"Flowers"
è il decimo album dei Rolling Stones,
pubblicato originariamente nel 1967 come una raccolta di brani non inclusi nei
loro precedenti album britannici È un disco che offre una panoramica
interessante sulle prime fasi della carriera della band, offrendo una miscela
di tracce provenienti da diverse sessioni di registrazione ed era destinato al
mercato statunitense.
Pubblicato il 15 luglio 1967, è una
compilation di successi e brani mai editi prima su LP. Nello specifico, tre
brani erano all'epoca ancora inediti: My Girl, ripescaggio delle
sessioni per Out of Our Heads, Ride On, Baby e Sittin' On a
Fenc,e risalenti alle sedute di registrazione per “Aftermath”.
Il titolo fa riferimento alla grafica
di copertina, che raffigura degli steli di fiori sotto il viso di ogni membro
del gruppo. Fatto curioso e inquietante è che l'unico stelo raffigurato senza
foglie è quello sotto la testa di Brian Jones, che sarebbe morto due anni dopo.
“Flowers” raggiunse la terza
posizione in classifica negli Stati Uniti durante l'estate inoltrata del 1967 e
fu certificato disco d'oro.
Nell'agosto 2002 il disco è stato
rimasterizzato e ristampato in formato CD e SACD digipak dalla ABKCO Records.
Scendendo sul personale, sottolineo
come i brani contenuti nel disco siano realmente rappresentativi del sound
della band di fine anni Sessanta, molti conosciutissimi sotto forma di singoli,
sicuramente capaci di dare suono e immagini ad un’epoca di importante passaggio
culturale e musicale.
Sono questi, PER ME, i veri Rolling
Stones! Ma veniamo ad un po’ di oggettività.
L'album si apre con "Ruby
Tuesday", una delle canzoni più celebri della band, caratterizzata
da un'atmosfera malinconica e da un bellissimo arrangiamento strumentale, uno
dei momenti più alti di "Flowers", capace di mostrare il lato
più melodico e introspettivo dei Rolling Stones.
Altri brani degni di nota sono "Mother's
Little Helper", che affronta tematiche come la società e l'uso di
sostanze stupefacenti, e "Let's Spend the Night Together",
un pezzo energico e carico di passione. Entrambe le canzoni dimostrano
l'abilità compositiva della band nel creare brani orecchiabili e allo stesso
tempo significativi.
Tuttavia, è importante evidenziare
ancora come "Flowers" sia un album di “raccolta”, e quindi
mancante di una coesione tematica o stilistica, tipica degli album in studio
tradizionali. La selezione dei brani potrebbe quindi sembrare un po' eterogenea
a volte, ma questo può essere attribuito alla sua natura di compilation.
Nonostante ciò, "Flowers"
offre un'interessante finestra sul periodo di transizione dei Rolling Stones
tra le loro prime fasi come band rhythm and blues e il successivo sviluppo di
uno stile più sperimentale e psichedelico. La performance vocale di Mick Jagger
è notevole in tutto l'album, così come la potente sezione ritmica composta da
Keith Richards alla chitarra e Brian Jones alle tastiere.
In definitiva, si può affermare,
sicuri di non sbagliare, che "Flowers" è un album che vale la pena di
ascoltare, per gli appassionati della band e per chiunque sia interessato alla
musica rock degli anni '60. Pur non essendo un album di studio tradizionale,
offre una selezione di brani notevoli e rappresenta una tappa importante nella
carriera dei Rolling Stones.
Tracce (cliccare sul titolo per
ascoltare)
Tutte le canzoni di Jagger/Richards
tranne dove indicato.
Keith
Richards - chitarra elettrica, chitarra acustica, cori, basso in Ruby
Tuesday e Let's Spend the Night Together
Brian
Jones - chitarra elettrica e acustica, tastiere, basso, koto in Take It or
Leave It e Ride On, Baby, dulcimer in Lady Jane, registratore
e flauto in Ruby Tuesday
Parliamo di Galadriel, band di musica progressiva spagnola fondata a Madrid nel 1985 da non
confondere con l’omonima prog band australiana di inizio seventies…
Ho trovato in rete questo commento ma lascio giudicare i
lettori dopo un po’ di ascolto…
Sofisticata band Neo Prog spagnola, con voci in inglese e
spagnolo, sullo stile di Jon Anderson, ma la musica non è come quella degli
YES.
