venerdì 29 dicembre 2017

ALDO TAGLIAPIETRA-"INVISIBILI REALTÀ"



ALDO TAGLIAPIETRA-"INVISIBILI REALTÀ"

Sono passati quattro anni dall’uscita di “L’angelo rinchiuso” e Aldo Tagliapietra ritorna dal suo pubblico con una nuova chicca, “Invisibili Realtà”.
E’ un tempo lungo quello che intercorre tra i due lavori ma è lo stesso Tagliapietra che, nella bella intervista a seguire, racconta il motivo di tale gap, entrando nei dettagli di un disco che non può lasciare indifferenti.
Leviamoci dalla mente ogni tipo di etichetta e di incasellamento, e prendiamoci con piena soddisfazione l’uomo attuale, un “cantautore” che ha la fortuna di essere affiancato da musicisti molto più giovani di lui - talentuosi e umili - con cui si sente in piena sintonia, artisti a cui cede sapienza musicale e da cui riceve energia e stimoli nuovi, un perfetto esempio di osmosi musicale.
Aldo Tagliapietra è da molto tempo alla ricerca - e al consolidamento - di elementi spirituali, percorso fatto di studi e viaggi, sentiero che più passano gli anni e più si cementifica, palesandosi nella sua musica, brano dopo brano.
Le sue liriche, le sue ballate, le atmosfere create, profumano di trascendenza e di pace, e dopo attento ascolto si ha la sensazione che quelle “realtà invisibili ai più”, per lui non abbiano ormai alcun segreto, e la piena maturità abbia in questo senso qualcosa di invidiabile.

Sono nove i brani che compongono il disco, una storia che ripercorre tutta una vita, ponendo l’accento sui veri bisogni dell’uomo rapportati alle esperienze personali, una sorta di confronto che prosegue su binari paralleli che non divergono mai.
La  musica e le parole  ci aiutano a “perdonare ciò che va perdonato, dimenticando quello che va dimenticato, ricominciando sotto un nuovo sole, abbandonando al vento gioia e dolore…” (da “Musica e Parole”).
L’album appare come una sorta di sintesi personale, e accanto alle ballad non poteva quindi mancare l’accenno prog, quel “Siamo nel cielo” che nella seconda parte riporta al mood tipico di Hammill e soci, ovvero amici antichi.
E ancora… la ricerca delle radici (“Radici”), il bisogno di verità (“La porta”), le riflessioni sul susseguirsi delle stagioni (“E’ la vita), l’attesa della pace e della tranquillità (“Il sole del mattino”), il pensiero dell’amore (“Il bisogno di te”), la speranza che l’uomo possa essere il protagonista del cambiamento (“Come onde”). A conclusione un brano strumentale, una triste melodia sui cui ogni ascoltatore potrà ricamare il proprio pensiero, dopo il condizionamento positivo delle prime otto tracce: è la title track, “Invisibili realtà”, carica di significati nonostante l’assenza di liriche, a patto che si sia dotati di un po’ di sensibilità.

Un disco che colpisce per la sua forza d’urto, nonostante sia a tatti sussurrato; un lavoro che presenta il volto di Aldo Tagliapietra evolutosi nel tempo, un'immagine che appare oggi rassicurante e a tratti contagiosa nella sua positività.
Chi ha da poco ascoltato la Aldo Tagliapietra Band - e quindi la proposizione live di “Invisibili Realtà” - ne è rimasto entusiasta, e il mix di esperienze artistiche appare uno dei cardini del nuovo corso.
Un consiglio per chi nonavesse ancora ascoltato l’album: nessuna ricerca assoluta del passato, nessuna comparazione… i pregi del disco sono molteplici, dall’unicità della proposta alla pregevole musicalità, passando per i testi illuminati - e illuminanti - arrivando ad una funzione quasi didattica.

Io mi emoziono ad ogni ascolto… e qualcosa vorrà pur dire!


