domenica 29 settembre 2019

ARCADELT- ARC8


ARCADELT- ARC8
Lizard Records

Gli Arcadelt nascono nel 1992, un dato che suggerisce due ovvie considerazioni: innanzitutto parliamo di considerevole esperienza musicale, giacché ventisette anni dedicati, anche, alla musica sono periodo significativo di vita; seconda cosa, i componenti di questa band romana propongono un tipo di musica che hanno assimilato per induzione, magari fulminati da qualche ascolto genitoriale, perché i fatti dicono che all’inizio della loro attività  la musica progressiva era ormai stata relegata a estrema rappresentazione di nicchia. Apprezzabile.
Sì, stiamo parlando di prog, quello che la Lizard - etichetta discografica di Loris Furlan -  propone con continuità.

Quando Loris mi inviò un link ad un loro video relativo alla nuova uscita - “ARC8” - mi premurai immediatamente di approfondire, perché spesso mi bastano pochi secondi di ascolto per capire che il seguito potrà darmi soddisfazioni.

Il disco in questione è stato presentato ufficialmente in occasione del Festival Prog di Veruno, pochi giorni fa, appuntamento che ho mancato per un soffio, potendo presenziare solo all’ultima giornata, quando gli Arcadelt erano già… passati, lasciando però un certo strascico positivo.
Ed è stato proprio nel corso del mio avvicinamento a Veruno - circa due ore di viaggio - che ho ascoltato tutto l’album, tre volte di fila, condividendolo con altre due anime prog, con me in auto.
Beh, non mi ero sbagliato!

I quarantatré minuti proposti dagli Arcadelt mi appaiono come sintesi del prog che più ho amato, e mi pare poco interessante sottolineare le similitudini con le matrici originali e con le sonorità che hanno influenzato la formazione musicale del singolo musicista… preferisco evidenziare la qualità che produce la miscela tra rock e classicismo che propongono e che da sempre mi entusiasma.

Sono sette le tracce che compongono “ARC8”, un cantato in inglese che trova concessione alla nostra lingua nel brano “Assenze”, e nell’incipit di “Caledonia”.

L’intervista a seguire realizzata con la band chiarirà ogni aspetto relativo alla biografia, ai significati del disco e alla filosofia di lavoro, permettendo di catturare dettagli importanti che spesso non emergono dal solo ascolto, e partendo proprio dal titolo si arriva ai concetti tanto cari a questi musicisti.

In questo caso preferisco fotografare semplicemente il mio feeling.

Lo sforzo enorme che porta alla creazione di un progetto come questo è spesso sottovalutato, perché l’afflusso continuo di nuova musica, facilitato dalla progressione tecnologica, porta a mettere sullo stesso piano tutto ciò che arriva alle nostre orecchie, ma con un po’ di attenzione ed esperienza si arriva a personali distinguo.

La tipologia di proposta musicale degli Arcadelt risalta per la cura delle trame musicali - a tratti sinfoniche - e l’inserimento di elementi rock, con l’aggiunta di liriche che superano una certa banalità tipica di alcuni testi usati nei seventies; quindi “ARC8”, attraverso i convincimenti condivisi dei singoli componenti, è anche portatore di messaggi, fatto non certo scontato.

Onestamente, mi sarebbe risultato impossibile raggiungere l’essenza di questo lavoro senza le spiegazioni dei creatori del progetto, e mi sarei accontentato nel godere di una bellezza estetica che spero sia per tutti un obiettivo da raggiungere.
Concetto esagerato? Bellezza estetica?
Ho la fortuna di provare piacere fisico quando mi imbatto in particolari trame sonore, a volte brani ben catalogati nella mia discoteca immaginaria, tracce che utilizzo proprio per riprovare un certo benessere che tanto mi gratifica… parlo di brividi che a volte percorrono parte del mio corpo e mi procurano secondi di trascendenza musicale. Credo sia una grossa fortuna possedere tale sensibilità, e ciò mi ha portato a superare i tradizionali giudizi che si applicano in questi casi, e la solita dicotomia tra musica buona e cattiva si è per me trasformata in musica che  fa stare bene e altra che  lascia indifferente.
“ARC8” appartiene per me alla prima categoria, un album che farà parta dei miei normali ascolti futuri, la cui fruizione determina un risultato certo, un piacere musicale che auguro a tutti.

A controbilanciare questo commento anomalo, volutamente personalizzato, aggiungo l’oggettività del pensiero degli Arcadelt: la lettura mi appare propedeutica all’ascolto, una sorta di indicazione da seguire prima dell’utilizzo di un nuovo acquisto.

Ovviamente, è un album che consiglio di comprare a scatola chiusa!