Il suono di GALADRIEL è morbido e molto ben elaborato con
cambiamenti dinamici e piacevoli passaggi acustici. La loro musica è più nella
vena del classico suono progressivo italiano (come i primi PFM, per esempio).
"Chasing the Dragonfly", il 2° album della band
spagnola, combina sapori etnici con uno stile neo prog molto banale per un
suono complessivo unico. Raccomandato.
"Quadrophenia"
dei The Who è un album rock epico e senza
tempo che meriterebbe un'analisi dettagliata. Ma credo che un disegno superficiale - il mio di oggi - unito al completo ascolto, possa essere più utile alla causa, quella che è finalizzata ad avvicinare i neofiti al rock.
Pubblicato nel 1973, l'album
rappresenta uno dei punti più alti nella carriera degli Who e un classico
intramontabile del genere.
Si tratta della seconda opera rock
della band dopo “Tommy”, ed è anche l'unico album degli Who
interamente scritto dal solo Pete Townshend.
L'opera è un concept album che
racconta la storia di Jimmy, un giovane mod nella Londra degli anni '60. La
trama esplora le sfide e le frustrazioni che affliggono il ragazzo mentre cerca di
trovare la sua identità in un mondo caotico e spesso ostile. L'album affronta
temi come l'alienazione, la ribellione giovanile, l'amore, l'autodistruzione e
l'accettazione di sé.
Musicalmente, "Quadrophenia"
è un tour de force. Gli Who dimostrano la loro abilità straordinaria nel creare
brani potenti e coinvolgenti, ma ciò che
rende l’album così speciale è l'abilità della band di trasmettere emozioni
attraverso la musica. La voce di Roger Daltrey è piena di passione e intensità,
catturando perfettamente il tormento interiore di Jimmy. I testi di Townshend
sono ricchi di poesia e offrono una narrazione coinvolgente e la sezione
ritmica è uno dei punti di forza del disco.
L'album presenta anche una varietà di
stili musicali, che vanno dal rock duro ed energetico di brani come "The
Real Me" e "5:15" alla delicata ballata "Love
Reign O'er Me". L'uso di strumenti orchestrali e arrangiamenti
complessi aggiunge ulteriore profondità e dimensione all'opera.
Uno dei punti salienti di "Quadrophenia"
è la produzione impeccabile di Kit Lambert e degli Who stessi, capaci di creare un
capolavoro assoluto.
L'album cattura l'anima e lo spirito di un'intera
generazione, offrendo una colonna sonora iconica per l'adolescenza ribelle. La
sua combinazione di musica eccezionale, testi profondi e narrativa coinvolgente
lo rende un album che merita di essere ascoltato e apprezzato ancora oggi.
È stato detto:
“Tutta la grandezza degli Who è
racchiusa qua dentro”
A distanza di qualche anno, nel 1979,
“Quadrophenia” è divenuto un film - diretto da Franc Roddam -, pellicola che ha
contribuito e mettere in risalto una cultura, un modo di vivere, un periodo
importante amplificato dalla musica degli Who.
Il 25 ottobre ha visto la
seconda di una lunga serie di presentazioni del libro “Woodstock, ricordi, aneddoti, sentimenti diffusi”
(Andrea Pintelli, Athos Enrile e Angelo De Negri), dopo l’esordio a Cremona
presenziato da uno dei tre autori, Andrea Pintelli, mentre per chi scrive, la
tappa piemontese, ad Alba (CN), ha rappresentato l’esordio.
