mercoledì 29 settembre 2010

Audience


Gli Audience nacquero nel 1969 dalle ceneri di una soul band semi-professionale chiamata Lloyd Alexander Real Estate che comprendeva tutti i membri dei futuri Audience, con l'eccezione di Connor, che entrò nel gruppo dopo la partenza di John Richardson.

Dopo qualche settimana di prove, gli Audience avevano già firmato un contratto di incisione con la Polydor, con la quale registrarono il loro primo album Audience.

Alla fine dell'anno, l'album era già acclamato dal pubblico e dalla critica.

Il gruppo fu notato da Tony Stratton-Smith, direttore della Charisma Records, che li prese come gruppo di spalla al tour dei Led Zeppelin, associandoli alla sua etichetta.

Gli Audience registrarono tre album per la Charisma: il primo album Friends Friends Friend fu interamente curato dal gruppo, sia per l'incisione che per la grafica di copertina.

Per gli altri due si avvalsero del celebre produttore Gus Dudgeon, che per i successivi House on the Hill e Lunch volle far curare i disegni di copertina dall'altrettanto celebre studio di design Hipgnosis.

Seguirono tre anni di di continuo lavoro con un buon successo: tuttavia, un tour americano con Rod Stewart e The Faces, anche se riuscito, portò alcuni problemi che provocarono la fuoriuscita di Gemmell dal gruppo prima di terminare l'album "Lunch", che fu completato con la collaborazione dei Rolling Stones e dei Mad Dogs and Englishman.


A seguito della defezione di Gemmel, la band arruolò due nuovi elementi: Pat Charles Neuberg al sassofono e Nick Judd al pianoforte elettrico.

La nuova formazione non funzionò e Williams, l'autore di quasi tutti i testi, se ne andò otto mesi più tardi.

Quando Nick Judd ricevette un'offerta dai Juicy Lucy, la band si sfasciò. Judd se ne andò, unendosi successivamente ad Alan Brown, The Andy Fraser Band, Brian Eno, Frankie Miller e gli Sharks. Keith Gemmell si unì da principio agli Stackridge, poi si occupò di colonne sonore e infine si unì alla Pasadena Roof Orchestra, dove suonò per quattordici anni. Trevor Williams si unì ai Nashville Teens, che lasciò dopo poco. Tony Connor, dopo una parentesi con gli Jackson Heights, si unì agli Hot Chocolate, con cui è rimasto.

Nel 2004, Howard Werth, Keith Gemmell e Trevor Williams ritornarono sulle scene, sostituendo Tony Connor con il batterista e vocalist John Fisher, tenendo dei concerti in Germania, Italia, Canada e Regno Unito e registrando un album dal vivo per la Electric Record dal titolo “Alive & Kickin' & Screamin' & Shoutin'”.

Durante questo periodo, Gemmell registrò due album da solo, "The Windhover", inspirato ad un poema di Gerard Manley Hopkins, e "Unsafe Sax".

Gli Audience stanno attualmente considerando il loro futuro, a seguito della morte di John Fisher, avvenuta il 27 settembre 2008.

Discografia

1969 Audience (Polydor)

1970Friends Friends Friend (Charisma)

1971 House on the Hill (Charisma)

1972Lunch (Charisma)