La chiacchierata…

Obbligatorio iniziare dalla vostra storia, dall’evoluzione della band a partire da metà anni ’90…

Cinque ragazzi con la voglia di divertirsi e una passione comune per il rock progressivo. Un CD (“Enjoy”) composto e prodotto molto velocemente, i live nei locali romani e la partecipazione ad alcune rassegne specializzate, delle recensioni molto positive. Poi l’uscita dal gruppo del batterista fondatore Fabio Ferri ha significato cercare nuovi equilibri per delle persone che si sentivano prima di tutto legate da un rapporto di amicizia e non solo musicale. L’arrivo di Sandro Piras ci ha permesso di concretizzare finalmente molto del lavoro che era rimasto sospeso.

Guardando alla vostra discografia si nota un considerevole spazio temporale tra le vostre due uscite discografiche: cosa è accaduto tra una e l’altra?

In realtà non abbiamo mai smesso di frequentarci e c’erano diverse composizioni che il gruppo aveva elaborato dopo l’uscita di “Enjoy”. Quando abbiamo avvertito nuovamente la voglia di tornare a comporre è stato naturale ritrovarsi in sala prove con uno spirito diverso. I nuovi brani sono nati infatti da diverse ore di improvvisazione in sala e non più da una base portata da un singolo componente del gruppo. Un approccio entusiasmante dal punto di visto creativo, anche se molto “time consuming”.

 Enjoy” e “Arc8” sono separati da 25 anni: possibile intravedere qualche legame tra i due dischi? Esiste un aggancio tematico?

Sì, vi sono diversi legami tra i due lavori. Da un punto di vista compositivo contiene dei brani che furono composti poco dopo l’uscita di “Enjoy” e che abbiamo terminato di arrangiare. Da un punto di vista tematico ci interessa sempre esplorare la complessità dell’animo umano e la sua risposta di fronte ad emozioni quali gioia, amore, paura, frustrazione, spesso un equilibrio da trovare tra desiderio di vendetta e compassione verso noi stessi e gli altri. “Enjoy” esplora le emozioni di un’età infantile e adolescenziale, “ARC8” di un’età più adulta.

Quali sono state le band o gli artisti a cui vi siete ispirati inizialmente e con cui vi siete formati?

La metà delle recensioni al nostro lavoro concludono che assomigliamo ai Marillion, anche se non è mai stato particolarmente il nostro modello. In realtà non ci piace essere assimilati a degli schemi predefiniti, se dobbiamo fare un nome sicuramente un modello di ispirazione comune sono stati i Genesis.

Soffermiamoci sul nuovo progetto partendo dal titolo e dal suo significato…

Il titolo di questo lavoro ha conosciuto varie fasi di preproduzione. Originariamente doveva chiamarsi “Arcade”: un omaggio alle sale giochi anni ’80, nelle quali abbiamo dilapidato la nostra giovinezza, e un continuum del concetto di gioco espresso nella prima copertina di Enjoy”. Dai balocchi ai videogame. Successivamente ha avuto una pre-release con il titolo di “Ventura”, a sottolineare l’avventura della nostra frequentazione che ha superato varie barriere oltre a quella temporale.
Nel cercare il nuovo titolo siamo stati influenzati dai discorsi sui massimi sistemi che spesso chiudevano le prove. In particolare, riguardo alla meccanica quantistica in rapporto alla meccanica classica, la sfida della fisica di trovare la teoria del tutto, ci ha portato alla scoperta del nuovo (si fa per dire perché nasce negli ‘80) concetto di realtà. I “nuovi” fisici la chiamano “E8”, e simboleggia in parole veramente povere il numero minimo di dimensioni che ci circondano. Dove la teoria delle stringhe non ha davvero completato il suo obiettivo, E8 si presenta come gagliardo alfiere… Abbiamo conosciuto molti momenti di tensione prima e dopo, e Arcade si stava trasformando simpaticamente in Arc-hate per odio e frustrazione. Ci sembrava perfetto unire la ricerca del tutto (nel nostro “tutto”) in una equazione, quasi un acronimo.
A completare il progetto la copertina frutto di una interpolazione di più immagini ad opera di un software di Intelligenza Artificiale, parte dallo stesso percorso Balocchi-Videogame verso la giostra, intesa come vita o visione ologrammatica di essa. Era difficile da credere o immaginare ma E8 si rappresenta proprio con la forza stilizzata di una giostra.

Cosa contiene “Arc8” dal punto vista dei testi e delle trame musicali?