INTERVISTA AD ALDO TAGLIAPIETRA

Il titolo dell’album, “Invisibili Realtà”, si presta a molteplici interpretazioni, ma per chi ti conosce le note allegate al CD sono sufficientemente chiarificatrici. E’ bene comunque sentire il tuo pensiero a tal proposito… 

Tu sai che sono un appassionato di pensieri orientali e in particolare induisti, cinesi ecc., che affermano che noi viviamo in una realtà “maya”, ossia nell’illusione. Quindi tutta la nostra vita umana sulla terra non sarebbe altro che un’illusione e le realtà vere, quelle eterne, sono ben altre. Queste realtà ci avvolgono in qualche modo. Se noi ci sforziamo di uscire per un attimo dalla nostra visione materiale, provando a percorrere un sentiero invisibile e impalpabile, le cose cambiano. Secondo me il musicista attraverso la sua arte può perlustrare altre dimensioni, quella spirituale in primis. Queste filosofie dicono anche che la musica è il mezzo per andare a cercare - e a trovare -  l’ispirazione, come tutte le arti d’altronde, perchè hanno il potere di acuire la nostra sensibilità, che sarebbe la fantasia. George Harrison diceva che la canzoni non le scriveva lui, ma percorrendo questa dimensione così magica le trovava scritte, un po’ come quando chiesero a Michelangelo come facesse a fare le sue statue bellissime e lui disse che era facilissimo, bastava togliere il marmo intorno. Sto parlando di interiorità, di tutto ciò che può essere vissuto da dentro e poi esteriorizzato, ed è questa una condizione a cui si pensa soprattutto quando si raggiunge una certa età.
Con questo disco ho voluto anche mettere a nudo la mia interiorità, ed esprimo  attraverso i miei pensieri delle condizioni che solo nella terza parte della vita in qualche modo si riescono a focalizzare meglio. Questo è quello che dovremmo fare un pò tutti arrivati ad un certo punto del percorso. Tutto questo è ovviamente molto soggettivo.

Io conosco tutta la tua produzione. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che questo disco sia il più spirituale di tutti…

Assolutamente sì, ho voluto fosse proprio così. Anche per ciò che ti dicevo prima, si arriva ad un punto della vita che si sente il bisogno di ritrovare l’anima che si aveva da  bambino, ecco perché i nonni e i nipotini sono sempre in simbiosi, proprio perché l’anziano ad un certo punto ricerca la gioventù dell’anima quando il corpo è appesantito dagli anni e dai problemi. C’è una canzone, che appunto parla della vita (“E’ la vita” N.d.R.), dove dico che serve volontà, desiderio e sogno di ridiventare bambino.

Nonostante questa tua visione del mondo e della musica che è attuale, c’è qualcosa che è molto legato a quello che hai fatto nel passato?

Certo, c’è tutto il mio passato lì dentro, ho voluto addirittura fare apposta dei piccoli accenni e riferimenti anche alle Orme degli anni ‘70, ho voluto fosse quasi come il racconto di una vita. Infatti ho lavorato molto su questi testi.

Ho visto il video che racconta la storia della costruzione del disco, e ad un certo punto affermi che normalmente per fare un disco ci vuole un anno, mentre tu ne hai impiegati tre, come a sottolineare che è stato un lavoro duro, sudato goccia per goccia…

Sì, infatti; mentre la creazione di melodie e ballate mi viene semplice e spontanea - credo di aver scritto nella mia vita più di 200 canzoni tra Orme e altri progetti -, per i testi è diverso. Ho incominciato a scriverli dopo gli anni ’70; quando Pagliuca se ne andò pensai che anche io potevo essere in grado di scrivere le liriche, e così ho incominciato questo lavoro e sono diventato una sorta di cantautore, e questa è sempre stata la mia condizione anche nella band. Successivamente le canzoni avevano sviluppi di arrangiamento e lavorazione diversi, più prog, ma noi siamo sempre partiti da una melodia, e in qualche modo posso asserire che il “La” l’ho sempre dato io. Ho continuato quindi in questa maniera e ora mi autodefinisco cantautore a tutti gli effetti, anche perchè nel corso degli anni tutti i dischi che ho fatto sono cose mie.

La tua definizione di cantautore si percepisce ascoltando l’album. C’è una canzone sola, “Siamo nel cielo”, che nella seconda parte si sviluppa in modo diverso, e a un certo punto sembra quasi di sentire i Van Der Graaf Generator…

Sì, hai ragione, in un certo momento c’è un ritmo molto “Vandergraaf”. Si fa presto, si prende un riff atonale e ci si mette un tempo dispari ed ecco che entri in un mondo che è quello che tu hai citato. L’ho voluto fare apposta per dire che ho attraversato anche questo mare. Poi, ripeto, se fai un riff di un certo tipo ottieni un ritmo prog e ho voluto dare questo tocco all’album.