2005 Alive & Kickin' & Screamin' & Shoutin' (Eclectic Discs)


martedì 28 settembre 2010

I Beatles, un magnifico quintetto


Articolo inviatomi da Innocenzo Alfano
Solo George Martin poteva parlare di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il capolavoro “tecnologico” dei Beatles, la Hippie Symphony n. 1 per usare una definizione dello stesso Martin, ed illustrarne la genesi e tutti i meccanismi compositivi. E Sir George – classe 1926 – lo ha fatto. I fan dei Beatles e gli appassionati di musica rock gliene saranno per sempre grati.
Il libro di George Martin è uscito in Italia alla fine del 2008 per i tipi della Coniglio, ottimamente tradotto dall’inglese da Paolo Somigli, direttore del mensile Chitarre. L’edizione inglese è però più vecchia di ben quindici anni, e ciò è molto strano. E’ molto strano cioè che un libro sui Beatles, scritto da uno che i Beatles li conosceva assai bene, e che anzi è stato sempre e giustamente definito come “il quinto beatle”, non abbia trovato nessuno in Italia disposto a tradurlo per tre lustri consecutivi. Ma forse, a ben vedere, una ragione c’è: la presenza, nel testo, di termini musicali (non molti, a dire il vero) e di tre esempi su pentagramma (alle pagine 29, 121 e 162), ragioni più che sufficienti a terrorizzare gli editori italiani che stampano libri sul pop e sul rock perché, come si sa, il pop ed il rock sono sì materie musicali, ma guai a parlarne in termini musicologici, la gente non capirebbe. Il problema, infatti, come ha giustamente sottolineato in un suo libro sul jazz edito una decina d’anni fa il giornalista e scrittore Franco Fayenz, è che gli italiani sono quasi tutti ciechi di fronte a un pentagramma, e questo gli editori lo sanno benissimo.
Il titolo del libro è in ogni caso Summer of Love. Più che ovvio: Martin infatti sa bene che un disco come Sgt. Pepper è in una certa misura debitore del clima spensierato e sperimentale vissuto dal mondo della musica rock nel 1967, l’anno di pubblicazione del 33 giri. Non dimentichiamolo, il 1967 è l’anno del “Flower Power” e degli stili di vita alternativi, a cui molti giovani guardano con curiosità e un interesse crescente. E la stragrande maggioranza dei musicisti rock erano all’epoca, per l’appunto, giovani, oltre che musicisti. Ma i Beatles, con il loro ottavo long playing, fanno qualcosa di più: influenzano a loro volta, prepotentemente, le mode musicali a venire.
Martin, dunque, illustra al lettore la strategia compositiva scelta e poi utilizzata per dare vita a questo notevole – «rivoluzionario ed unico» direbbe lui – lp dei Beatles. In effetti, come abbiamo anticipato in apertura, George Martin è l’unico che possa farlo con cognizione di causa, essendo egli, a differenza dei quattro componenti del gruppo, un valido musicista, un esperto conoscitore del mondo della cosiddetta musica colta ma, soprattutto, il produttore nonché consulente musicale dei Fab Four fin dal 1962. Quando perciò si dice che era “il quinto beatle” non lo si dice di certo a caso, o a sproposito. Era proprio così. E’ lo stesso George Martin a ricordarcelo quando sottolinea il ruolo da lui svolto nel processo di costruzione dei brani da inserire negli album della band o da pubblicare in versione 45 giri. Siamo nel capitolo 8, e Martin scrive: «Le mie personali specialità erano le introduzioni, le conclusioni, e gli assoli. Quando arrivavano da me con una canzone, mi mettevo a riflettere su come arrangiarla in modo che partisse nel modo migliore, avesse qualcosa di interessante nel mezzo, e finisse bene. In genere una canzone pop va costruita partendo da una strofa iniziale, che generalmente non è particolarmente lunga, poi c’è bisogno di un inciso, di un assolo di chitarra, di un’altra strofa che si ripete e di una conclusione. Una formula decisamente semplice, ma contavano su di me per realizzarla al meglio» (p. 96). Più chiaro di così…
Nel 1967 gli arrangiamenti delle canzoni dei Beatles diventano assai più sofisticati, come testimoniano brani simbolo – veri e propri classici della musica rock – quali Strawberry Fields Forever e A Day In The Life. Sofisticati e sperimentali, per usare un termine che ricorre spesso, e a ragion veduta, nel libro. Un processo, in verità, iniziato l’anno prima con il 33 giri Revolver e in particolare con il brano Tomorrow Never Knows, definito da Martin «una canzone strana, divertente da realizzare, all’interno di un album che dette il via a quel tipo di registrazioni sperimentali che avremmo usato per Pepper. […] Fu un happening di tape loop, inseriti mentre tutti noi muovevamo cursori in modo assolutamente casuale, e volenti o nolenti fu un evento irripetibile» (p. 99).
Il risultato delle sperimentazioni realizzate all’interno di uno studio di registrazione, però, se da un lato fu innovativo ed artisticamente affascinante, dall’altro precluse ai Beatles, se mai ne avessero avuto il desiderio, di suonare dal vivo le loro nuove composizioni. E questo vale per Tomorrow Never Knows così come per la maggior parte di Revolver e di (pressoché tutto) Sgt. Pepper. Martin ovviamente continua, anche in questa fase, a dare il proprio contributo creativo agli arrangiamenti delle canzoni di Lennon, McCartney e – più di rado – Harrison, sovente con l’ausilio di orchestrali da lui diretti e, quando necessario, suonando personalmente il pianoforte e altri strumenti a tastiera. E anzi, «siccome i Beatles avevano cominciato a farsi beffe di tutte le regole precedenti in fatto di musica pop, questo mi permise di essere totalmente libero di fare quello che più amavo: sperimentare, costruire immagini sonore, creare un’atmosfera particolare per una canzone, tutte cose che comunque avevo sempre desiderato fare. Il nostro fu un matrimonio molto felice. Non dovevo chiedere il permesso a nessuno: era una cosa meravigliosa quell’autonomia, quel potere. Finché ognuno di noi cinque era d’accordo, chiunque altro poteva pure andare al diavolo!» (pp. 100-101). Notare come Martin usi in modo del tutto naturale il “noi” e addirittura l’“io” quando si riferisce alla fase preparatoria e poi realizzativa delle composizioni dei Beatles. In questo senso non c’è dubbio che il produttore inglese si sentisse, in generale, parte integrante del progetto Fab Four, e, in qualche caso, persino come un elemento imprescindibile dello stesso. Quel «finché ognuno di noi cinque era d’accordo» vale a mio avviso più di centinaia di disquisizioni accademiche per comprendere la natura e, per così dire, la “messa in opera” della musica contenuta nei dischi dei Beatles, il più famoso… quintetto della storia del rock.