I nostri brani raccontano dell’impatto che hanno i nostri sogni dell’infanzia e le aspettative dell’adolescenza quando si raggiunge l’età adulta. La nostalgia, il senso d’impotenza e la rabbia per quello che immaginavamo di diventare ed invece non è stato. Per il mondo in cui credevamo di vivere e che invece si mostra per la prima volta con le sue nefandezze. La ricerca della felicità non manca mai ad ogni modo nella narrazione. Le trame musicali spaziano con la massima libertà e le singole parti sono sempre in funzione del brano nel suo complesso senza lasciar spazio all’individualismo. La ricerca dei suoni è per noi una parte della composizione molto importante.

Siete soddisfatti della riuscita del nuovo progetto (non mi riferisco alla risposta di chi segue la vostra musica, ma alla gratificazione rispetto all’impegno profuso)?

SI siamo molto soddisfatti. In linea di principio si può sempre migliorare ma, appunto, è solo un principio. Abbiamo difficoltà talvolta a considerare un brano “concluso”, ma alla fine siamo diventati più bravi a gestire l’illusione del miglioramento perenne.

Vi ho mancati per un pelo a Veruno (ero presente solo la domenica) e vi chiedo la vostra sensazione da palco, ma la domanda si estende alla vostra preferenza tra espressione live e “studio”.
Non suoniamo molto spesso live e in genere prediligiamo la partecipazione a festival o rassegne rispetto al circuito dei locali (dove comunque suonare musica originale diventa sempre più difficile). Il concerto di Veruno è stato un “crescendo” come qualità dell’esecuzione musicale mentre da subito abbiamo percepito molta energia positiva da parte di tutte le persone che erano lì ad ascoltarci. Ogni musicista compone per avere l’occasione di presentare il proprio lavoro ad un pubblico che sia il più vasto possibile. L’esibizione live è l’occasione giusta anche per trasmettere emozioni diverse dal semplice ascolto musicale.

Che cosa pensate dell’attuale stato del prog in Italia? È destinato a restare fenomeno di nicchia o ci sono speranze di maggior diffusione?

Il Prog è una forma d’arte della musica contemporanea, dovrebbe garantire massima libertà a tutti i musicisti che affrontano la composizione. L’importante è non sentirsi obbligati a seguire alcuni stilemi tipici degli anni ‘70 e portare le proprie composizioni ad un livello di arrangiamento nuovo e attuale. In questo senso potrebbe non essere destinato a restare un prodotto di nicchia, c’è richiesta di stili musicali diversi da parte del pubblico che è un pubblico eterogeneo e di età differenti.

Cosa c’è dietro l’angolo per gli Arcadelt? Nuovi progetti, concerti, pubblicizzazione del nuovo album?

Far conoscere “ARC8” attraverso la partecipazione a festival e rassegne anche oltre i confini italiani. Materiale per un nuovo album ne abbiamo, appena ci riprendiamo dalla fatica di quest’ultimo, chissà…


ARCADELT
ARC8 - Lizard Record
7 tracce - 43'. 11''

Behind the Curtain
The Heartbeat
Dogs in Chains
Caledonia
Assenze
Blood on
The Blu Side

LINE UP
Pierfrancesco Drago – voce solista e flauto traverso
Giacomo Vitullo- tastiere e backing vocals
Fabrizio Verzaschi – Chitarra e backing vocals
Fabio Cifani – basso
Sandro Piras – batteria

Info:
Canale youtube: Thearcadelt


giovedì 12 settembre 2019

Giorgio “Fico” Piazza - “Autumn Shades”


Giorgio “Fico” Piazza - “Autumn Shades”

Dal mese di luglio avevo in mano la copia di “Autumn Shades”, di Giorgio “Fico” Piazza, ma per scrivere il mio pensiero ho atteso diligentemente l’uscita ufficiale dell’album, un progetto maturato nel tempo e registrato dal vivo il 25 ottobre del 2018 agli Elfo Studios.
Il 6 settembre è la data che è stata scelta per il rilascio, in concomitanza con l’inizio del Festival Prog di Veruno: inutile dire che, almeno dal punto di vista sentimentale, non sarebbe stato male festeggiare con una presenza sul palco.

È un disco che parte da molto lontano, il cui iter ho vissuto sin dagli albori, cioè quando trovai Piazza ospite di un palco allargato per una occasione benefica creata da Paoli Siani: non so se Fico ci abbia mai pensato, ma per me “Autumn Shades” nasce in quel preciso momento.
Quel giorno lo vidi un po’ spaesato, quasi spiazzato dal fatto che dopo tanti anni fosse riconosciuto dai fan e suscitasse interesse, lui, la storia della musica italiana, protagonista della semina del prog, e prima ancora della canzone importante di casa nostra, quella che passa per Battisti e prosegue in tutte le direzioni.
Eppure, quella sera a Genova, a metà ottobre 2011, la ruggine “mentale” era evidente.