Sono molto legato, sin da bambino, a
quella zona d’Italia ma, se faccio riferimento ad eventi culturali a carattere
letterario, il connubio ha preso il via nel 2011, quando un amico mi procurò la
possibilità di proporre il mio primo libro - scritto con Massimo Pacini - intitolato
“Cosa resterà di me”. Ieri come oggi la location si chiama Libreria
La Torre, anche se il numero civico non è più lo stesso e ora la posizione
è molto più centrale.
In questo caso il trait d’union è
rappresentato da un’associazione culturale, non solo a carattere musicale, che
io per comodità identifico in Enzo Patri, con cui ho collaborato un paio di
volte in una sala meravigliosa dove trovano spazio vinili e CD di ogni genere.
La collaborazione tra le due entità -
libreria e associazione - porta a sinergie che hanno permesso di realizzare
rapidamente questo nuovo incontro.
Ma potevo andare ad Alba senza l’aiuto
e l’amicizia di Luciano Boero?
Luciano è un grande musicista, colonna
di quella che fu la Locanda delle Fate, e ci è capitato più volte di interagire,
non soltanto per opere letterarie musicali, essendo lui, anche, scrittore e
saggista.
In questo caso specifico avevamo
programmato la possibilità di suonare qualcosa di semplice, qualche brano simbolo
di Woodstock, e a distanza avevamo concordato tre pezzi da inserire ad hoc in
momenti topici.
Sottolineo che io non sono un
musicista, ma lo spirito di base, nella mia idea di presentazione a tema, privilegia
il coinvolgimento piuttosto che lo sfoggio di bravura.
Però… un minimo di prova si rendeva
necessario, soprattutto per quanto riguardava le voci (cosa necessaria se ci si
avvicina alla musica di C.S.N.&Y.).
La mia scelta è ricaduta su “Find the
cost of freedom”, molto evocativa ed adatta a disegnare l’atmosfera di quei
giorni.
Luciano ha aggiunto un brano dei Beatles
coverizzato all'epoca da Richie Havens, “Strawberry Fields Forever”, su cui ho provato a raddoppiare la sua voce, e il gran finale doveva essere “We shell overcome”, il
brano manifesto di Joan Baez, potenzialmente in grado di coinvolgere il
pubblico con il canto.
Ok, ci diamo un appuntamento pomeridiano
per un paio di ore di prove, ma… alla fine non saranno più di trenta minuti,
meglio improvvisare!
Però… c’è una novità, una cosa
inaspettata.
Luciano, quasi con timore mi chiede
se mi farebbe piacere una eventuale partecipazione di un frequentatore di
quella zona, una che ha sempre una chitarra in auto, hai visto mai che…
Forse teme un mio irrigidimento al
cospetto di una situazione non preparata, ma sarei un pazzo se storcessi il naso
di fronte a Paolo Bonfanti, un chitarrista incredibile conosciuto anni fa, che
nel tempo ho seguito e, tanto per restare nel tema, ricordo la sua partecipazione
genovese ad uno spettacolo realizzato nel 2019, in occasione del cinquantennale
dell’evento.
La sua presenza non richiede grandi
prove supplementari, pochi minuti nel retro della libreria e stop, e io mi
ritrovo indegnamente in mezzo a due professionisti della musica, immaginando
che in ogni caso questa band inventata per una sera non la dimenticherò mai
più!
A cena tutti assieme e poi si è
pronti per condividere il messaggio, almeno si spera, con qualche persona
interessata a curiosa.
La libreria La Torre, rivoluzionata nel
lay out dopo il fine lavoro, è piena di anime, e quindi… si comincia bene.
Prima di continuare il racconto mi
viene da sottolineare la semplicità con cui si è arrivati alla piena efficienza:
poche prove musicali, un nano secondo per settare pc/proiettore/chiavetta usb,
un regista perfetto, tanti registi perfetti, in grado digiocare
con le luci e muoversi all’unisono ad ogni minimo accenno, quasi fossimo una squadra
rodata al lavoro!
L’audience si è dimostrata molto
attenta e interessata. Non c’erano giovanissimi, ma credo fosse situazione
comprensibile.