Nota Bene L’articolo è stato pubblicato su “Apollinea”, Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino, Anno XIV – n. 5 – settembre-ottobre 2010, pag. 19.


lunedì 27 settembre 2010

Effetto domino ... non sempre positivo!


Da circa un anno sto leggendo un libro di Pamela Des Barres,“Let’s Spend The Night Togheter”.
Pamela, che ho incontrato la scorsa estate, è un personaggio che mi affascina, per il fatto che ha vissuto da vicino l’epoca in cui … tutto è nato. Quando scrivo “da vicino”, mi riferisco al fatto che ha personalmente vissuto accanto a chi il rock lo ha fatto nascere o almeno apparire diverso.
Il motivo per cui non ho ancora finito la lettura a distanza di tempo, è che la descrizione della vita delle differenti “ groupie” è abbastanza ripetitiva, e dopo un po’ si sente il bisogno di una pausa; la suddivisione in capitoli separati ( e quindi storie diverse), favorisce la sosta, senza che si possa perdere lo scontato filo conduttore.
Ondeggiando tra storie che hanno alla base un forte denominatore comune, “Sesso , Droga e Rock and Roll”, ci si imbatte in nomi sconosciuti che, se diventano ripetitivi, fanno pensare:”… ma come mai non so chi sia? Se è citato così tante volte sarà uno che mi sono perso?”. E così si parte alla ricerca di uno… “sconosciuto, ma famoso”.
Giunto ormai a un terzo dalla fine, ho notato nelle ultime pagine un incremento del nome “Taime Downe”.
Chi sarà mai?!
Mi documento (ma decido di fermarmi presto). Questo Downe era il leader di un gruppo chiamato Faster Pussycat. Faccio un giro su youtube per vedere che tipo di musica proponessero e trovo un titolo conosciuto, “You’re so vain”, brano pop, super gradevole, realizzato secoli fa da Carly Simon, un classico senza tempo. Qualche nota su Carly:
Comunque decido di osare, e così vengo a conoscenza di uno stravolgimento vergognoso di una canzone che la Simon aveva dedicato a qualche suo ex (James Taylor? Mick Jagger? Warren Beatty, Cat Stevens? Kris Kristofferson?) sussurrandogli: ” Sei così vanitoso!”

A questo punto devo condividere il brano, pensando che in ogni caso… sarà un insuccesso.