Giorgio “Fico” Piazza non è un frontman, e preferisce i fatti alle parole superflue. E così, dopo aver oliato gli ingranaggi all’interno della grande “famiglia Taulino” - e qui mi prendo un po’ di merito! - incomincia a proporre la sua idea di musica, e quando arriva al Teatro Manzoni di Sesto San Giovanni - siamo alla fine del 2012 - le idee sono più chiare, le mani sul manico del basso regalatogli in tempi lontani da Greg Lake incominciano a girare, e gli tocca pure parlare al pubblico.


Sì, le cose incominciano ad andare per il verso giusto, ma qual è l’obiettivo?
Faccio un salto temporale in avanti di almeno un lustro, cioè quando Piazza riesce a costruire, con un po’ di fatica, la sua band.


Non è stato facile, pare un’impresa titanica comprendere e incasellare giovani lontani mille anni luce da un periodo che ha obiettivamente cambiato il mondo sonoro. Eppure… il materiale umano c’è, e il collante è una musica molto particolare che, chissà perché, appassiona anche le ultime generazioni di musicisti - e ascoltatori - forse attratte dalla complessità della proposta, forse amanti delle sfide, o più semplicemente stimolati da un esempio genitoriale.

L’idea è quella di proporre il top del prog italiano, vale a dire i primi due album della PFM - “Storia di un minuto” e “Per un amico”, entrambi rilasciati nel 1972 - cioè quelli in cui Giorgio ha avuto ruolo attivo.
Il risultato è scontato, perché la musica è fantastica e la band fornisce grande contributo attraverso skills personali di prima scelta.

Vedere il team al lavoro - in concerto, mi è capitato più volte - porta alla chiusura del cerchio.
Un uomo “antico”, famoso, portatore di saggezza, circondato da un nugolo di giovani che seguono la partitura, con diligenza e intraprendenza, mettendoci del loro.

La missione si palesa, l’azione didattica emerge prepotentemente… non è un’ingenua sfida alla PFM… non è una nuova tribute band proposta da un artista nostalgico e i suoi seguaci… parliamo di vera musica, di insegnamento, di amore, di coinvolgimento e condivisione.
Giorgio “Fico” Piazza sintetizza questo pensiero nella sua “Ode alla Musica”:

Ode alla Musica, che come ponte che si staglia severo attraverso l’autunno del tuo cammino ti concede un’altra possibilità di trasformare - con l’incanto delle sue note - le foglie che, simili a ombre autunnali, tornano a risplendere di infinite, scintillanti gocce di rugiada, verso una radiosa, prorompente nuova primavera”.

La musica concede ogni giorno nuove possibilità e abbatte ogni barriera, e la storia di Giorgio, lontano da essa per lungo tempo, riprende il cammino più logico, perché le passioni possono anche essere accantonate, ma prima o poi ritornano, e se le idee sono nobili, l’esperienza del passato va regalata a chiunque sia talmente virtuoso da raccoglierla.
Questo è l’esempio, l’insegnamento, la didascalia dietro ad ogni immagine che ruota nella mente, tra ricordi e attualità.
Nel disco c’è tutto questo, concetti che vanno oltre la qualità, ovvia, del contenuto.

I compagni di viaggio di Giorgio Fico Piazza (basso), sono Eric Zanoni (chitarre e voce), Riccardo Campagno e Giuseppe Perna (tastiere e voce), e Marco Fabbri alla batteria.
Ottimi musicisti, coadiuvati nel progetto in studio da Marco Colombo e Annie Barbazza, come riportato a seguire.


Il Cd si propone in veste sontuosa, con le fotografie di Franz Soprani e la copertina la realizzata dall’artista contemporaneo Lino Budano.

Registrato da Alberto Callegari ai mitici Elfo Studios di Tavernago per un suono da dimostrazione hi-fi, una curatissima tiratura limitata stampata su cd audiofili dorati.


Prodotto da Max Marchini, direttore artistico della Manticore Records.

Album da avere ad ogni costo, oltre alla musica c’è un’idea precisa… non sarà difficile coglierla e diffonderla!

Tracklist

1. Appena un po’ 07:50
2. Dove... Quando 10:01
3. La carrozza di Hans 06:51
4. Geranio 06:40
5. Generale 04:01
6. Per un amico 05:33
7. Il Banchetto 08:56
8. Impressioni di settembre 08:02
9. È festa 06:22
10. Grazie davvero 06:32
Bass: Giorgio Fico Piazza
Guitars and vocals: Eric Zanoni
Keyboards and vocals: Riccardo Campagno, Giuseppe Perna
Drums: Marco Fabbri

special guests
Marco Colombo: lead guitar on 8, 9
Annie Barbazza: lead vocals on 8, 9


Immagini di repertorio…



mercoledì 11 settembre 2019

Acqua Fragile al Festival di Veruno-8 settembre 2019


La terza giornata del Festival Prog di Veruno ha visto il ritorno in grande stile dell’Acqua Fragile, band nata nei primi seventies e nuovamente in attività.

