Mike non servono a nulla, meglio ascoltarlo e restare in silenzio... con lui si deve fare così!

INFO

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Track list

RIDING GIANTS
Mr WITTY
ESCAPE PLANE
WITH ON HER HANDBAG
SLYLY
THE COLLISION
BLODIE
GIVE SOUL
TWO WINGS
DEVIL IN LOVE
ART OF CHANGE
C DREAM