martedì 27 agosto 2019

Vincenzo Ponticiello e gli Spettri: un pò di storia...


Negli ultimi anni mi è capitato in un paio di occasioni di scrivere di una band storica, gli Spettri, e di vederli/presentarli su palco genovese del FIM, nel 2014.
Ecco i due articoli del passato corredati di interviste:



Il bassista della band è Vincenzo Ponticiello, a cui ho chiesto di raccontarsi…

Sono nato a Firenze il 5 aprile 1955.
Essendo il terzo fratello minore di Carmine e Raffaele, che hanno dedicato la loro vita alla musica, non avrei potuto sfuggire alla strada già tracciata per mio conto.
Gli insegnamenti di Raffaele, chitarra solista degli SPETTRI, mi hanno dato la possibilità di suonare fin da piccolo, in un momento in cui non esistevano scuole di musica, ma solo passione da abbinare ad un minimo di talento.

A 14 anni, dopo l'esame di 3° media, ricevetti come premio il mio basso preferito: un Ibanez modello jazz bass regalatomi proprio dai miei fratelli. Ci sono 9 e 10 anni di differenza fra me e loro, e a quel tempo un ragazzo di 14 anni aveva solo la possibilità di assorbire i grandi della musica degli anni 50-60. I coetanei solitamente erano appassionati di calcio o banalità ludiche. Fortunatamente conobbi un ragazzo della mia età, Stefano Melani, che invece suonava il pianoforte, “costretto” dalla nonna. Poco dopo sostituì il pianoforte con un organo Bauer, col quale ci avvicinavamo sempre più velocemente alle serate musicali delle balere tipiche di quei tempi.


Era molto duro suonare il giovedì sera dalle 21.30 alle 1.00, il sabato sera, la domenica pomeriggio e la domenica sera, e allo stesso tempo frequentare la scuola superiore con discreto rendimento. Erano i primi anni ‘70 ed ero più attento al percorso dei Led Zeppelin che alla botanica sistematica.
Nel 1973 partecipai alla registrazione del primo album di Giovanni Unterberger, raffinato chitarrista finger picking, atto che mi regalò una certa notorietà. Nel frattempo, il mio amico Stefano aveva sostituito l'organista degli Spettri, Alessio Rogai, il quale si dedicò completamente agli studi universitari.

Nella primavera del 1971 fui ingaggiato come bassista da un gruppo femminile, Sonia e le Sorelle, che avevano partecipato a Sanremo ed avevano riscontrato un certo successo nel mondo beat. Per me fu un momento di grande crescita: appena sedicenne mi trovai a fare spettacoli insieme a BOBBY SOLO, al giovane ANTONELLO VENDITTI di Roma Capoccia, a Peppino di Capri... Fu una estate veramente esaltante, e con i soldi guadagnati comprai il mio primo basso Gibson EB0 per 400.000 lire.


Ma il mio desiderio era quello di suonare con i miei fratelli e con l'amico di adolescenza negli Spettri. Fortunatamente il bassista degli Spettri di allora, il poderoso Giuseppe Nenci, decise di sposarsi e, in quegli anni, sposarsi voleva dire diventare un uomo serio che pensava solo al lavoro e alla famiglia. A quel punto era arrivato il mio momento, entrai a far parte degli Spettri e non ne sono più uscito.
Dal 1972 cominciò l'avventura prog degli Spettri, con discreto successo nel mondo della musica cosiddetta "d'avanguardia" - che però in Italia era detta pop - per seguire il filone della pop art americana.


In quegli anni abbiamo avuto l'onore di suonare sullo stesso palco dei New Trolls, Le Orme, La Nuova Idea, Il Rovescio della Medaglia. Ma purtroppo il nostro disco non fu pubblicato perché frainteso come inno al satanismo. In seguito, alla fine degli anni ’70, ci fu il ribaltamento dello spettacolo musicale. Coloro che facevano concerti di musica prog furono detronizzati dalla disco music.


Da quel momento gli Spettri si sciolgono: io e Stefano tentiamo la via della musica ascetica formando un ensemble chiamato Ast -Ra, riscuotendo un certo successo nel mondo delle palestre yoga a Firenze, ma non durerà molto, perché l'influenza della musica elettronica si impadronisce delle scelte del mio amico Stefano Melani. A quel punto, grazie all'acquisto di una drum machine io e i miei fratelli cominciamo a rispolverare i brani rockabilly degli anni ‘50. Il pubblico dei piccoli club trovò molto interessante questa proposta e, nel pieno del periodo new wave noi, con l'aiuto di Mauro Sarti alla batteria, formammo il primo gruppo rockabilly italiano, nel 1984. Nel 1985 partecipammo a Quelli della Notte, il gruppo si chiamava DENNIS and the Jets...



Ma la cosa più bella che mi è capitata è stato il fortuito ritrovamento del master del primo disco, poi pubblicato, 40 anni dopo, dalla Black Widow. Per non parlare del secondo album, “2973 La nemica dei ricordi”, di cui mi vanto di aver scritto tutti i testi. . .
Con la speranza che siano stati graditi…

Adesso, in questa torrida estate che pare non finisca mai, sono in attesa di concludere il terzo atto della vita musicale degli Spettri.
Mi rimane il ricordo di aver suonato con grandi artisti italiani e stranieri, di aver pubblicato 8 Cd, 1 docu-film, due fascicoli sulla nostra storia e la soddisfazione di essere stati invitati in tour a Seattle, Portland, Falls City nello stato di Washington per rappresentare il rockabilly italiano.

domenica 25 agosto 2019

Intervista a Gianni Nocenzi-7 agosto 2019


All’interno della “Rassegna D'Autore e d'Amore 2019”, svoltasi a Bordighera la prima settimana di agosto, uno dei protagonisti aveva un nome particolarmente importante, estremamente significativo per chi ha amato e ama la musica progressiva: Gianni Nocenzi.