Il resoconto generale della serata è fruibile al seguente link:


Non era questo il primo concerto del nuovo corso, ma sicuramente lo si può considerare il più significativo, per prestigio della manifestazione e per una sorta di verifica rispetto ad un’audience preparata, composta da anime fresche e antiche, unite dalla passione per il genere progressivo.
È stato emozionante per chi scrive constatare che molte copie dei primi due vinili - “Acqua Fragile” (1973) e “Mass Media Stars” (1974) - erano nelle mani di progster in erba - se si fa riferimento all’elemento anagrafico -, in coda per una firma ed una dedica.

Credo che la nuova Acqua Fragile esca da questa situazione con un forte incremento dell’autostima, perché per quanto bravi si possa essere la cifra della qualità del lavoro svolto la si comprende nel confronto con il pubblico, e in questo caso l’entusiasmo era palpabile.
Mi sembra superfluo evidenziare il ruolo di Bernardo Lanzetti, un musicista che ha continuato a calcare i palchi importanti, magari come ospite, o all’interno di mirati progetti personali, così come appare scontato sottolineare che ci troviamo al cospetto di uno dei più grandi vocalist rock esistenti, probabilmente un “caso” da studiare, vista la sua tenuta totale rispetto allo scorrere del tempo, quasi sempre impietoso con i comuni mortali.
E poi la presenza scenica del vero frontman, capace di stabilire rapporto empatico immediato con chi è in religioso ascolto, davanti a lui.


Acqua Fragile è un vero team al lavoro, una squadra variegata che ha cambiato impostazione rispetto alla line up originale.
Franz Dondi (basso) e Pieremilio Canavera (batteria) sono gli altri due membri originali, e già questo appare fatto solido che aiuta ad asserire che c’è molto del seme gettato quasi cinquant’anni fa.
Franz e Piero, che hanno vissuto momenti di gratificazione assoluta calcando palchi importantissimi, condividendoli con i mostri sacri del prog, hanno perseguito la loro passione in zone di maggior ombra rispetto al passato, ma al momento giusto si sono fatti trovare sul pezzo, e ora il loro contributo appare fondamentale per certificare gli intenti della band.
Per chiudere il cerchio era necessario trovare alternative a chi non è più in attività, e allora entra nella band il chitarrista Michelangelo Ferilli, il tastierista Stefano Pantaleoni e la vocalist aggiunta Rosella Volta.
È proprio quest’ultima la novità concettuale, l’elemento che permette di tornare ad una caratteristica fondamentale degli A.F., la spinta verso la variazione e armonizzazione delle vocalizzazioni.

Tutto questo è andato in onda a Veruno, e penso che il risultato esaltante, palese per chiunque fosse presente, possa produrre una grande motivazione verso nuovi orizzonti, pensiero che, in termini semplici, potrebbe significare che, a distanza di due anni dall’album “A New Chant”, un nuovo progetto potrebbe essere dietro l’angolo.

La performance di Veruno - un misto di storia passata e recente - ha messo in rilievo una grande forma, e ha dato il giusto risalto ad un gruppo - un tempo era un termine molto usato - agli albori spesso ostacolato dal mainstream per l’utilizzo della lingua inglese, poco masticata in genere nel nostro paese, e ritenuta inadatta per una prog band locale.
A seguire propongo una mezz’ora di concerto, in modo che le mie parole possano essere supportate da fatti concreti.
Ma non è tutto… a fine concerto ho catturato le impressioni a caldo dei protagonisti, una bella testimonianza che dimostra, anche, il grado di soddisfazione del momento.

Parto dalla scaletta…

Uno stralcio del concerto…


A fine concerto ho incontrato Bernardo Lanzetti…


Franz Dondi e Pieremilio Canavera…


Stefano Pantaleoni e Rossella Volta (mentre Michelangelo Ferilli era già sulla via del ritorno…)


E di questa serata rimarranno molti ricordi!



Auguri a Barriemore Barlow


Ha compiuto gli anni ieri Barriemore “Barrie” Barlow, nato il 10 settembre del 1949.
E’ stato il batterista dei Jethro Tull dal 1971 al 1980, contribuendo alla realizzazione di dieci album, compreso il live Bursting Out, in cui sono apprezzabili la sua eccellente tecnica e il suo talento; notevole il suo assolo nel brano Conundrum, al punto tale che John Bonham arriverà a definirlo come il miglior batterista rock inglese di tutti i tempi.