E ora rifacciamoci le orecchie( e la vista) con la versione originale:


E se a qualcuno interessa sapere di più dei Faster Pussycat … please, cerchi altrove!

domenica 26 settembre 2010

PTAH-PHAEDRA


La testimonianza di ascolto di un nuovo album dovrebbe seguire, anche, dei canoni “quantitativi”, perché esistono regole di pubblicazione che vanno rispettate.
Laddove tali regole non esistono (ad esempio un blog musicale come questo), occorre comunque tenere presente che il potenziale lettore spesso non può dedicarsi a lunghe letture, ma gradisce le pillole, i “bignami” musicali, perché … non c’è mai tempo per niente! E quindi si perde in efficacia.
Io non mi curo mai di questi aspetti, privilegiando il messaggio che voglio passare, lungo o corto che sia. E con questo metto le mani avanti!
Quando ho ricevuto “il kit” relativo a “PTAH, la parte descrittiva ha prevalso sull’ascolto.
Avevo in mano talmente tanti dettagli, chiari, imme
diati, che non ho resistito alla tentazione di capire l’iter compositivo, e solo successivamente mi sono dedicato all’ascolto, arrivando poi all’intervista che propongo a seguire.
La prima riflessione spontanea mi ha portato a pensare che se questa “opera rock”, “PTAH”, di “PHAEDRA”, fosse stata scritta e proposta nei primi anni settanta, sarebbe oggi considerata una pietra miliare del rock italico, e forse qualcosa di più.
Spesso rivalutiamo e osanniamo lavori che un tempo accantonavamo con la giustificazione della clonazione anglosassone, e questo album, che ovviamente contiene le contaminazioni che fanno parte della cultura di ogni musicista, è qualco
sa di estremamente completo, curato e sicuramente “antico”, quasi fuori dal tempo.
Antico come la musica di J.S. Bach, di Robert Johnson, dei Genesis (similitudine, ovvio, non termine assoluto).
Antico, nella mia mente, non si traduce con “ vecchio o superato”, ma con “valore duraturo”.
Non ero più abituato a questa completezza prog (tutto
ora viene spacciato per sottofamiglia prog, ma non so secondo quale concezione), a un lavoro a così ampio respiro, che per diventare totalizzante richiederebbe la fermatura del cerchio, e cioè una rappresentazione teatrale ( se non è già stata realizzata).
Partiamo dal contenuto, incentrato sulla condizione u
mana, argomento che non rappresenta certo una novità, ma trattato in maniera talmente originale che le immagini musicali, unitamente ai testi, provocano l’immediata creazione di un film virtuale che scorre nella mente di chi ascolta i quasi settantacinque minuti di proposta musicale.
PTAH (nella mitologia una divinità egizia, patrona de
lle arti e delle professioni) è il protagonista dell’opera, colui che è assunto come simbolo, come primo esempio di uomo, una sorta di mediazione tra la spiritualità di chi tutto può e il materialismo conosciuto (e mai sconfitto) caratteristico della condizione umana.
Davanti ai suoi occhi soprannaturali scorre il dram
ma di ogni uomo, in qualunque era egli abbia vissuto.
C’è la vita, la pianificazione, la costruzione, le lotte, la violenza, l’invidia, la distruzione il buio totale. Passano gli anni, scorrono i secoli, ma “noi” ci riproponiamo monotonamente sempre allo stesso modo, incapaci di godere di ciò
che ci viene donato e, poco lungimiranti, inclini all’autodistruzione.
E il dolore dell’immortale Ptah risiede nell’immensa frustrazione derivante dal non avere un timone in grado di invertire la rotta, cercando nuovi e sereni lidi.
Ptah possiede ciò che gli uomini non possiedono, ma la sua voglia e la sua capacità di incidere sul futuro vanno a scontrarsi con chi rifiuta tale aus
ilio, incredulo che ciò possa accadere a lui: anche i problemi più complessi possono trovare soluzione, se esiste una volontà comune di risolverli, ma è facile accorgersi, nel quotidiano, quanto questo sia contrario alle normali pratiche di vita, nonostante esista da qualche parte un Ptah, (Dio, Budda o chissà chi), che forse può solo osservare e … attendere.
In questa attesa vedo la speranza, e quindi mi piace immaginare un finale a lieto fine, nonostante la tragedia, perché le speranze devono
superare le condizioni del momento, e in fondo tutti aspiriamo a una vita diversa, magari non basata sulla felicità perpetua, ma sicuramente serena:
” … la verità non portò ad una nuova epoca di prosperità, ma ad un periodo di attriti prima, di odio poi ed infine la guerra. Quella guerra Totale e Definitiva che Ptah, di nascosto da tutti, era riuscito fino a quel momento ad evitare. Ma ormai non aveva più alcun potere sull’Uomo.
Ancora una volta fuggì alla follia distruttiva del suo pupillo, sconsolato e deluso.
E attese. Attese a lungo, come solo lui sapeva
fare…”