Ho seguito la sua storia con il BANCO sin dai primi anni ’70, ma non avevo mai avuto l’opportunità di parlargli direttamente, comunicando sempre attraverso interposta persona.

Il 7 di agosto l’ho incontrato in occasione del concerto ligure e, nonostante non fosse per lui il momento migliore - 30 minuti prima della performance - si è dimostrato molto disponibile e gentile, e mi ha gratificato il fatto che sia un lettore abituale di MAT2020.

Nonostante il poco tempo a disposizione, dalla nostra chiacchierata sono emerse cose interessanti, alcune particolarmente delicate e personali… vale la pena leggere!


Lo scambio di battute…

Dopo tanta attesa riesco ad incontrati… tra un po’ salirai sul palco, ma vorrei provare rapidamente a soddisfare qualche curiosità…

Sono stato a lungo lontano dai riflettori, un periodo che inizialmente doveva essere breve, trasformatosi poi in uno spazio temporale di 22/23 anni… sai, uno parla quando ha delle cose da dire, e non mi sembrava il caso, in quel momento, di apparire e diventare una sorta di tuttologo, intervenendo sulle cose più disparate, come spesso accade. Poi mi sono reso conto che questa mia presa di posizione poteva essere scambiata per scortesia… ne approfitto ora per dire che non era assolutamente così! Il mio ragionamento fatto nel 1985 era: “… se in Italia si gioca così io mi chiamo fuori”, ma non ce l’avevo con nessuno di quelli con cui avevo condiviso il percorso sino a quel momento, ma piuttosto con quell’andamento negativo che iniziava a palesarsi e che puntualmente ci ha portato al deserto assoluto in cui viviamo oggi.

Vorrei parlare del recente passato, quella sorta di reunion di cui sono stato testimone avvenuta a Volpedo nel 2009, dove tu ti sei ritrovato con la quasi totalità del BANCO per un concerto da sogno…

La mia partecipazione a quel concerto è stata casuale e il motivo per cui è accaduto è legato ad un nome preciso, quello di Rodolfo Maltese, che tornava sul palco dopo la prima fase della malattia; successe magicamente che eravamo tutti presenti (mancava Renato D’Angelo, N.d.R). Quindi non si può considerare una reunion, come invece avvenne nel 2002.
Quando Rodolfo mi spiegò la situazione pensai subito che non sarei potuto mancare.
Ho un ricordo bellissimo di quella serata, un concerto realizzato senza prove in un periodo in cui ero preso da molte altre cose, ma l’idea di suonare con Rodolfo dopo quanto gli era accaduto, pensando che tutto fosse ormai alla spalle, mi provocò una grande emozione, e mi sono trovato davvero a mio agio; non è mancato il divertimento, e di quella sera ricordo bene un momento dissacrante, quando Francesco Di Giacomo, in fase di presentazione, passando ad uno ad uno i musicisti, arrivato al trombettista annunciò il suo strumento: “Tromba”, e aggiunse: “Beato lui!”. Questa che potrebbe sembrare una battutaccia era in realtà l’impronta digitale di Francesco, il suo modo per sdrammatizzare.

La prima volta che vi vidi dal vivo ero un adolescente, al Teatro Alcione di Genova, e ricordo che al mixer era presente Marcello Todaro, ed era forse era il primo vostro concerto dopo l’avvicendamento dei chitarristi, da Todaro a Maltese…

Il BANCO è sempre stato qualcosa di diverso da un gruppo musicale, non c’era una gestione rigida alle spalle, e parlare di “famiglia” sarebbe riduttivo.
Per noi la qualità del suono era fondamentale, e quando c’è stato l’avvicendamento tra chitarre abbiamo pensato che nessuno meglio di Marcello poteva aiutarci, perchè conosceva tutti gli arrangiamenti e aveva un grande talento legato alla gestione dei suoni, tanto che ha continuato su quella strada e ora prosegue a San Diego, in California, dove vive da molti anni.

Parliamo del presente?

Oggi compio sette anni! Il 7 agosto del 2012 si è verificato il primo evento di questa ecatombe che riguarda la famiglia del BANCO… il 7 agosto del 2012 sono morto e sono rinato l’8 mattina, dopo che mi hanno diagnosticato una dissecazione dell’aorta, patologia con il 92% di mortalità. Quindi per un caso fortunato, quasi un miracolo, ho potuto vivere questa rinascita. È una cosa che è rimasta nell’ombra, volutamente, ma ora che è materia passata se ne può parlare, considerando anche che oggi, 7 di agosto, ricordiamo la data nel modo migliore possibile, qui a Bordighera, suonando e condividendo le emozioni personali con il pubblico.

Tra pochi giorni, il 2 di settembre, ti ritroverai a Verona sul palco con il BANCO. Ho sentito da poco Vittorio (Nocenzi) e ho trovato in lui un enorme entusiasmo…

Grazie a Dio lui ha ripreso alla grandissima. Però Vittorio è Vittorio, con un bazooka lo rallenti appena, neanche l’emorragia cerebrale l’ha fermato. Questa sua generosità, questa voglia di reinventare e rimboccarsi le maniche va gestita. Anche per questo vado a Verona con piacere, partecipando ad una sorta di data zero. Sento il bisogno di esserci, sapendo che Vittorio è contento e anche gli altri ragazzi che ho conosciuto lo sono; sono un po' preoccupato perché non so bene cosa dovrò fare, non è un programma da cui si può entrare e uscire a piacimento, anche perché da quando sono andato via tutti gli arrangiamenti sono stati riposizionati. Io farò l’apertura del concerto e poi vediamo se avrò tempo e spazio per fare qualche brano insieme. Ma è grande la voglia di essere presente a questo nuovo battesimo.