Sconvolto dalla morte del bassista John Glascock - http://athosenrile.blogspot.com/search/label/John%20Glascock -, Barlow lasciò i Jethro Tull nel 1980, dopo aver completato la tappa finale del tour Stormwatch.

In seguito collaborerà a diversi progetti insieme ad artisti del calibro di Robert Plant, John Miles e Jimmy Page.
Si segnala anche il suo contributo nell'album Rising Force, di Yngwie Malmsteen.

Ho avuto la fortuna di vederlo dal vivo pochi anni fa, e posso raccontare un piccolo aneddoto.

Era il 2008 e l’occasione era la Convention dei Jethro Tull ad Alessandria, una delle più importanti, perché celebrativa dei cinquant'anni di storia dei Tull.

Molti i fan, importanti le cover band, ma anche tanti ex J.T.
Era presente perfino Jeffrey Hammond Hammond, ormai pittore a tempo pieno e probabilmente incapace di riproporsi come bassista, ma l’importanza dell’evento commemorativo aveva coinvolto anche lui.

Il set del pomeriggio era dedicato alle cover ed esisteva un gruppo base su cui far ruotare altri artisti.
La band erano i romani OAK di Jerry Cutillo.
E venne il momento di eseguire Aqualung.
Sul palco, oltre al leader, flautista chitarrista Jerry, c’erano Lorenzo Costantini alla chitarra e Claudio Maimone al basso. Carlo Fattorini, il batterista, aveva lasciato spazio a chi quel brano storico lo aveva interpretato sino dalla sua nascita, Barrie Barlow.
Io ero a pochi metri da lui.
Jerry e Barrie confabularono ridacchiando, prima di “partire”.
Esecuzione strepitosa, e Barlow che sembrava esattamente quello di 40 anni fa.
A fine brano Cutillo confessò pubblicamente le iniziali preoccupazioni del batterista, che da molto non suonava il brano: “E meno male che avevi paura di non ricordati il pezzo!”
Questo è Barrie, fantastico batterista e campione di umiltà!

Barrie sul palco serale( Convention Alessandria 2008)

martedì 10 settembre 2019

VERUNO2019 PROG FESTIVAL 2DAYS+1: il commento della giornata finale. Immagini di Enrico Rolandi


Un altro appuntamento in quel di Veruno per una manifestazione tra le più importanti a livello europeo - aggiornata nella denominazione per l’occasione in “VERUNO2019 PROG FESTIVAL 2DAYS+1" -, divenuta un punto fisso per gli appassionati del genere, quella musica progressiva che vede coinvolto un pubblico molto variegato costituito, anche, da una cospicua parte di giovani.

I numeri, si sa, sottolineano come il prog sia un movimento di nicchia, ma il popolo di Veruno è qualcosa di diverso, speciale, sia per numero di partecipanti che per legame affettivo e amicizia, ed esiste una grandissima voglia di condivisione e partecipazione, tanto che a pochi giorni dalla fine di ogni edizione si ricomincia a pensare al prossimo appuntamento, una pianificazione che vede l’intervento dei fans, almeno a livello di sogni/consigli.

Ma è difficile spiegare a parole l’atmosfera, anche se chi si appresta a leggere questo articolo è sicuramente già passato dalle parti di Veruno e sa perfettamente a cosa io mi stia riferendo.

L’artefice di tutto questo è in primis Alberto Temporelli che ha creato una squadra imbattibile, dove emerge la simpatia e la capacità del factotum Octavia Brown.
Empatia, capacità organizzativa, location, alta tecnologia, sono tutti elementi che hanno portato sul palco del festival nomi apparentemente impossibili di questi tempi - non solo dello stretto giro della musica prog -, una miscela fatta di musica italiana e straniera, tra novità assolute e certezze consolidate.

La mia presenza in questa edizione si è limitata alla giornata di chiusura, ma in un prossimo numero di MAT2020 Evandro Piantelli commenterà il festival in toto, in modo esaustivo, come capita ogni anno.
Mi devo pertanto limitare ai protagonisti della domenica, l’8 settembre, utilizzando stralci di concerto che, molto meglio delle mie parole, possono fornire l’idea di quanto accaduto.

Alle 18 inizia la prima band in scaletta, Il Bacio delle Medusa, che non vedevo dal vivo da una decina di anni.


La formazione prevede Simone Cecchini (voce e chitarra acustica), Diego Petrini (batteria, percussioni e tastiere), Eva Morelli (flauto e sax), Federico Caprai (basso), Simone Brozzetti (chitarra elettrica) e Simone "Il Poca" Matteucci (chitarra elettrica e acustica).