Musica e parole, il connubio mi pare
funzioni in ogni occasione, e l’apprezzamento che ho rilevato mi ha confermato
una formula che si può riproporre con fiducia.
Direi anche una prova di decisa
elasticità, tenendo conto che siamo passati più volte da una conduzione che
seguiva il filo logico di un Power Point alternata alle domande di Luciano
Boero, e alla fine mi è capitato di essere io l’intervistatore dei miei
occasionali compagni di viaggio. Penso che tutto questo sia piaciuto ai
presenti, anche se il momento topico è arrivato quando Bonfanti ci ha riportato
al mondo di Hendrix… due mancini al servizio della musica!
Bene, si finisce in gloria, si fa per
dire, con la musica di Joan Baez e persone visibilmente soddisfatte, in una di
quelle serate che andrebbero ripetute, anche senza un libro da presentare.
A seguire propongo un paio di video,
che esistono grazie all’aiuto di mia moglie:
il primo riguarda la sezione musicale
ed è pressoché completo.
Il secondo è una frazione di “parlato”,
il minimo indispensabile, tanto per fornire un’idea di cosa potrebbe capitare
nelle prossime presentazioni.
Un grazie enorme allo staff della Libreria
La Torre, a Luciano, Paolo, Enzio, Gianni, Maura e a tutti i partecipanti che
spero di ritrovare presto, con un nuovo libro che è… dietro l’angolo!
Racconta Giuseppe
Terribile, basso e voce de Il Cerchio D’Oro:
“Da parte mia e di tutti impressioni
positive; si tornava al live dopo qualche mese (e non molte prove, per mancanza
di alcuni di noi e per il gran caldo), ma aldilà di ciò è stato un bel concerto,
anzi un doppio concerto che meritava!
Non conoscevamo i Plenilunio
ma si sono dimostrati persone gradevoli (davvero) e bravi musicisti... il loro
prog è diverso dal nostro, ma le composizioni scivolavano via bene e si sa,
quando la nascita dei gruppi risale più o meno allo stesso periodo, i gusti e i
modi di suonare sono quelli conosciuti, anche se loro hanno un paio di forze
nuove: il chitarrista, figlio dell'altro originale, e il bassista.
È nato come sempre qualche piccolo
problema tecnico ai cambi palco tra diversi gruppi, ma è stata poca cosa.
Siamo stati accolti benissimo sia
dagli organizzatori che dal pubblico, che ci ha applaudito apertamente. Abbiamo
suonato circa un'ora a testa davanti ad una audience attenta e con diverse
persone competenti. Tra gli altri il nostro amico Luciano Boero che, abitando a
pochi chilometri, è venuto (in compagnia di un nostro vecchio fan) a farci
visita e a vedere per la prima volta i Plenilunio, molto vicini temporalmente
parlando a La Locanda delle Fate in cui Luciano è stato protagonista per anni,
uniti dal periodo di iniziale attività, gli anni ’70.
Che dire questi scambi di racconti
opinioni sono sempre interessanti e quando ci si raffronta in toni molto
amichevoli tutto diventa bello!".
Aggiunge Franco
Piccolini, tastierista della band…
"Vorrei fare alcune riflessioni
personali sulla serata. Intanto la piacevolezza di aver conosciuto dei
musicisti bravi e appassionati e aver condiviso con loro questa esperienza, e già
tale aspetto è stato per me positivo; inoltre, mi sto rendendo sempre più conto
che il prog non ha due facciate della stessa medaglia, come spesso viene detto,
bensì tante sfaccettature e che forse non è giusto rimanere dentro i classici
parametri per classificarlo. La musica dei Plenilunio ne è un esempio evidente:
è buona musica!
Devo dire inoltre che sono rimasto
stupito dal piccolo teatro di Bistagno, un palco ridotto ma curato, una
struttura che ha tutto salvo, a voler essere pignoli, un migliore rivestimento
delle pareti per attenuare gli inevitabili rimbombi, ma mi rendo conto che
parliamo di interventi difficili da gestire per una piccola struttura.