E veniamo alla musica.
PTAH ha avuto lunghissima gestazione e, grazie al susseguirsi delle performance dal vivo durate anni, l’album ha seguito diversi momenti di affinaggio, con modifiche (suscitate anche dalle reazioni dell’audience) tese alla ricerca della piena soddisfazione (anche se credo che ad ogni rilettura esistano i presupposti per un ulteriore miglioramento).
Ma notevole importanza sul risultato finale è derivata dalla “maturazione” della line up (otto gli elementi attuali) divenuta prettamente di stampo classico/acustico.
Violini (due), flauto, mandola, chitarra a dodici corde, si uniscono agli strumenti più tradizionalmente rock, ma danno la vera impronta prog, almeno secondo i miei crismi.
Non è importante appartenere a una categoria universalmente riconosciuta, ma è da evidenziare l’estrema qualità di questo “prodotto” e inquadrare il genere musicale può essere un aiuto per chi è tentato di avvicinarsi a PHAEDRA.
Ho riconosciuto in PTAH tutta la mia musica più cara, miscelata, contaminata e proposta in modo originale.
Molti i brani strumentali, utilizzati come “traghetto” tra una lirica ed un’altra, ma straordinariamente in tema con il messaggio.
Prendiamo l’esempio della contrapposizione di situazioni, “La costruzione di Atlantide” e “Atlantide distrutta”. Se è vero che il significato è racchiuso nel titolo stesso, e può quindi essere condizionante, ho trovato, ascoltando ad occhi chiusi, le immagini della crescita, pietra su pietra, di un continente, una città, un paese, mentre le note successive mi hanno fornito la fotografia della “composta” (forse perché scontata) distruzione.
Amo l’utilizzo di strumenti “folk” nel rock e trovo che l’unione dei due generi, con spolveri di “classico”, sia una miscela di completa soddisfazione.
Potrei citare tanti esempi di icone (almeno mie) musicali che ho ritrovato in PTAH, dagli YES ai Jethro Tull, ma sono ovvie, e preferisco fornire una similitudine un pò azzardata, che potrebbe sembrare “profana” e riguarda il vocalist, Claudio Granatiero, e il suo metodo interpretativo, un misto di “corredo personale, impostazione didattica ed esperienza. Ho ritrovato tracce di una ex grande voce (secondo il mio modesto parere), persasi nei meandri della superficialità e della musica commerciale.
Sto parlando di Alan Sorrenti, che ci ha regalato uno degli album più “innovativi” degli anni settanta, che è “Aria.
Mi riferisco ad atmosfere affini e non a timbriche vocali.
A quei tempi Alan, non ancora figlio delle stelle, ma compagno di viaggio dello sconosciuto Dave Jackson, rappresentava il coraggio e la sperimentazione, vocale e compositiva, poi tutto perso nello spazio di un fazzoletto temporale.
Granatiero, tra l’altro realizzatore del fantastico libretto dell’opera, mi ha riportato al feeling vocale di “Vorrei incontrarti”, e spero che l’immagine positiva di “quel Sorrenti” non sia stata distrutta da facili luoghi comuni.
Qualche altra nota al contorno.
Ho visitato il sito di PHAEDRA,
http://www.phaedramusic.it/, e l’ho trovato fantastico.
Lo sottolineo sempre, quando accade( ricordo di essere rimasto strabiliato da quello di Corrado Rustici) perché contribuisce a fornire l’immagine del gruppo e, se è anche funzionale, aiuta davvero a comprendere l’ideologia di una band.
Ho trovato anche essenziale la lettura del libretto dell’opera, in assenza del quale si perderebbero molte sfumature e molti significati, non sempre decodificabili dalle semplici liriche.
E’ un peccato però (come spesso accade) che il book all’interno del CD non sia facilmente leggibile( mi riferisco alla parte esterna, illustrativa).
Concentrare tanto materiale in poca superficie e mantenere la chiarezza è cosa impossibile, ma forse lavorare sui contrasti di colore ( o sui caratteri) per evidenziare la parte scritta potrebbe essere uno spunto di miglioramento.
Un album a mio giudizio fantastico … direi a tratti didascalico, tra letteratura, musica, teatro e storia … e se io fossi un professore di scuola non esisterei a provocare qualche interattivo … giudizio d’ascolto!