Guardando i crediti ho visto che ti è attribuito oltre, alla voce, il sitar ma non c’è il basso, è una tua scelta precisa?

Sì, perché in questo disco ho voluto che ci fosse un altro tipo di basso - e di bassista. Questo bassista si chiama Andrea Ghion, suona con noi anche dal vivo perché io in concerto preferisco suonare la chitarra acustica. Ho voluto concentrarmi di più sul cantato.

A proposito del tuo gruppo di lavoro, alcune figure sono molto consolidate - Smaniotto, De Nardi e Ballarin - , e ho sentito che dichiaravi che da loro trai energia in sala di registrazione o su di un palco. Come si è evoluta questa collaborazione con questi ragazzi che sicuramente sono maturati con te?

Quando si fa una canzone sono io che do l’indirizzo dell’arrangiamento, ma loro hanno alle spalle un bagaglio musicale non indifferente per la loro giovane età, una preparazione molto vasta, dalla musica classica al jazz al prog più stretto. Parliamo lo stesso linguaggio, capiscono al volo cosa voglio e quindi esiste questa apertura mentale che per me è molto importante. A tutto questo aggiungi l’energia e l’entusiasmo che derivano dallo stare insieme, dal suonare insieme, dallo stare sul palco insieme suonando la propria musica. Sono stato fortunato! Ci ho messo un pò a trovarli! Matteo Ballarin ad esempio… è entrato proprio all’ultimo momento ai tempi di “Nella pietra e nel vento”, ma io già suonavo con tastiera, batteria, basso ecc.; era molto amico e suonava spesso con Andrea De Nardi, quindi quando l’ho conosciuto ho voluto inserire anche lui nell’organico e poi la cosa ha continuato.

Nel brano strumentale finale, che poi da il titolo all’album, ci hanno messo del loro o è tutta roba tua?

È tutta roba mia, è un brano scritto per chitarra acustica. Ho pensato però che nel disco fosse meglio inserire altri tipi di suoni, e poi  un pò di arrangiamento loro c’è, ma questa comunque è una delle melodie che avevo nel cassetto e ho voluto inserire il pezzo quasi come segno di chiusura, una trama che lascia anche un po’ di nostalgia.

Avete programmato per il prossimo anno qualche data live o tour per presentare questo album?

Stiamo già facendo delle cose. Ho fatto una presentazione dell’album al Toniolo di Mestre una decina di giorni fa, poi dal vivo l’altro giorno a Bari in un posto dove vanno a suonare anche spesso gli Osanna. Venerdì prossimo vado a inaugurare il teatro Lino Toffolo a Murano e poi in provincia di Belluno, una settimana dopo; poco prima di Natale sarò al Club Il Giardino di Lugagnano. Ogni tanto faccio qualcosa, ho un  piccolo calendario e spero che si riempia con il tempo.

Ti piace ancora presentare le tue cose sul palco?

Sì, in questa situazione, con questi ragazzi e soprattutto quando si fanno cose nuove l’entusiasmo c’è sempre. L’unica differenza è che a 20 anni si facevano viaggi lunghissimi, adesso la cosa diventa un po’ più faticosa dal punto di vista fisico, ma quando poi sei sul palco, con la gente dalla tua parte è una bella soddisfazione! Questo disco dal vivo viene  benissimo, si può dire meglio che in studio. Se la salute ce lo permette noi andiamo avanti…


CREDITI

Line-upAldo Tagliapietra (voce e sitar), Andrea De Nardi (pianoforte, organo Hammond, Minimoog), Matteo Ballarin (chitarre e programming), Andrea Ghion (basso), Manuel Smaniotto (batteria e percussioni). Con la partecipazione di Mauro Martello (duduk) nel brano n°5 “Radici”.

Tracklist: 1- Musica e parole; 2- La porta; 3- Siamo del cielo; 4- E’ la vita; 5- Radici; 6- Il sole del mattino; 7- Il bisogno di te; 8- Come onde; 9- Invisibili realtà;

Aldo Tagliapietra è autore di musiche e testi e produttore insieme a Clamore.
Distribuzione Self.