È facile per un osservatore esterno immaginare uno stato di profonda simbiosi con il tuo strumento: quale rapporto hai con il pianoforte?

Tocchi una nota dolente. Non posso purtroppo portarmi in giro il mio pianoforte, e visto i problemi che attanagliano qualsiasi organizzazione, in primis quelli economici, risulta difficile avere lo strumento adeguato, e nel mio caso risulta impossibile attenuare anche le piccole imperfezioni, essendo la mia un’esibizione in “solo”, e priva di testi. Lungi da me pretendere ogni volta uno Steinway gran coda o un Fazioli, va bene anche un Yamaha, però devi sentirlo tuo. Il pianoforte è un miracolo di ingegneria acustica. Solo la regolazione della meccanica e dei feltri è un gran lavoro a cui bisogna prestare attenzione, e non lo dico per presunzione; il programma che sto proponendo, può piacere o meno, ma è una mia proposta emozionale, non il mettere in mostra le mie competenze.
Quello che dovevo fare l’ho fatto, avendo avuto la fortuna di essere partito giovanissimo, e non devo più dare dimostrazione di chi io sia, evitando di evidenziare un virtuosismo fine a sé stesso, anche perché il mio lavoro è diventato nel tempo la ricerca dell'aspetto tecnologico della musica, dei mezzi di produzione dell'audio e della creazione dei suoni, a partire dal punto di vista meccanografico, con un tipo di ripresa che ho disegnato personalmente, che obbligatoriamente ho dovuto riportare sullo stereo per la limitazione del supporto, il CD o LP (che ancora non ho fatto ma voglio fare); io riprendo a 24 bit e 96 kilohertz in 5.1 con i microfoni posizionati sulla mia testa, e quel poco che rimane di queste cose comunque si può captare sul CD se lo si ascolta in cuffia. Una cosa semplice come Left and Right nel pianoforte, quando l’ascoltatore è seduto davanti al palcoscenico, normalmente è tangente al suo punto di vista, allora ho cortocircuitato questa cosa e ho messo un array microfonico 5.1 direttamente sulla mia testa: ascoltando il pezzo in cuffia è come essere seduto con me sulla panca, e si riesce a percepire il suono come lo sento io che sto suonando. Quindi la ricerca timbrica c’è, anche se non si usano campionatori o sintetizzatori, e il tutto ha il significato del portare quella che è anche una parte della mia esperienza di sound designer su una performance di piano solo. Restituire questo dal vivo purtroppo non è possibile, si può controllare solo la minima parte, legata alla performance, comunque lontana dalla perfezione dello studio; ma se lo strumento non è buono anche la tua performance inevitabilmente non lo sarà, perché non riesci a trovare l’equilibrio necessario.
Nei festival si trovano spesso pianoforti che hanno vissuto diverse stagioni, con meccaniche mal registrate, e spesso gli strumenti sono quelli che sono, mal calibrati, spesso “toccati” dalle intemperie atmosferiche e suonati da più mani. Tutte cose quasi sempre oscure agli organizzatori, difficilmente dentro agli aspetti tecnici.
Suonare in trio o in gruppo può significare anche coprire e mascherare eventuali mancanze, ma in un concerto per solo piano, dove si propone musica assoluta, la perfezione tecnica dello strumento gioca un ruolo fondamentale.

Cosa hai in testa in questo momento se pensi al tuo futuro professionale?

Rispondo con tre parole: NON LO SO.
Ho passato i migliori anni della mia vita a “s-progettarmi”, come disse Carmelo Bene. Ora sono in una fase in cui aspetto che le cose accadano, perché è inutile programmare e progettare, entrando in un meccanismo perverso che non porta a nulla.

Riesci ancora a trovare soddisfazione nel condividere le cose con gli altri?

Assolutamente sì, perché mi piace suonare per la gente, anche se faccio pochissimi concerti; sono costretto a fare poche cose perché spesso viene a mancare quello che io chiamo il minimo sindacale, cosa che non accade in certi paesi stranieri. Mi riferisco a carenze tecniche di base: che ci siano suoni corretti, che ci sia un buon allineamento, che lo strumento sia ben accordato.
Ultimamente ho fatto una cosa per beneficienza, e a seguito di una mia domanda specifica mi hanno risposto che il pianoforte era stato accordato un’ora prima del trasporto sul palco! Settare un pianoforte e poi trasportarlo, pensando che l’accordatura rimarrà immutata, a discapito del travaglio meccanico subito, del cambio di temperatura e di umidità, non sapendo che spesso certi interventi vengono fatti anche tra un primo ed un secondo tempo, significa non conoscere aspetti importanti del mestiere di organizzatore, custode attento della qualità della proposta.
Quello che disarma è che questi atteggiamenti sono frequenti, magari basati sulla buona fede, che però dimostrano il gap culturale esistente, la mancanza dell’abc tecnico.
Di fronte a tutto questo, spesso, preferisco tacere e preservare il fegato, perché alla fine i problemi sono sempre gli stessi, non cambiano mai con il passare degli anni e sfociano in situazioni che è bene buttare sul comico, anche se in realtà, per un musicista, possono diventare drammatiche.

Aggiungo il pensiero di Gianni Nocenzi relativo al concetto di Musica Progressiva, estrapolato da quanto raccontato dal palco nel corso del concerto… Gianni, cosa è stato il Prog?