L'accoglienza da parte dei gestori è
stata ottima; ancora una volta gli angoli di provincia insegnano alle città più
grandi che si può fare molto per ospitare eventi particolari, e il calendario
del teatro di Bistagno, ricco di appuntamenti interessanti ne è la prova.
Infine, sono rimasto molto contento
del fatto che oltre ad un manipolo di fedelissimi del Cerchio, siano arrivati
anche ascoltatori nuovi che volevano conoscerci ed altri che, intervenuti per
l'altro gruppo, ci hanno apprezzato e sostenuto. Queste dimostrazioni sono per
noi, che normalmente non facciamo molti spettacoli dal vivo, la migliore spinta
a proseguire e a portare in giro la nostra musica live.
Grazie a tutto il pubblico, siete
stati grandi!"
Uno stralcio video dell’esibizione de
Il Cerchio D’Oro…
Rick Wakeman era fuori, Patrick Moraz
(il nuovo arrivato) era dentro, e gli Yes stavano per fare il loro album più
sottovalutato degli anni '70
È il 1973 e il cantante degli Yes Jon
Anderson è a casa ad ascoltare un paio di album che gli sono appena stati
regalati. Sempre desideroso di aggiornarsi su ciò che accade nel mondo della
musica contemporanea, rivolge la sua attenzione a “Sing Me A Song Of Songmy”,
della compositrice turco-americana Ilhan Mimaroglu. Pubblicato nel 1971, è una
zuppa eclettica di suoni elettronici, colonne sonore orchestrali d'avanguardia
e il quintetto jazz del trombettista Freddie Hubbard intervallato da parole
cantate e parlate che affrontano argomenti che includono l'omicidio
dell'attrice Sharon Tate, l'uccisione di studenti disarmati alla Kent State
University da parte della Guardia Nazionale e la guerra in Vietnam.
L'altro disco è la colonna sonora
appena pubblicata di Vangelis Papathanassiou, “L'Apocalypse des Animaux”.
Registrato nel 1970, quando il maestro delle tastiere greche era ancora un
membro degli Aphrodite's Child, la musica dalla trama esotica aleggia serena,
soffusa di una bellezza scintillante e incontaminata ma intrisa di una
malinconia che lo rode. Occupando un universo sonoro completamente diverso
rispetto al disco precedente, la natura riflessiva delle melodie agrodolci
affascina Anderson e stuzzica il suo appetito creativo.
Mentre ascolta, le cose stanno
andando bene per gli Yes. Gli ordini anticipati per la loro prossima uscita, “Tales
From Topographic Oceans”, hanno già assicurato che il doppio album
raggiungerà lo status di disco d'oro prima ancora che arrivi nei negozi. Un
tour nel Regno Unito in gran parte sold-out sta per iniziare e le prevendite
per la tappa americana del tour hanno spinto la band in luoghi ancora più
grandi rispetto alla loro precedente visita. Con le idee e i temi concettuali
che già cominciavano ad emergere per il prossimo progetto della band da
affrontare nella mente di Anderson, il futuro degli Yes sembrava davvero molto
luminoso. Tutto sommato, cosa potrebbe mai andare storto? Solo sette mesi dopo
l'avrebbe scoperto.
Non tutti condividevano il suo stato
d'animo. Profondamente annoiato dall'aver girato l'Europa e l'America con
quella che vedeva come una serie di idee musicali sparse troppo sottilmente su
un concetto troppo inflazionato, Rick Wakeman era infelice da un po' di tempo.
Né riusciva a suscitare molto entusiasmo per quella che considerava la
direzione influenzata dal jazz-rock verso cui gli Yes sembravano dirigersi. Il
18 maggio, giorno del suo venticinquesimo compleanno e giorno in cui ricevette
la notizia che il suo secondo album da solista “Journey To The Centre Of The
Earth” era al primo posto delle classifiche degli album del Regno Unito,
Wakeman lasciò.