Formato disponibile: CD in jawelbox con booklet di 12 pagg; LP album + CD + poster (300x600 mm.) all’interno; LP album Limited edition White; digitale.






giovedì 28 dicembre 2017

Pietruccio Montalbetti-"Niente"



Pietruccio Montalbetti è un nome che rappresenta qualcosa di importante per quelli della mia generazione.
La mia fanciullezza corrisponde all’avvento del beat e alla conseguente marea di 45 giri che invasero la nostra vita, utilizzati in primis dai nostri genitori nelle feste serene che segnavano quei giorni caratterizzati dal boom economico, mentre gli anni ’60 volgevano al termine: il mangiadischi ebbe un ruolo fondamentale.
I gruppi italiani facevano man bassa delle hits straniere, in un periodo in cui i diritti d’autore non erano in alcun modo tutelati.
Decine di giovani band emersero, ma solo alcune rimasero in evidenza grazie a qualche qualità in più e magari a sporadiche apparizione nelle pellicole dell’epoca: The Rokes, Camaleonti, Equipe 84, Corvi.
I brani coverizzati erano personalizzati e reggono tutt’ora il confronto con gli originali, canzoni che anche le nuove generazioni hanno nelle orecchie.
Tra i tanti ensemble musicali ruolo primario hanno avuto i DIK DIK, che ricordo oggi, dal momento che è appena uscito un album di Pietruccio Montalbetti, il chitarrista storico.
Ho ritrovato Montalbetti alcuni anni fa, in veste di scrittore, commentando il suo “Io e Lucio Battisti”, e intervistandolo ho scoperto il suo secondo amore, quello per i viaggi.
Ma la musica resta in primo piano e il suo tributo al passato si sintetizza in questo fine 2017 con l’album “Niente”, una raccolta di brani dell’epoca, rivisitati e ammodernati, suonati dai migliori turnisti in circolazione, impegnati nell'occasione presso lo studio “Musica Per Il Cervello“.
DIK DIK giustamente in evidenza, con tre tracce storiche: “Io mi fermo qui”, “Se io fossi un falegname” e “Senza luce”, quest’ultima proposta in modo originalissimo, con l’armonica sostitutiva dell’organo Hammond tipico di Gary Brooker nella versione originale, “A Whiter Shade of Pale”. Spazio per l’amico Battisti - e ovviamente Mogol - con “Anche per te” e “L’aquila” - un omaggio indiretto a Bruno Lauzi -, con una chicca che dà il titolo al disco, la versione italiana di “Nothing but the whole”, di Jacob Dylan. 
Non poteva mancare l’immagine che incarna il Montalbetti itinerante, “Lo straniero”, conosciuta da tutti nella versione di Georges Moustaki.
Ma ciò che a mio giudizio rappresenta la sinossi dell’album è “I ragazzi della via Stendhal”, scritta da Ricky Gianco appositamente per questo lavoro e interpretata, oltre che da Pietruccio e Ricky, anche da Cochi Ponzoni, tutti e tre cresciuti assieme nella storica via e anche compagni di scuola: dal mio punto di vista sufficientemente malinconica e capace di far scendere la lacrimuccia a chi ha vissuto, almeno in parte, quel periodo.


Un album piacevole, l’ideale per sollecitare la memoria e per innestare in automatico lo spleen di cui a volte si sente il bisogno.

Dice Montalbetti: “La musica non era nel programma nei sogni della mia vita. Fin da piccolo desideravo due cose: andare in giro per il mondo in solitario su una barca a vela oppure fare l’esploratore. Il destino ha voluto che facessi il musicista, per giunta di successo, non avevo quello che si definisce il fuoco della musica, ma ciò che mi ha spinto era il desiderio di stare su un palco di fronte alla gente, in fondo avrei potuto fare del teatro. Dei miei due sogni iniziali, uno sono riuscito a realizzarlo velocemente e tutt’oggi grazie alla musica, fin dall’inizio della mia carriera, realizzo il mio secondo sogno, per girare il mondo in solitaria”.