INTERVISTA
La prima cosa che mi ha colpito leggendo le note oggettive è che questa opera prima ha avuto lunga gestazione e avete cercato numerosi test sul campo, prima di iniziare le registrazioni. Tutto questa significa cura dei particolari … ricerca della perfezione … necessità di “sfruttare” le indicazioni del pubblico, o esistono anche problemi pratici legati alla ricerca di qualcuno che credesse in voi e vi permettesse la realizzazione di quello che suppongo sia un sogno? Entrambe le cose che citi. Abbiamo provato dal vivo i brani durante la fase compositiva per testarli e capire come “giravano” gli arrangiamenti, che talora abbiamo modificato in virtù di un risultato più consono al prodotto musicale. Poi, mentre registravamo, ci siamo messi alla ricerca di una etichetta che fosse interessata al nostro lavoro pur essendo consci della difficoltà; la ricerca è risultata vana ed abbiamo deciso per la autoproduzione che presenta non poche difficoltà pratiche, ma un maggiore controllo sul proprio materiale. Ecco perché sono trascorsi diversi anni dalla fine della fase compositiva.

Mi riallaccio alla precedente domanda.
La vostra, che piaccia o non piaccia, è musica di estrema qualità, che richiede tempo per la realizzazione, e sforzi inimmaginabili, da ogni punto di vista.
Riuscite a essere tolleranti (io da musicofilo non lo sono!)con chi arriva al successo con una canzonetta da tre minuti, che potrebbe scrivere chiunque ne avesse il coraggio (non riesco a dimenticare l’incubo di “Arisa”)? Come vi ponete davanti a trasmissioni come “X Factor” o “Amici”?
Ti ringrazio per i complimenti! il nostro obiettivo non è quello di essere perfezionisti o maniacali, ma di rendere al meglio l’idea musicale che abbiamo in testa. Riguardo alle canzonette non me la sento di essere troppo critico nel senso che ogni mercato ha la sua musica e cerco di rispettare tutti, sebbene magari un genere non mi piaccia per nulla. Riguardo ad alcune trasmissioni citate da te, ritengo che possano essere un palcoscenico per tante persone speranzose che ci credono, ma possano anche essere “pericolose” quando fanno credere ai giovani che per emergere e aver successo non serva l’impegno, lo studio e il sacrificio, ma tutto sia affidato al Fato benevolo!

Un opera rock è cosa “d’altri tempi”, quei tempi che forse stanno ritornando, in sordina, a galla. Che cosa vi ha spinto a intraprendere il viaggio del concept album? Che cosa affascina di una musica con un unico filo conduttore?
L’idea iniziale partì dal fatto che alla fine degli anni novanta eravamo stufi di comporre brani a se stanti e slegati fra di loro. Volevamo raccontare qualcosa che potesse fare riflettere, e la condizione dell’UOMO nelle sue varie sfaccettature ci sembrò una buona idea … almeno all’epoca. Certo non diciamo nulla di nuovo; è stato fatto tante volte in passato, ma ognuno l’ha raccontato in maniera differente. In fin dei conti è la “nostra” storia, quella di tutti noi, l’Umanità. Rispetto alla nostra vecchia formazione classica degli anni novanta ( basso, batteria, chitarra, tastiere), il cambiamento peculiare è stato l’inserimento dei violini, flauto traverso, mandola, mandolino, strumenti acustici che ti consentono di avere un range più variegato, sia come frequenze che possibilità di arrangiamento; certo il nostro sound ora, rispetto ad un tempo, è meno prog nel senso comune ( Yes, Genesis), ma al momento a noi va bene così.

Qual è il profondo significato di “PTAH”?
PTAH era il patrono delle arti e delle professioni; inizialmente però il nome fu preso come un personaggio simbolo e non specificatamente riferito alla cultura egizia; è il protagonista dell’opera ma incarna sostanzialmente il prototipo dell’UOMO, con i suoi timori, suoi conseguimenti, i suoi sentimenti conflittuali, le sue speranze, E’ una storia ambiziosa e disillusa, con diverse chiavi di lettura, da quella immediata, fantastica, a quella metaforica.