Un concerto molto coinvolgente, con un sound potente e con la piacevole contaminazione apportata dalla strumentazione di Eva.

L’assoluta padronanza del palco è stata catturata nel video a seguire, che termina con la testimonianza del gradimento dell’audience.


A seguire l’Acqua Fragile, ricostituitasi da un paio di anni attorno al suo leader Bernardo Lanzetti (voce e chitarra) e agli altri due membri originali, Franz Dondi (basso) e Pieremilio Canavera (batteria). A chiudere il cerchio il tastierista Stefano Pantaleoni, il chitarrista Michelangelo Ferilli e la vocalist Rossella Volta.


Non è questo il debutto del nuovo corso, ma è sicuramente il vero test live di una formazione storica che ha cambiato concettualmente l’impostazione, inserendo un nuovo elemento, Rossella, laddove sembrerebbe esistere una totale copertura, ma occorre tenere conto che è caratteristica precipua dell’Acqua Fragile la cura degli aspetti vocali.

La ruggine, che potrebbe esistere, giustificata dai tanti anni di assenza dalle scene - se si far riferimento all’ensemble -, non è presente on stage, e il mix tra i due album antichi e il recente “A new chant” viene apprezzato incondizionatamente dal pubblico. Ecco un estratto della loro performance…


Cala il buio e arrivano gli inglesi ARENA, ovvero Paul Manzi (voce), John Mitchell (chitarra), Clive Nolan (tastiere e voce), Kylan Amos (basso e voce) e Mick Pointer (batteria).

Non avevo mai avuto occasione di ascoltarli dal vivo, nonostante la loro sia una storia lunga quasi un quarto di secolo.
Propongono il loro prog dal piglio metallico, con un frontman capace di scaldare il pubblico e indurre alla partecipazione. 


Il mestiere è dalla loro parte, e l’esperienza si fonde alle innegabili doti personali, elementi che segnano il passaggio dal chiarore all’oscurità, regalando fascino ad una serata che volge al termine…


E a chiudere il festival arriva la storia del Rock, gli Iron Butterfly.
Tutti quelli che hanno la mia età e dintorni conoscono il loro brano immagine, “In-A-Gadda-Da-Vida” (che propongo nel video), ma occorre dire che gli I.B. sono un vero simbolo della miscela tra rock e psichedelia, e consiglio un brano in particolare (proposto nell’occasione) a chi non avesse mai avuto occasione di vederlo/ascoltarlo, “Butterfly Bleu”, facilmente fruibile in rete.

Credo che a partire dal 1966, anno della loro fondazione, le formazioni che si sono avvicendate siano una cinquantina; quella segnalata attualmente prevede:
Dave Meros (basso e voce), Ray Weston (batteria e percussioni), Michael Green (percussioni e voce), Eric Barnett (chitarra e voce) e Martin Gerschwitz (tastiere e voce).


Non è musica progressiva quella che presentano, ma il ritorno al passato è garantito, e l’elemento nostalgico si fonde con la quasi necessità di movimento da parte dei presenti.
Davanti a noi una band iconica che, nonostante i frequenti cambi di elementi umani, mantiene il profumo di un tempo lontano e permette di stimolare i sensi e la percezione d’ascolto.

Nemmeno lo staff resta insensibile all’esplosione sonora che va in scena al calar del festival…


Un bagno di folla, tra l’entusiasmo generale: chi avrebbe mai detto che gli Iron Butterfly sarebbero arrivati dalle nostre parti!?


La serata finisce ma si fa fatica a lasciare il campo… sarebbe bello prolungare il contatto, la socializzazione, il rito magico e impagabile che il virtuoso popolo di Veruno conosce alla perfezione e che ogni volta porta a dire - o solamente a pensare - … “Anche io c’ero!”.

Che dire, grazie agli organizzatori, ai loro collaboratori, a chi sovvenziona l’evento permettendo che la musica sia completamente gratuita, ai musicisti, e a tutte quelle anime che, ne sono certo, pensano già al settembre 2020!



domenica 1 settembre 2019

Gino Campanini (ex Acqua Fragile) racconta un pò di storie di musica...

Foto del debutto de I Moschettieri Gaetano, Maurizio, Franz, Gino.

Mi racconta Gino Campanini, chitarrista del’Acqua Fragile negli anni ’70…

Ho rivisto casualmente l'intervista che hai fatto all'Acqua Fragile nel 2013 a Parma, in occasione dei 40 anni di carriera di Bernardo Lanzetti


Io, Franz Dondi e Maurizio Mori, provenivamo da un gruppo che si chiamava I Moschettieri, eravamo tutti di Parma e quel ridicolissimo nome ci era stato imposto da un insegnante delle medie che era poi diventato il nostro manager. Era assolutamente fascista, con in testa i vari miti dell'uomo guerriero, e da lì deriva quello stupido nome.
Fu comunque grazie a lui che io e Franz cominciammo a suonare, e a 17 anni vincemmo un concorso nazionale che si chiamava Davoli Beat. Davoli era una vecchia e locale marca di amplificatori.