domenica 17 dicembre 2017

Il 15 dicembre, al Giardino Serenella di Savona si è parlato di Joe Vescovi


Bella e significativa serata quella realizzata il 15 dicembre al Giardino Serenella di Savona, un omaggio simbolico degli appassionati di musica savonesi verso un artista, un concittadino, purtroppo scomparso, ma sempre nei cuori di chi lo ha conosciuto, personalmente o attraverso la sua musica. Al centro lui, Joe Vescovi, i suoi progetti e i suoi molteplici amici. E’ stata quindi l’occasione per descrivere la storia dei Trip - e di tutti i componenti che si sono succeduti - toccando progetti paralleli, come l’Acqua Fragile, i Dik Dik, Umberto Tozzi, i Knife Edge
A condurre la serata Alberto Sgarlato, che ha coordinato gli interventi degli organizzatori, Mirella Carrara e Stefano Mantello.
Buona la partecipazione, con qualche saluto arrivato in remoto, come quello di Fabrizio Cruciani - che suonò con Joe nei Knife Edge - assente per motivi di lavoro ma premuroso di inviare un video messaggio per far sentire la sua vicinanza, così come quello di Bruno Vescovi, fratello di Joe, impossibilitato a presenziare, ma emozionato per l’idea celebrativa.
Presente anche Paolo Seccafen, che suonò con un “Joe bambino” nei The Lonely Boys.



Ma il grande merito va a Mirella, amica dei Trip sin dall’adolescenza (infaticabile custode di ricordi e memorie fisiche e non…) e a Stefano, anagraficamente più “fresco”, ma amante della musica dei Trip, e nell’occasione portatore di molti cimeli recuperati recentemente a casa di Joe, attraverso l’amicizia con la di lui moglie Sandra, anch’essa particolarmente felice dell’iniziativa.
Molti gli inediti e i documenti cartacei mostrati, sino a poco tempo fa ben custoditi nella cantina del tastierista savonese, nell’occasione messi a disposizione dei presenti.
E poi video, audio e immagini che hanno riportato ad un mondo ormai passato, ma tenuto in vita da ciò che rimane come saldo baluardo alla difesa della memoria: la musica che resta immutata e i rapporti umani che la promuovono.
Particolarmente toccante il momento in cui Monica Giovannini ha letto una poesia scritta da Orso Tosco per ricordare Wegg Andersen.


Una serata serena, parlando ed ascoltando ciò che Joe Vescovi e i suoi compagni di viaggio hanno saputo creare. Per quelli di noi che lo hanno conosciuto da vicino… per quelli che invece lo hanno vissuto passando attraverso i suoi molteplici progetti… un momento piacevole, non certo triste, nonostante ci si sia spesso soffermati a commentare la vita di persone che, purtroppo, non ci sono più.
E questi incontri, seppur episodici, aiutano a mantenere viva l’immagine artistica e umana di “giganti” della musica, e la condivisione appare un fatto doveroso.

Ho catturato in video qualche momento…




lunedì 11 dicembre 2017

Locanda delle Fate: ultimo atto del "Farewell Tour"-Asti, Teatro Alfieri, 9 dicembre 2017


Essere presenti il 9 dicembre al Teatro Alfieri di Asti ha determinato per molti la possibilità di aggrapparsi per sempre ad un pezzo di storia della musica, cosa non trascurabile per chi si sente parte di un movimento specifico, un po’ di nicchia, certamente, e proprio per questo di grande valenza.
Tutto era iniziato proprio nel salotto nobile della città, quarant’anni fa, quando la Locanda delle Fate si esibì per la prima volta davanti agli occhi di un diciassettenne, un “bimbo” che diventa uno dei simboli della serata. Sì, perché Max Brignolo era presente tra il pubblico, in adorazione in quel lontano ’77, mentre il 9 dicembre 2017 lo abbiamo trovato sul palco, chitarrista delle Locanda: un’immagine che racconta il passaggio di una vita, di più vite, di esperienze positive ed evidente dolore, perché la vita non fa sconti a nessuno.
Non credo che tutto il pubblico presente fosse costituito dai “duri a morire” del prog, più facile che il legame fosse costituito da analogie territoriali, da memorie condivise, da amore incondizionato per quei ragazzacci che hanno finito la loro esperienza live con quello che è stato nominato “Farewell Tour”, una serie di concerti di commiato culminati con due tappe brasiliane e con l’evento principe… tanto da chiudere il cerchio terminando nel modo più degno un ciclo indelebile, non solo per i protagonisti attivi.
Paradossalmente la musica non è stata l’elemento principale - è ovviamente un’opinione personale - ma i contributi che solitamente rappresentano un corollario - mi riferisco ai racconti, agli aneddoti, al rovistare nelle memorie - hanno preso il sopravvento e di fatto abbiamo assistito ad una cosa unica, con la presenza on stage di tutti i vecchi  “locandieri” (tranne Michele Conta), con un microfono che è passato di mano in mano tra i componenti attuali la band, e tutti hanno dato un contributo differente, tendente al “simpatico… forzato”, ma palesemente colorato di tristezza e rammarico: quando si chiude un capitolo del genere non è la musica che termina il suo corso, al contrario, attraverso di essa si rafforza il legame che esiste tra pubblico e artisti, ma… resta l’amaro in bocca, e viene facile immedesimarsi. E’ successo anche a me, comodamente seduto in prima fila, immerso tra i pensieri mentre lo show proseguiva, intento a capire cosa ci abbia lasciato realmente una vita scappata via in un attimo.
E alla fine il concerto diventa l’occasione per riflettere, sorridere amaramente, sentire dentro che i 5 gradi sottozero di Asti sono un minimo disagio se confrontato alla chiusura di una vicenda così importante.
E’ stata anche l’occasione per conoscere in modo sommario chi ha fatto parte della Locanda nel corso della sua storia (tutti visibili nel filmato a seguire), con un momento particolarmente toccante, quello in cui Alberto Gaviglio introduce Ezio Vevey, costretto dalla sua malattia ad una presenza “passiva”, ma davvero significativa.