Parliamo di una definizione arrivata successivamente all’epoca in cui era in voga il genere, perché inizialmente si parlava di pop, rock… tante sottolineature diverse.
Proprio oggi sono stato intervistato da una ragazza che deve realizzare una tesi sul tema, e mi domandava cosa sia stato il Prog Italiano, e quindi mi chiedeva lumi sulle differenze di base e su ciò che avevo vissuto personalmente.
Quando ero poco più che adolescente, la mia generazione aveva in testa questa musica strana a cui era difficile dare un nome ma che, sintetizzando al massimo, potrei definire, almeno nell’intento, come una gran voglia di discontinuità, di rottura rispetto a ciò che era esistito sino a quel momento, e dal punto di vista artistico rappresentava una sfida, il provare a posizionare in un nuovo equilibrio - commettendo tanti errori e ingenuità - linguaggi musicali che sino ad allora erano stati considerati inconciliabili, addirittura antitetici: il classico, il jazz, il pop, il rock. Il tentativo era provare a vedere se questi differenti dialetti, caratterizzanti la grande musica del ‘900, potessero coesistere in una formulazione contemporanea. Sto parlando di fine anni ’60 e inizio ’70. Come me molti musicisti dell’epoca avevano in testa questo proposito, ma c’era un gruppo che, secondo me, lo faceva in maniera molto rigorosa, con testi bellissimi, arrangiamenti sofisticati, ma sempre al servizio dei contenuti. Quel gruppo di chiamava e si chiama Banco del Mutuo Soccorso.  

Il 2 di settembre, a Verona, la grande famiglia del BANCO si ritroverà e… sarà una nuova partenza!

Sunto della performance del concerto di Bordighera…

mercoledì 21 agosto 2019

“Dai Led Zeppelin allo Zen” di Antonio Papagni


“Dai Led Zeppelin allo Zen” di Antonio Papagni

Il libro che  mi accingo a commentare è “Dai Led Zeppelin allo Zen” di Antonio Papagni.

Capita spesso di calarmi nel ruolo di chi scrive, di trovare punti comuni, idee che collimano, spesso sovrapponibili, ma in questo caso le similitudini sono davvero tante.
Per accantonare subito il concetto semplifico, sottolineando che ho vissuto nello stesso fortunato periodo, e molte delle esperienze raccontate da Papagni sono le stesse che fanno parte del mio quotidiano racconto di vita e musica.
Non parlo di “fattore nostalgia”, ma dell’urgenza di narrare un periodo felice - se riferito alla creatività musicale -, nella speranza che l’azione, quasi didascalica, possa diventare una solida linea guida nel caso qualcosa cambiasse e il futuro lasciasse spazio alle cose positive che sono capitate in un’era costituita da pochi lustri, caratterizzati però da repentine e sostanziali modifiche che hanno stravolto il nostro modo di vivere. Sognare ad occhi aperti è ancora un bell’esercizio.

Il periodo che l’autore prende in considerazione parte dal 1972 e arriva al 1990; scriverlo nella sua attuale forma ha richiesto anni di lavoro, e mi piace immaginare un ulteriore sottotitolo: “Dall’adolescenza alla maturità!”.
Già, l’adolescenza, quel primo periodo di vita, da sempre toccato dall’inizio di una personale colonna sonora - status che non credo si sia modificato nel tempo - che viene presentato in questo contesto con una forza prorompente che va scissa e particolareggiata nelle varie componenti, presenti negli adolescenti di quei tempi, molti dei quali, inconsciamente, aspiranti melomani:

-il passaggio dal binomio Beatles/Stones a qualcosa di più fresco
-il rito del vinile, ovvero la condivisione della nuova musica
-l’allargamento famelico della conoscenza, con grande predisposizione all’effetto domino
-lo spirito di emulazione, e l’avvicinamento allo strumento più congeniale.

Una cosa che, mi pare, mi avvicini ancora di più all’autore, è la capacità di rimanere nel lecito e nell’ortodossia, nonostante il bisogno di emulazione e appartenenza al gruppo, dinamica tipica dei giovani, ieri come oggi.

E vai a spiegare cosa sia stato il rito del vinile! Prova a mettere su piatto un formato fisico, così lontano dalla liquidità dei suoni attualmente sul mercato!

Pagina 7: inizio col botto... il racconto di un album in particolare, semplice nella denominazione, specifico nella numerazione. Dire che dopo quell’ascolto niente fu più lo stesso non è un’esagerazione, e ascoltare nel 2019 “Led Zeppelin II” fornisce le stesse emozioni di un tempo, almeno, a me capita così…

Estrapolo dal racconto di Papagni:

Erano i primi freddi mesi del 1972: ricordo che mi trovavo a casa di un amico ad ascoltare i Beatles… stavamo seduti per terra, attorno ad un vecchio giradischi, si parlava di “formare un complesso” … chi non faceva parte di una band voleva metterne su una. A un certo punto il mio amico prese un disco… lo mise sul giradischi e vi poggiò la massiccia testina… era “Led Zeppelin II”. Si scatenò la forza dirompente dell’album ed è stato quello il momento in cui non mi sono più sentito bambino. Difficile spiegare cosa mi successe, ma fu determinante per la mia formazione umana e culturale. Sono convinto che non sia possibile capire oggi cosa rappresentò l’uscita sul mercato del 2° disco dei Led Zeppelin. Fu uno shock! Dai solchi di quell’album si sprigionava un’energia nuova… avvertii chiaramente che quella musica segnava il passaggio da una dimensione ludica a qualcosa di più complesso, qualcosa che poteva nutrire la mia anima di adolescente.” (cliccare qui per l’ascolto ).