Che cosa vuol dire per voi esibirvi dal vivo? Quanto è importante ( escludendo la fase di test del “prodotto”) il contatto diretto col pubblico?
Il proporsi dal vivo non è per tutti i musicisti un momento fondamentale. Taluni ( anche famosi) producono solamente dischi e temono il contatto col pubblico. Per i gruppi come il nostro il momento è importante ma non essenziale. Personalmente amo il contatto con il pubblico per via del fatto di riuscire a trasmettere le emozioni o sensazioni attraverso la musica. Non puoi pensare, nel nostro caso, di avere delle folle adoranti perché il genere musicale è più riflessivo e per nulla danzereccio, ma la sfida è proprio questa: quante persone riesci ad interessare o portare a pensare con la tua musica ?

La vostra musica, e gli strumenti che adottate, riportano al classico e a strutture musicali complesse. Esiste nel gruppo un’anima di puro rock, che in alcuni momenti, magari di relax, esce allo scoperto?
Beh, certo. A parte i musicisti di estrazione classica, alcuni di noi ( io in primis) veniamo dal rock con tanti anni di esperienza di palco in gruppi blues, soul, hard; d’altra parte le ritmiche che senti nel disco sono quasi sempre frutto della sezione basso–batteria. Credo che il difficile nel nostro sound sia proprio fare andare d’accordo la parte più eminentemente rock con quella classica o folk.

Immagino che le vostre influenze non si possano ridurre a un solo nome del passato, ma se proprio doveste dare il primato della perfezione prog anni settanta, su chi puntereste il dito?
Personalmente vorrei citare i Gentle Giant, che considero il migliore blend di generi e stili. Il rischio in questo caso è di eseguire una accozzaglia di generi senza né capo né coda, come spesso accade e si ascolta in certi dischi, ma i Gentle Giant erano dei maestri, non solo nell’utilizzo degli strumenti, ma anche nel sapere fondere influenze diverse con grande sagacia senza apparire mai eccessivi o ridondanti. Il difficile è propri riuscire a fare piacere una musica anche quando è complessa, e loro ci riuscivano benissimo !

Ho sempre sostenuto che la musica progressiva si possa paragonare a quella classica, nel senso che esistono difficoltà di composizione, realizzazione e ascolto e, soprattutto, è qualcosa di immortale. Ma dal mio punto di vista c’è molto di più da dire. La musica di Genesis, YES, Gentle Giant, Van der Graaf, King Crimson, Pink Floyd, Jethro Tull, per citare solo alcuni gruppi, è qualcosa di unico, riconoscibile e incomparabile: loro hanno inventato qualcosa che prima non esisteva. Siete d’accordo su questo e … nel l’ambito del vostro lavoro vi ponete anche l’ambizioso traguardo di creare qualcosa per qualche aspetto unico o lo ritenete fatto frustrante e utopistico? Certamente i gruppi che citi hanno reimpostato i canoni della musica rock apportando influenze varie. Il pensare di creare qualcosa di nuovo per quanto ci riguarda sarebbe un pochino pretenzioso da parte nostra; ci interessa però riuscire ad esprimere quello che desideriamo attraverso la nostra musica, con la nostra strumentazione particolare, con il nostro modo di arrangiare i brani, che magari col tempo potrebbe anche divenire riconoscibile. Una peculiarità nostra, per esempio, è l’assenza del ruolo titolare di chitarrista, pur essendo in otto musicisti; eppure chitarre ce ne sono nel nostro disco; questo significa che abbiamo, per così dire, ”abolito” il chitarrista solista , cercando invece di lavorare sulle composizioni.

Che tipo di alchimia unisce il vostro gruppo? E’ necessario un perfetto accordo umano o è cosa superflua per chi è professionista?
Per chi è professionista potrebbe anche essere superfluo, ma nel nostro caso una alchimia ci deve essere e passa anche da una comunanza di ascolto e pratica musicale; inoltre quando sei in fase compositiva riesci a essere sulla stessa linea con una o due persone al massimo. Nel nostro caso non è che ci si mette tutti assieme e si “sparano” note; evitiamo l’improvvisazione, ma si lavora su qualche traccia, idea, spunto, arrangiandolo gradatamente. Si lavora molto ” a casa” ; ognuno si scrive delle parti e si mettono a confronto nella fase “gruppale” fino all’arrangiamento finale.