Tutto questo per arrivare a dire che I Moschettieri nel 1967 aprirono gli otto spettacoli della prima tournée italiana dei Rolling Stones: Roma, Bologna Genova Milano.
Per due volte al giorno, pomeriggio e sera, avemmo il privilegio di suonare prima di loro, di vederli arrivare nel sottopassaggio dei vari palazzetti dello sport con un grosso macchinone nero - successivamente chiamato limousine -, di intravederli nei loro camerini, di stare accanto a loro mentre prendevano un cappuccino al bar, di farci fare autografi vari, di giocare con Mick Jagger a flipper (Franz), di aspettarli facendogli da ala quando con gli strumenti in mano Brian Jones, Mick Jagger, Bill Wyman, Keith Richards e Charlie Watts uscivano dai camerini e salivano sul palco.


Insomma il massimo e impagabile privilegio di poterli vedere e ascoltare da due metri, cioè dal fianco del palco, dove neanche i carri armati avrebbero potuto spostarci.

Tutto questo ancora per dire che a 17 anni io, Franz Dondi, Maurizio Mori, Giacomo Fava e Gianni Ferrari eravamo fuori di testa. Personalmente rimane la cosa in assoluto più significativa di tutta la mia vita, un ricordo indelebile di un ragazzino di 17 anni che tanti anni fa ha visto così da vicino i suoi idoli massimi!

Ed era tra l'altro l'inizio dell’attività di tanti altri gruppi: con noi, a parte Al Bano con Fiammetta (poteva mancare Al Bano?) c’erano i Trolls non ancora New, i Dada non ancora New ma già con Maurizio Arcieri e Pupo al farfisa e gli Stormi Six.
Altro che prog... iniziavano con il riff di “The last time” e dopo due secondi la gente era già impazzita, urla e pianti, i seggiolini divelti e ammucchiati al centro della platea, un casino incredibile, e noi sempre lì, con gli occhi fissi su di loro, i miei in particolare su Keith Richards che suonava giusto dal nostro lato.

BELLISSIMO! E ogni volta, dopo 45 minuti di concerto, quando se ne andavano, io e Franz salivamo di soppiatto sul palco per fare incetta di plettri, cavi per chitarra, qualsiasi cosa trovassimo.

Lavorammo due anni nelle varie balere, sempre con la solita locandina: “Di ritorno dalla tournèe con i  Rolling Stones... questa sera i Moschettieri!!!”



Tra l'altro incidemmo un 45 giri dove c'era un pezzo scritto da un compositore dell’Ariston, etichetta dei Corvi, un brano che ancora oggi sarebbe molto molto bello, “Un'anima perduta”, un blues in italiano, orecchiabile, grintoso e soprattutto capibile.


Mi fermo qui,  sono stanco di sentire “prog e mica prog”. Tra l' altro con l’Acqua Fragile non pensavamo di suonare un genere così definito, seguivo i gusti di Canavera e Lanzetti che amavano i Genesis, i King Crimson ecc.


Ma ci è sempre mancato quel famoso pezzo da classifica, orecchiabile, ballabile e commerciale. Cosa sarebbe la PFM senza “Impressioni di gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre?”.

A pensarci bene ho ancora due ricordi legati agli Stones. L’organizzazione aveva messo a disposizione dei gruppi spalla un pullman per gli spostamenti da una città all'altra: bene, lo usavamo solo noi, ancora minorenni e senza patente. Quando arrivavamo nei pressi dei palazzetti dello sport tiravamo tutte le tendine, tutti i ragazzi che aspettavano fuori pensavano che sul pullman ci  fossero gli Stones e partendo come forsennati ci correvano dietro. E noi giù a ridere da matti!

Poi ci venne in mente una cavolata per fare in modo che i giornali parlassero di noi.
Arrivati a Milano, all'ultima nota del nostro ultimo pezzo feci finta di svenire e mi lasciai andare per terra sul palco. Arrivarono subito persone in mio aiuto per portarmi di  sotto, e tra queste c’era Al Bano (poteva mancare?). Io pur continuando la mia  mimica socchiusi appena appena gli occhi, io vidi lui e lui vide me, quindi, urlando che stavo  facendo finta finì la storia. Naturalmente nessun giornale ne parlò!
E durante quella tournée sentii per la  prima volta la parola  "Marijuana!".