Su palco per la foto di rito altre persone “importanti”, fan capaci di macinare oltre 9000 chilometri per assistere ad un evento magico, provenienti dall’estremo Oriente, così come dall’estremo Occidente.
Per una volta accantono la musica (ma nel video di fine articolo propongo un paio di brani…), certo di aver goduto di uno dei migliori concerti possibili in quel di Genova, un paio di mesi fa. In questa ultima occasione sono stato al contrario catturato da altro, da atmosfere rarefatte ed emozionanti, da attimi lontani dalla razionalità e carichi di sottile piacere. Quello che ho vissuto mi ha toccato profondamente, e credo di essere entrato perfettamente dentro alla serata, toccando con mano lo stato d’animo dei protagonisti, “rubando” qualcosa dal loro intimo e facendolo mio… anche io ho lasciato un pezzo di me al Teatro Alfieri, qualcosa che non tornerà più.
Concludo con parole non mie… nemmeno quelle solenni di Luciano Boero o Leonardo Sasso… nemmeno quelle del tastierista antico (Oscar Mazzoglio) o più recente (Maurizio Muha)… nemmeno quelle partecipate di Alberto Gaviglio… preferisco proporre il pensiero di Giorgio Gardino, uno che alle parole preferisce il percuotere le pelli, ma che evidentemente possiede il raro dono della sintesi: nella sua chiosa risiede il sentimento più diffuso di serata…

Ciao Locanda, grazie di tutto!




giovedì 7 dicembre 2017

PFM-“Emotional Tattoos”


                                                                 PFM-“Emotional Tattoos
                                                                         Di Athos Enrile

Tutto ciò che riguarda la PFM fa rumore e atmosfera, perché la più grande rock band italiana crea sempre aspettativa e induce al commento, spesso condizionato da preconcetti ed eccessive sicurezze, qualunque sia la tendenza del giudizio.
Le band si evolvono, i musicisti e le esigenze mutano, e a ben vedere di quel nucleo antico denominato “Quelli”, trasformatosi poi in PFM, resta il solo Franz Di Cioccio. Certo, Patrick Djivas - entrato nel ’73 - è membro DOC, così come sono da considerarsi elementi di famiglia Lucio Fabbri - collabora dal ’79 - e Roberto Gualdi, da quattro lustri alter ego di Franz alla batteria, ma la proposta attuale regala un’immagine nuova del gruppo, e la mia convinzione è quella che non sia necessaria alcuna comparazione col passato, siamo di fronte a un nuovo volto, il cui intento dichiarato è quello di provocare “tatuaggi emotivi”, e se non ci si fa troppo condizionare dalla storia l’obiettivo si può raggiungere.
La band attuale si completa con Marco Sfogli alla chitarra, Alessandro Scaglione alla tastiera e Alberto Bravin a tastiera e voce.
Partiamo dagli elementi oggettivi: “Emotional Tattoos” - è questo il titolo dell’album - è uscito per l’etichetta InsideOutMusic/SonyMusic, pubblicato contemporaneamente in due versioni diverse tra loro, una italiana e una inglese.
Sono molteplici le possibilità di fruizione per soddisfare tutte le esigenze di appassionati e non: Nero 2LP+2CD (Vinile versione inglese e doppio cd italiano e inglese), EDIZIONE LIMITATA (solo per l’Italia) Trasparente arancione 2LP+CD (vinile e cd versione italiana), edizione speciale 2CD Digipak (cd versione italiana e inglese / International version), 2CD Jewelcase (cd in versione italiana e inglese / US version), CD Jewelcase (cd in versione italiana / disponibile solo in Italia), Digital album (cd in versione italiana e inglese).
La doppia conformazione in contemporanea è inusuale, legata alla necessità di percorrere immediatamente strade dalle direzioni diversificate che abbiano come mira il raggiungimento del pubblico lontano, cosa che sembrerebbe facile in questi tempi evoluti tecnologicamente, ma che necessita di cura dei particolari e conoscenza della richiesta, con una voglia di vinile che richiederebbe un capitolo a parte per gli aspetti di contorno che superano quelli meramente musicali.
L’anticipazione del video “Quartiere Generale” aveva fatto storcere il naso ai più rigidi amanti del prog italico, mentre i più cauti - e io sono tra quelli - hanno preferito aspettare, ascoltare per intero i due dischi, farsi un’idea da esprimere soltanto dopo una buona metabolizzazione.
Dopo tre giri di giostra ho realizzato alcune cose basilari:

1)La sezione inglese è quella che preferisco e la scelta della lingua può fare davvero la differenza, anche se credo che ci sia spazio per il miglioramento della pronuncia.
2)La miscela tra i brani pop e quelli più articolati rappresenta un buon equilibrio che appare come caratteristica precisa del disco.
3)La musica della PFM è questa, è altra cosa, un mondo che è progredito lasciandosi alle spalle la storia, senza rinnegarla, ma evidenziando che si può proporre qualità con ingredienti e attori diversi da quelli a cui si è abituati, perché gli artisti maturano, si evolvono, si lasciano, si compensano.

Ho trovato questo nuovo contenitore godibilissimo, e pensare che la PFM rilasci un disco di inediti dopo 14 anni - ma occorre contare anche “Stati di immaginazione” uscito nel 2006 - induce a credere in una nuova spinta all’azione, una rinnovata motivazione nel lasciare tracce indelebili, in un momento in cui la vendita dei dischi è fatto economicamente marginale, e solo il feticcio LP può contrastare tale fenomeno.


Le liriche riportano ad un buon impegno sociale e sono siglate da Di Cioccio e Gregor Ferretti, mentre Dzjivas ed Esperide hanno curato i testi inglesi, con una piccola incursione della vecchia amica - e conoscenza italiana - Marva Jan Marrow.
Copertina di Stefano e Mattia Bonora, così raccontata dalla PFM: “Sulla copertina si vede una fantastica nave spaziale guidata da Franz e Patrick, una nave che ci porta in luoghi mai esplorati prima, accompagnando il pubblico nel nuovo mondo PFM, dove la musica non ha solo un'identità ma si evolve e abbraccia molti generi. “Emotional Tattoos” è un album che lascerà emozioni sulla pelle”.

Brani come We're Not an IslandIl Regno, o So Long/ Mayday o ancora Freedom Square disegnano l’ampio scenario dove le skills personali emergono all’interno del progetto, delineando la nuova shape della PFM, la versione 2017, che non prevede rigidi schemi ed etichette ma piuttosto la creazione di una porta aperta che possa agevolare ogni tipo di contaminazione al di fuori delle ideologie musicali e dei paletti che un tempo era facile costruire, o farsi realizzare su misura da altri.
Il video a seguire, il secondo rilasciato, appare come buona sintesi degli intenti e delle nuove necessità espressive.


Tracklist:
1-01 We're Not an Island
1-02 Morning Freedom
1-03 The Lesson
1-04 So Long
1-05 A Day We Share
1-06 There's a Fire in Me
1-07 Central District
1-08 Freedom Square
1-09 I'm Just a Sound
1-10 Hannah
1-11 It's My Road
2-01 Il Regno
2-02 Oniro
2-03 La Lezione
2-04 Mayday
2-05 La Danza degli Specchi
2-06 Il cielo che c'è
2-07 Quartiere Generale
2-08 Freedom Square
2-09 Dalla Terra alla Luna
2-10 Le Cose Belle
2-11 Big Bang