"Il morale era basso e
ovviamente la gente era delusa che se ne fosse andato perché Rick era una parte
importante della band", ha ricordato il batterista Alan White,
parlando con Classic Rock nel 2012. "Penso che avessimo iniziato a
lavorare su parte del materiale di “Relayer” prima che Rick se ne andasse, ma
aveva l'amaro in bocca dopo aver suonato e portato in tour “Tales From Topographic
Oceans”, e immagino che volesse solo continuare con la sua musica. Abbiamo
preso atto e ovviamente abbiamo iniziato a cercare una nuova persona e abbiamo
iniziato a lavorare come un quartetto per far andare avanti il flusso. Abbiamo
passato molto tempo a provare a mettere insieme le idee di base per “Relayer".
Ricordando lo strano timbro esotico
de “L'Apocalypse des Animaux”, Jon Anderson ebbe un'idea per un
sostituto già pronto per Wakeman. Fece una chiamata per portare Vangelis alle prove
in corso a casa del bassista Chris Squire. L'abilità del greco di tessere
orchestrazioni e arrangiamenti elaborati, combinata con le sue formidabili
capacità come solista, avrebbe dovuto renderlo una scelta naturale per il
gruppo. Tuttavia, man mano che le sessioni iniziavano, diventava sempre più
chiaro che le cose non stavano procedendo come previsto o desiderato.
"Quando gli dicevamo di
suonarla di nuovo, lui diceva: 'Beh, non sarà più la stessa cosa'",
ricorda il chitarrista Steve Howe. "Stavamo improvvisando, ma stavamo
imparando delle parti man mano che andavamo avanti e penso che sia stato allora
che ci siamo resi conto che era un musicista così spontaneo che gli Yes
sarebbero stati un problema per lui. Volevamo elaborare un arrangiamento solido
e fare affidamento su di lui in qualsiasi momento per suonare qualcosa che
avremmo riconosciuto. Vangelis sentiva di non averne bisogno. Avrebbe sempre
suonato a braccio, il che sarebbe stato meraviglioso, ma non eravamo un gruppo
jazz".
Dopo aver convenuto che non aveva
molto senso continuare, Vangelis tornò a Londra lasciando il quartetto a
lavorare sul nuovo materiale. Il chitarrista ricorda di aver telefonato a Keith
Emerson degli ELP, il cui arrivo nei ranghi della band, se avesse accettato
l'invito di Howe, avrebbe potuto cambiare il corso del rock progressivo
dell'epoca.
"Mi disse: 'Perché devo unirmi
agli Yes quando ho ELP?' Musicalmente sarebbe stato fantastico lavorare
con Keith Emerson, ma se le personalità si sarebbero fuse o meno, non lo so.
Stavamo iniziando a renderci conto che le personalità nel gruppo sono una cosa
molto importante e non importa quanto la musica sembri essere l'obiettivo, non
funzionerà a meno che non si vada tutti d'accordo".
Ciò di cui avevano bisogno era qualcuno
con una conoscenza quasi enciclopedica degli arrangiamenti dettagliati degli
Yes e la capacità tecnica non solo di mettere tutto insieme, ma anche di
lanciare alcuni assoli abbaglianti. La persona che corrispondeva esattamente a
quel disegno era Patrick Moraz. Il tastierista svizzero era conosciuto nel
Regno Unito per le sue esuberanti esibizioni come membro dei Refugee, il trio
formato dagli ex compagni di band di Emerson nei The Nice Lee Jackson e Brian
Davison dopo che il tastierista aveva lasciato per formare gli ELP.
I Refugee avevano firmato un
contratto con la Charisma Records ed erano stati ben accolti in tour, ma non
avevano sfondato. Lo stesso Moraz viveva in un seminterrato umido e infestato
dai topi a Earls Court a Londra, ed era pratica comune dover camminare per tre
miglia fino alla sala prove dei rifugiati. Amava la musica che il trio stava
facendo, ma quando arrivò un invito a partecipare a un'audizione con gli Yes,
Moraz colse l'occasione e si imbatté immediatamente nel mondo molto diverso in
cui vivevano i musicisti della band.