Da qui parte la storia di un giovane uomo che proverà a perlustrare i tanti sentieri che accompagnano un percorso che, iniziato in modo comune, trova arricchimento nella ricerca del nuovo, nel nutrimento del pensiero, nella contemplazione estetica di ciò che gira intorno, nell’utilizzo della giusta dose di razionalità, prendendo atto di procedimenti immodificabili che necessitano di spiritualità e ascetismo, almeno per una sufficiente dose di accettazione della precarietà esistenziale.

La musica, la letteratura, la natura: sono questi tre pilastri che diventano fondamentali per far fronte alle modifiche sociali, quelle che portano a disegnare, in estrema sintesi, uno scenario distopico, di cui ci si  accorge girando la testa all'indietro, quando probabilmente è troppo tardi per agire, e in ogni caso l’azione solitaria non potrà smuovere le montagne.

Papagni ci parla delle sue letture, del suo modo di vivere e convivere col mondo circostante, della sua musica, che è quella che ha caratterizzato l’esistenza di molti ex ragazzi nati a metà degli anni ’50.
E nei momenti di sconforto, quelli in cui occorre aggrapparsi alle certezze che mai hanno deluso, l’autore punta i suoi riferimenti indelebili, come Robert Fripp e Brian Eno, così come racconta nelle righe a seguire, da me sollecitato.

Potrei sviscerare i vari capitoli, ma il mio compito è solo quello di incuriosire e aprire la strada alla lettura; in ogni caso la chiacchierata a seguire rivelerà molti dettagli che permetteranno di entrare integralmente nel mondo di Papagni, e mi auguro che il suo libro trovi la più larga diffusione possibile, in primis per la sua completezza, mix di “nozioni, esperienze e idee”, e sono certo che anche i più introdotti nel mondo della musica sentiranno il bisogno di approfondire “titoli” dimenticati o mai catturati.
Perché questo passaggio dal rock alla spiritualità? Cosa unisce Page & C. alla meditazione Zen?

Vale la pena leggere il pensiero di Antonio Papagni, nelle prossime righe.
Personalmente credo che occorra possedere una basica virtù, il primo gradino del processo di innalzamento dell'anima che, partendo dalla ragione, possa giungere a una fede consapevole.

Il lavoro di Antonio Papagni è molte cose, e tra queste estrapolo la funzione didattica, quel tenere accesa una luce affinché il sentiero di chi arriverà dopo possa essere un po’ più chiaro e quindi meno insidioso, e a lui, fine pensatore, regalo una citazione nobile:

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte.
(Purgatorio. XXII, 67-69)

Libro imperdibile, testimonianza unica… ringrazio l’autore per aver rinforzato i miei ricordi e avermi fatto riflettere sui molti errori commessi… c’è sempre tempo per cambiare rotta!

Brian Eno e Robert Fripp
 Ecco cosa ci siamo detti!

Partiamo dal titolo del libro, “Dai Led Zeppelin allo Zen”, e proviamo a decodificarlo…

Il titolo illustra il percorso del libro, dando immediatamente al lettore i due punti estremi.
I Led Zeppelin occupano solo le prime pagine, ma sono l’origine che permette al processo di innescarsi. Lo Zen è il punto di arrivo, la presa di coscienza che il mondo vissuto era scomparso sia da un punto di vista musicale che culturale in genere, e bisognava rivolgere la propria attenzione altrove.

La struttura del tuo lavoro appare di complessa costruzione, nel senso che raccontarsi in modo così totale, delineando un lungo e significativo periodo di vita, richiede molto tempo: mi racconti la genesi e lo sviluppo del progetto?

Il libro era nella mia mente e in alcuni appunti in un progetto molto lontano nel tempo, ma inizia a prendere forma nel 2004, quando mi sono trovato solo davanti a tutti i miei dischi e i miei libri. Nasce dalla necessità di scrivere un testo (non accademico e non nozionistico) in grado di non disperdere un patrimonio, di far conoscere una parte del mondo musicale degli ultimi decenni del Novecento sfuggito all'attenzione di molti e ancora capace di coinvolgere i ragazzi 2.0, spesso all'oscuro di quella eredità culturale e intellettuale, nonché della coscienza e della cronaca di quel momento.
Infatti, non è solo un libro che parla di musica rock.
Oltre alla musica ho cercato di raccontare la trasformazione estetica ed esistenziale di un momento storico, il passaggio cruciale dagli anni ‘70 agli anni ‘90 dove, l'instaurarsi insidioso del neoliberismo, ha determinato un vero e proprio cambiamento antropologico.
La musica, i film e le esperienze politiche che ho conosciuto, solo per la fortuna di vivere in una “stagione irripetibile”, sono doni ricevuti da restituire.
Dovevo lasciare un contributo.
Quattro anni di tempo, ritagliando le ore alla vita di tutti i giorni per una prima stesura (considerando l’ascolto più volte ripetuto dei dischi raccontati, la rilettura dei testi nominati e la visione di alcuni film nonché le numerose ricerche) e molti anni di revisione.
Ho cercato quindi un editore ma, non trovando disponibilità, l’ho autopubblicato con “ilmiolibro.it”. È capitato nelle mani del mio attuale editore, ne è rimasto entusiasta e l’ha pubblicato nel 2017, sperando nel successo che ora sta avendo.

Mi pare anche inusuale il modo in cui hai “sistemato” le cospicue note, in pratica una sezione a parte raggruppata nell’ultima parte del book…

Le note sono state sistemate dal mio editore.
Come credo si possa capire leggendole, sono di due tipi: personali (raccontano esperienze e riflessioni); esplicative (cercano di chiarire alcuni termini e dare ulteriori informazioni su autori e titoli).
Le note personali erano presenti come testo ma lo rendevano enfatico e ridondante, nel senso che potevano giustamente non interessare. Le esplicative erano a piè di pagina. L’editore ha deciso che la scelta giusta era estrapolare la parte troppo personale e mettere tutto a fondo testo.