Arrivato in anticipo, ebbe
l'opportunità di assistere all'arrivo di ogni membro, uno dopo l'altro nelle
loro costose auto. "Stavo parlando con la squadra stradale che si stava
occupando del posto e mentre guardavo fuori dal campo vidi Alan White nella sua
auto sportiva: era una cosa speciale personalizzata", ricorda Moraz. “Poi
Steve è arrivato con la sua auto sportiva Alvin blu metallizzato, guidata dal
suo roadie. Poi Jon è arrivato con una Bentley vecchio stile e rara, e poi
Chris è arrivato con quella che penso fosse una Rolls Royce Silver Cloud".
Dato che una sala prove si doveva
pagare a ore, Moraz rimase colpito dal ritmo lento con cui le persone si
sedevano a chiacchierare, fumare e bere tè. "Accordai gli strumenti
prima di iniziare a suonare insieme e questo mi diede l'opportunità di suonare
intorno a quelle tastiere che Vangelis aveva usato mentre i ragazzi si stavano
preparando. Stavo improvvisando, mostrando un po' della mia velocità e abilità,
e loro smisero di parlare e si riunirono tutti intorno al piano elettrico e al
Moog per guardare e ascoltare. Suonai ogni sorta di cose, incluso un po' di “And
You And I”. Ad essere onesti, penso di aver ottenuto il contratto a quel punto,
prima ancora che avessimo suonato una nota insieme".
La band gli suonò la sezione vocale
di “Sound Chaser”. Moraz era sbalordito. "La suonarono a una
velocità incredibile", ricorda. "Poi Jon mi chiese cosa avrei
offerto come introduzione al pezzo".
In un attimo l'arpeggio di piano
elettrico che apre il pezzo gli cadde dalla punta delle dita catturando
immediatamente l'attenzione della band, che gli chiese di spiegare cosa aveva
appena suonato con l'obiettivo di integrarlo nel brano.
"Spiegai il ritmo ad Alan e
Chris in modo che potessero trovare la risposta alla chiamata della tastiera,
per così dire. Suggerii anche a Jon di usare il suo flauto con il quale avrei
potuto suonare questi piccoli grappoli veloci". Man mano che il
nastro scorreva fecero alcune riprese, all'inizio lentamente, ma poi
accelerando man mano che le parti diventavano più familiari. "Poi registrammo
l'introduzione in una take che fu usata nell'album finito prima che mi venisse
offerto il lavoro".
Alan White era in fermento per le
nuove aggiunte alla pista. "La prima volta che Patrick ha suonato con
noi, aveva questa sorta di intro jazz prog che è diventatal'apertura di
“Sound Chaser”. Non c'era un tempo prestabilito, ma piuttosto qualcosa che si
sentiva tra le tastiere e la batteria. Arrivo con il pattern di batteria che è
in 5 e 7. Ho avuto modo di conoscere molto bene il lick e l'ho suonato nota per
nota sulla batteria intorno al kit".
Da parte sua, Steve Howe ricorda la
sensazione che la band fosse ancora una volta al completo, con la recente
incertezza e frustrazione che avevano sperimentato ormai alle spalle. "Una
volta che abbiamo avuto Patrick, siamo stati operativi; la sua stravaganza ci
portò qualcosa di simile a sangue fresco, come avevo fatto io quando mi ero
unito e come quando Rick si era unito. Patrick era più che in grado di tenere la
parte".
I concetti musicali di Anderson per “The
Gates Of Delirium” richiesero tutte le sue considerevoli capacità di
persuasione per convincere il resto della band che il pezzo era fattibile.
"Il mio obiettivo principale in quel momento era quello di avere
un'idea completa prima di mostrarla alla band", dice Anderson. "Suonai
la maggior parte del tempo al pianoforte e deve essere sembrato molto strano e
non troppo musicale per i ragazzi, dato che non suonavo molto bene in quel
momento. Ma mi sembrava di conoscere ogni sezione e il motivo per cui tutto potesse
funzionare nel suo insieme. Quindi sono stato molto felice quando hanno deciso
di assumerlo".