A questo punto faccio un passo indietro: mi racconti la tua storia in pillole?

Sono nato nel 1956. La prima parte della mia vita è descritta nel libro. Ho una figlia di 22 anni. Il mio lavoro, lontano dalla musica e dalla letteratura, è quello di Hospital Business Specialist per una azienda farmaceutica. Il resto è illustrato nella quarta di copertina.
Il percorso che descrivi presenta una buona dose di sofferenza, alimentata dalla crescita personale e, quindi, dalla consapevolezza, ma nei momenti più difficili sembra possa arrivare in tuo aiuto l’ancora di salvezza, che ha nomi e sembianze precise, da Fripp a Eno: la musica… certa musica, ha davvero un potere curativo superiore?

Se è vero che Paolo Vites ha intitolato la sua recensione al mio libro “Dai Led Zeppelin allo Zen: come la musica ci ha salvato la vita”, e ha ricordato nel testo la prima strofa di “No Surrender” di Bruce Springsteen “Abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola“; se è vero che la musica è stata fondamentale per la mia crescita personale, forse la cosa più importante è stato conoscere persone come Robert Fripp che avevano, oltre alla musica, “un modo di fare le cose” e una disciplina da trasmettere.
La musica di Eno mi ha dato invece, con i suoi riferimenti non solo estetici (ricordo le sue carte oracolari), la possibilità di avvicinarmi allo zen e di studiarlo.
La musica ha un potere curativo superiore solo se permette di conoscerti meglio, di aprirti a orizzonti nuovi, se libera le tue potenzialità migliori e rimuove il lato distruttivo.

Dallo scorrere delle pagine si evincono gli assi portanti della tua vita… la musica, la lettura e la natura: è questo, a tuo giudizio, un trittico adatto ad ogni era e quindi da diffondere con azioni “didattiche”?

Sì, penso che questi siano tre canali con cui veicolare un altro mondo possibile.
Ma in che modo?
La musica ha una natura intrinsecamente utopica, capace di risvegliare (specialmente nei giovani) la dimensione più profonda dell’uomo in cui è custodito il futuro realizzabile, anche se lontano. La musica fruita sempre in modo consapevole, in maniera cosciente e informata, anche superando la ritualità di un tempo. Inoltre, dovrebbe essere associata allo studio di uno strumento musicale, in modo più o meno virtuoso, ma sempre sotto la guida di un maestro.
La lettura deve essere esercitata in maniera critica, creando quella capacità di scelta che permette, entrando in una libreria, di cercare il libro “necessario” e non quello del momento, quello che ci vogliono far comprare. È importante alternare la letteratura da romanzo alla saggistica. Questo per sviluppare quella presa di coscienza fondamentale per decriptare i messaggi che oggi ci arrivano da ogni parte e in ogni modo, specialmente quelli più subdoli come le immagini e gli slogan.
Come scrive il filosofo canadese Alain Deneault, l'unico antidoto a questa società fallimentare è il pensiero critico.
La natura si lega molto allo zen e alla contemplazione.
Quando parlo di natura non penso alle grandi foreste equatoriali o ai ghiacciai polari. Non parlo di oceani o immense montagne. Io vedo la natura nel filo d’erba che incontro per la strada, nell’albero che cresce sotto casa, nella rondine che viene a fare il nido sotto il mio tetto, nel maggiolino che mi vola sulla mano a primavera. Imparando a rispettare e a meravigliarci di questi esseri semplici (per esempio non capozzando gli alberi perché è più comodo e meno costoso, eliminando i pesticidi, non inquinando con i rifiuti il parco dietro casa perché tanto è già sporco...) potremo poi efficacemente allargare il discorso alla grande natura. Ma se non mi meraviglio, non mi emoziono, se la mia anima non palpita per una foglia, se non sono capace di sentirmi una sola cosa con essa, non sarò in grado di amare tutto il resto. Se non soffro perché non vedo più insetti e farfalle nei prati della mia città, se non mi si stringe il cuore davanti all’incendio di un albero, non sarò in grado di rispettare la grande natura. Qui, lo ammetto, il discorso si complica perché entra in discussione l’essere vegetariani o addirittura vegani. Seguo da qualche tempo gli insegnamenti del prof. Luigi Lombardi Vallauri tra cui è inserito l’essere vegano, eppure non sono né vegetariano né tanto meno vegano. Credo sia una scelta estrema. Come insegnano i maestri zen bisogna essere moderati anche nella moderazione. Per eliminare gli allevamenti intensivi basterebbe rivedere i criteri alimentari del mondo occidentale, razionalizzare il consumo di carne bovina, suina e di pollame (si arriva a mangiare due-tre volte carne tutti i giorni). Ma gli interessi che girano intorno a questo business sono altissimi come in tutta la grande distribuzione alimentare e industriale. C’è poi il discorso del dolore che soffrono gli animali che non credo sia il caso di affrontare in questa sede. E dobbiamo anche tener conto dei danni che la “moda” vegana sta facendo nel mondo, in particolare in America Latina e nel sud est asiatico. Ma il discorso si fa lungo e scivoloso.
Per tornare alla tua domanda, è dalla bellezza intrinseca delle cose che possiamo imparare a trattare meglio il nostro mondo e gli altri. Cercare e vedere (sforzandoci di mantenerla) la bellezza in un ramo spoglio, in un quadro di Raffaello o nell’asfalto della nostra strada può salvarci la vita e può salvare il mondo.

Il cambiamento avvenuto a partire dal periodo iniziale della tua analisi ad oggi è stato sconvolgente, per rapidità e portata: che cosa salveresti della situazione attuale e cosa ritieni sia meno sopportabile?

Susanna Tartaro nel suo blog scrive che siamo circondati da “adolescenti multitasking che con una mano fumano e con l’altra reggono il cellulare; trentenni hipster, i barbuti surfisti del web che sgusciano smilzi su eco-biciclette con un cervello pieno di idee e di app, fanno tendenza; cinquantenni che girano come criceti sulla ruota; sessantenni, colti e ideologici mentre affondano i denti sui polpacci degli ottantenni seduti su poltrone da cui non si alzeranno”, ma io non credo che sia questo il quadro esatto. Questa è la televisione, come le ho scritto.
Gli adolescenti sono molto più interessanti e meno superficiali di quello che sembrano e i trentenni possono fare di più di una app di successo. Se c’è qualcosa da salvare sono le nuove generazioni che hanno in mano il cambiamento in potenza. Purtroppo, non sempre gli vengono date le corrette competenze per gestire la propria crescita con il risultato di un incremento di analfabetismo funzionale e di uno sviluppo limitato del pensiero critico (nasce il sospetto che vi sia un progetto dietro tutto questo).
Salviamo e facciamoci salvare dalle relazioni, dagli affetti, dall’amicizia e dall’amore. Distruggendo la capacità di unire distruggiamo il futuro. Senza affetti veri e concreti i giovani stanno male e “un ospite inquietante, il nichilismo ... penetra nei loro sentimenti, confonde il loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti” (come scrive Galimberti).
Detesto l’indifferenza, molte volte camuffata da un pietismo ipocrita, emotivo, puntiforme, in un paese che sullo spettacolo ha costruito gli ultimi quarant’anni.
Detesto la nuova ideologia che subdolamente sta manipolando le persone dal 1980. Detesto quel pensiero che ha annebbiato la mente e gli occhi della maggior parte delle persone che non riescono a capire che stanno assecondando ed alimentando la società dello scarto e che gli scarti siamo noi.

Pochi giorni fa un grande musicista, al termine della nostra conversazione, chiosava: “… Nel momento in cui si pensa che ci sia soltanto il gelo, la terra sta per donare la nuova speranza legata a nuovi prodotti… la gente ha bisogno di ritrovare ancora a belle idee, ha necessità di poesia, di bellezza, di amore ...”.
C’è qualcosa di semplice ma concreto che potresti consigliare a chi si affaccia solo ora sulla scena della vita da protagonista, tenendo conto che i modelli normalmente proposti non lasciano grandi speranze?

Dovremmo dare un nome a questi “protagonisti”. Se intendiamo le persone comuni allora penso che bastino le risposte che ho dato alle tue domande.
In altri casi, più o meno appariscenti, sarebbe utile per loro non prendere esempio da chi è presente ora sulla scena, ma cercare nelle menti illuminate un nuovo “modo di fare le cose”.

Mi dai la tua definizione di “Zen”, calata nella vita reale?

Calare lo Zen nella vita reale è molto difficile. Impossibile è darne una definizione.
Se si intraprende la via dottrinale si diventa monaci e si esce in qualche modo dalla vita reale oppure si vive in modo manieristico un mondo che in fondo non ci appartiene, con un Giappone più intuito che mai conosciuto davvero.
Non siamo giapponesi. Come ha detto il poeta Shuntarō Tanikawa “I giapponesi d’oggi non sanno più nulla dello zen, ma esso è entrato nel loro DNA.”
Non sono mai stato buddista e non mi fermo più a fare vera meditazione, ma studiare lo zen, frequentare il Buddismo (in particolare, con grandissima delusione, quello di Nichiren), la meditazione (grazie anche agli insegnamenti di Fripp al suo corso Guitar Craft e alla conseguente scoperta di Gurdjieff) e lo yoga, è stato un modo per reagire alla mia fragilità permettendomi di acquisire alcuni principi fondamentali.
“Cedere tutto” per prima cosa. Lasciarsi fluire, non chiudersi mai in difese a priori, in categorie rigide.
Il distacco: l’anima del puro abbandono. Distacco dalle cose materiali e immateriali. Non è il cinismo o l’indifferenza ma è il cercare di non restare impigliati negli ami della volontà narcisistica, dell’ego virale e megafonico.
Vedere le cose ed entrare in comunione con esse senza pretendere sempre di capirle. Lasciarsi sorprendere e sopraffare dal senso del mistero, dalla profondità arcana e insondabile della vita, da questo ideale estetico che gli haiku hanno ben illustrato.
D. T. Suzuki (considerato una delle massime autorità sullo zen) in una sua conferenza del 1957 mise a confronto due poeti (Basho e Tennyson) per illustrare le differenze della visione occidentale (loquace e vampirica) da quella orientale (silenziosa e contemplativa).
E poi il gusto per la materia povera e originale, il “qui e ora” che non è il “carpe diem”, coltivare la pazienza e l’umiltà, fare della compassione un metro di giudizio, riscoprire le inarrivabili riflessioni sui rapporti tra “finito” e “infinito”, immergersi in un misticismo attivo e laico.
Tutto ciò è molto più facile da scrivere che mettere in atto giorno dopo giorno. Ci provo, non so se ci riesco. Come capita agli umani predico bene e razzolo così così.