C'era sempre un elemento di lusinga e
di esortazione a seguire una linea di indagine musicale, suggerisce Anderson.
"Le idee mi venivano molto velocemente e la struttura era qualcosa che
stavo imparando a conoscere in quel momento. Quindi ero sempre un passo avanti
ai ragazzi mentre stavano imparando l'ultima parte, e io ero nella parte
successiva, in un certo senso aprendo la strada; questo è dove stiamo andando,
questo è il modo in cui lo faremo, e ci proveremo. Forse funzionerà, potrebbe
non funzionare, ma proviamoci. Registrare la scena della battaglia fu un po'
caotico all'epoca".
Alan White ricordava quel caos con un
certo affetto. "Si estendeva a me e Jon che andavamo in un deposito di
rottami e sbattevamo pezzi di metallo al mattino per circa un'ora per vedere
cosa suonava bene. In realtà abbiamo costruito untelaio in studio fatto
di molle e parti di auto che ovviamente sono finite nell'album nella sezione
battle. Era una roba pazzesca".
Anche se si parla molto della natura
ambigua dei testi di Anderson, le parole di “The Gates Of Delirium” sono
probabilmente tra le più dirette, anche se presentate nella sua sintassi
insolita e idiosincratica. Proprio come l'architettura della terza sinfonia di
Sibelius aveva influenzato la struttura di “Close To The Edge” e gli
scritti del mistico indiano Paramahansa Yogananda, presentatogli dal
percussionista dei King Crimson, Jamie Muir dopo che si erano incontrati al
ricevimento di nozze di Bill Bruford, avevano aiutato Anderson con
l'inquadratura concettuale di “Tales From Topographic Oceans”, “War And Peace”
di Tolstoj,e forse si potrebbe dire che
elementi dei collage sonori di Ilhan Mimaroglu abbiano alimentato le idee di
Anderson per una suite che tratta della psicologia del potere e dell'ideologia
lasciata incontrollata.
"Era ancora un periodo molto
triste con il Vietnam che indugiava nella mia mente e la Guerra Fredda.
Sembrava che non ci fosse fine al ciclo della guerra in tutto il mondo",
dice il cantante.
Vale anche la pena notare che
nell'album finito, dopo la tempesta della battaglia, c'è un momento di calma,
mentre le nebbie e il fumo iniziano a diradarsi, e la musica ha echi che
Anderson ha sentito per la prima volta su “L'Apocalypse des Animaux” di
Vangelis. Non è certo un caso che “Création du monde” di quell'album sia stata
suonata prima del concerto durante il successivo tour di “Relayer”.
Nonostante l'ambizioso e a volte
difficile terreno musicale che ha tracciato, alla sua uscita nell'inverno del
1974 era nella top 5 delle classifiche degli album su entrambe le sponde
dell'Atlantico. Contenuto nell'ultima cover di Roger Dean degli anni '70,
includeva anche alcune delle loro musiche più spigolose fino ad oggi.
Eppure, lontano da tutte le
turbolenze ritmiche e le dissonanze jazz-rock, la traccia di chiusura
dell'album, “To Be Over”, irradia un anelito emotivo che dà voce alle
inclinazioni più gentili degli Yes senza compromettere il tipo di intensità che
avrebbero esplorato pienamente in seguito con “Awaken”. Dal loro debutto
fino a “Tales From Topographic Oceans”, la capacità collettiva della band di
assimilare e sfruttare idee e influenze diverse appare misurata e incrementale,
ognuna costruita sui successi e sulle lezioni apprese dai suoi predecessori, ma
in questo contesto “Relayer” si sente il più radicale di tutti e negli anni
successivi la sua reputazione e la stima in cui è tenuto ha continuato a
crescere.
Parlando nel 2012, Alan White ha
valutato l'album come uno dei suoi preferiti. "Eravamo tutti totalmente
coinvolti. Eravamo in studio e ogni giorno ci venivano in mente nuove idee. Un
album non suona bene se non ti stai divertendo ed è quello che senti quando
metti su quel disco: Sì, divertiti".