Sono curioso: l’album della tua vita… il libro della tua vita…

Dovendo rispondere improvvisamente direi senza dubbio “Larks’ Tongues in Aspic”. Eppure, non so se porterei questo album con me su un’isola deserta (anche perché è indissolubilmente inciso nella mia mente). Cercherei forse di unire Fripp e Eno e sceglierei “Evening Star”. Ma come dimenticarmi di Jon Hassell?
Non ho un libro della mia vita. Sono stati e sono tutti importanti, ma come dice il saggio zen, se devi attraversare il fiume costruisci una zattera, ma arrivato alla sponda non portartela sulle spalle, sarebbe un inutile peso. Così gli attrezzi del tuo insegnamento devono essere lasciati lungo il cammino dopo che hanno illuminato la tua strada. Un cammino su cui puoi sempre tornare per risperimentare gli strumenti con nuovi occhi e nuove orecchie.
Se dovessi portarmi un libro su un’isola deserta forse sceglierei di rileggere “Alla ricerca del tempo perduto”, per la sua lunghezza e complessità o anche “Finnengans Wake”, per la sua impossibile lettura.

Un’ultimissima cosa legata alla comunicazione visiva che hai adottato nel libro, una prima di copertina carica zeppa di nomi di artisti e l’ultima con differenziazioni nella grandezza dei caratteri e nei colori: come è nata la scelta?

Il mio editore è un grande. È stata tutta una sua scelta la copertina che comunque fa parte di una collana saggistica ben definita nella impaginazione.
           
 
We are proud to be a B Corp​



lunedì 19 agosto 2019

Ken Hensley Band


Il 7 agosto 2019 ho partecipato ad una serata dedicata alla musica progressiva all’interno dell’evento “Rassegna D'Autore e d'Amore”, a Bordighera, manifestazione di estrema qualità che ha visto la presenza di Ken Hensley e della sua band, di Gianni Nocenzi e di Davide Laura.

Questo il resoconto:


Ultimo a salire sul palco Ken Hensley con la sua band.
Il rock che hanno proposto e l’energia trasmessa sull’onda della musica degli Uriah Heep mi ha incuriosito e, influenzato dal genere e dai ricordi, ero sicuro di avere davanti a me un insieme di musicisti inglesi.
E invece no… tutti artisti nostrani!
Ho curiosato un po’, per saperne di più!

La band che accompagna Ken Hensley è formata da musicisti italiani: Paolo Sburlati alla batteria, Simone Bistaffa alla chitarra, Andrea Vilardo alla voce e Francesco Dalla Riva al basso e cori.


Paolo Sburlati è piemontese, batterista di lungo corso… è colui che tiene il contatto con Ken e organizza le sue esibizioni in Italia, oltre che essere suo buon amico da più di un decennio. Grazie a lui, il resto del gruppo ha avuto l’occasione di suonare insieme in diverse occasioni, ma anche con altri grandi artisti, come Ian Paice e Bernie Marsden. Per raccontare la sua carriera musicale non basterebbe un libro.

Il resto è formato da musicisti non professionisti (nella vita sono rispettivamente dentista, professore e commercialista), ma professionali, e uniti dalla comune immensa passione per la musica rock.

Simone Bistaffa è di Verona, polistrumentista, in origine hammondista, ma in seguito anche ottimo chitarrista e bassista. Dagli anni '90 suona con i Forever Deep, cover band dei Deep Purple, con i quali ha condiviso l'onore di suonare con Ian Paice, Don Airey, Roger Glover, Bernie Marsden, etc.
Ha anche suonato per anni con Tolo Marton e molti altri.
I Forever Deep hanno pubblicato un album di materiale originale nel 2013 per l'etichetta Azzurra Music. Amico di lunga data di Sburlati, Simone è quello che ha coinvolto Dalla Riva e Vilardo nell'avventura di suonare con Ken.

Anche Francesco Dalla Riva è di Verona, appassionato di musica rock da sempre, in particolare Uriah Heep e Deep Purple.
Per anni ha scritto per anni su riviste musicali del settore. Nel 1994 ha fondato i Bullfrog, power trio con il quale suona e canta e con cui ha realizzato più di trecento concerti e pubblicato cinque album di materiale originale, tre con l'etichetta Andromeda Relix e gli ultimi due per l'americana Grooveyard Records (Bistaffa suona come ospite su tre di questi). Nel 2014 è nata con Simone e altri l'idea di allestire un tributo alla musica degli Uriah Heep con la band Forever Heep; sono state fatte diverse date nel veronese sino a che lo scorso anno si è deciso di passare allo step successivo, quello di scrivere in proprio pezzi nello stile Uriah Heep.
Il materiale è pronto e nel prossimo settembre la band entrerà in studio per dare il via alle registrazioni. La speranza è quella di avere Ken Hensley come ospite in qualche brano: lui si è già detto entusiasta… loro ci sperano!

Andrea Vilardo è il terzo veronese e ha cantato in precedenza in cover band locali; tramite amicizie comuni è stato coinvolto nel progetto Forever Heep.


Dicono a proposito dell’esperienza con Hensley:

Suonare con Ken è sempre molto intenso, sia per il fatto di dividere il palco con uno dei nostri idoli musicali di sempre, suonando brani che ci emozionano da più di trent’anni (uno dei nostri preferiti preferito è “Circle of Hands”, che lo stesso Ken ci ha raccontato di aver scritto nel 1971, proprio in Liguria dopo un concerto), sia per il suo suono bellissimo all'hammond, che potremmo ascoltare per ore. È allo stesso tempo emozionante perché non c'è quasi mai il tempo di fare delle vere prove con lui, per ovvi motivi geografici (vive in Spagna) quindi, una volta stabilita la scaletta, sul palco ci si affida molto all'empatia tra di noi e alla magia del palcoscenico”.

E on stage può capitare l’episodio inusuale (che ho raccontato nel commento alla serata di Bordighera…), una corda del basso che si rompe - per fortuna è successo all'ultimo pezzo della serata -;
Ken l'ha trovato molto rock'n'roll!