Quanto condiziona la vita privata/familiare un impegno musicale come il vostro? Non essendo più dei ragazzini è evidente che abbiamo bisogno di molto tempo per fare quadrare le cose; inoltre la maggior parte di noi ha anche altri gruppi musicali di vari generi. I tempi per tanto si allungano per realizzare i nostri progetti, ma cerchiamo di non fare le cose in fretta, piuttosto lente ma soddisfacenti.

Non amo molto le etichette e le collocazioni musicali, anche se sono utili per inquadrare le differenti situazioni, e in ogni caso chi si esprime attraverso la musica non decide di appartenere ad una specifica categoria ma “regala” la propria cultura e il proprio credo, nel modo a lui più consono. Come sintetizzereste la vostra musica per facilitare il lavoro di chi si avvicina a “PTAH”? Sono perfettamente d’accordo con te sul fatto di non categorizzare troppo. Le codificazioni avvengono sempre ex post. Non credo che i Moody Blues, all’inizio della carriera, suonassero con un certo stile al fine di essere inquadrati nel genere progressive! Pur tuttavia, nel frastagliato mondo musicale odierno, devi essere “inquadrato” e riconoscibile per motivi pratici e commerciali. Quindi a noi non dispiace se veniamo inclusi nel filone progressive rock, sebbene si tratti di una categoria che ingloba decine di varianti e sottogeneri difficilmente confinabili. Nel nostro caso credo si trovi una forte tradizione italica sia per le melodie sia per l’utilizzo degli strumenti e della lingua stessa, a fianco di forti influenze classiche e folk innestate su matrici rock. Non saprei sintetizzare con un unico termine.

Che cosa ci potrebbe essere dopo un’opera rock… come immaginate il vostro futuro professionale?
A dire il vero ne abbiamo già parlato e a breve dovremmo riprendere la fase compositiva. Non credo che ci discosteremo molto da questo stilema. Non riusciamo più a pensare di dover scrivere brani che siano slegati fra di loro, vale a dire canzoni a se stanti, e non so se questo sia un limite o un pregio. Il fatto di utilizzare una idea concettuale ti autorizza pure a comporre musica in maniera più omogenea, a nostro avviso. Credo che sia un percorso inevitabile dopo anni di frequentazione di gruppi musicali.

Un’ultima domanda. Siete felici … musicalmente parlando?
Sì, fondamentalmente ci sentiamo “felici”, sebbene ancora oggi nell’ ascolto di PTAH riscontriamo piccoli errori o difetti di cui noi siamo bene a conoscenza, avendoci lavorato per parecchio tempo. Siamo convinti però che alla fine siamo riusciti a rendere discretamente bene l’idea iniziale, musicale e lirica, grazie anche al notevole lavoro di mix e mastering da parte di Marco Olivotto della LOL Productions.


PHAEDRA: biografia e info

Il gruppo musicale PHAEDRA nasce a Pergine (TN) nel gennaio del 1993. Il complesso in breve tempo allestisce un repertorio di cover di classici del genere rock progressivo (Genesis, Yes, Rush etc.) con il quale si esibisce in teatri e manifestazioni all’aperto.
Nel 1995 la band comincia anche a dare vita a brani di propria produzione che sono riuniti in un cd-demo autoprodotto. Le apparizioni più significative arrivano in eventi come Musikadine, Genesis tribute e diverse selezioni per concorsi nazionali; nel settembre 2000 PHAEDRA si propone con una nuova formazione con l’intento di comporre brani in italiano legati da un tema concettuale.
Nel 2002 il gruppo si presenta alla X edizione di Concentratissimo rock, rassegna musicale della provincia di Trento e vince come miglior gruppo originale proponendo un estratto di brani dall’opera rock PTAH, che è stata presentata nella sua interezza nel corso degli ultimi quattro anni.
L’opera rock PTAH è stata spesso presentata in anteprima dal vivo e nel corso degli ultimi anni i Phaedra hanno autoprodotto cd dal vivo, vhs e Dvd con esecuzioni live di PTAH e brani inediti. Affidatisi alle cure dell’ingegnere del suono Marco Olivotto – titolare della LOL Productions – e fondata la casa discografica Phaedra Music, i Phaedra pubblicano ufficialmente il cd PTAH il 19 gennaio 2010, con un affollato showcase di presentazione a Pergine. Nell’evento di presentazione annunciano anche la loro partecipazione ad un imminente disco di tributo internazionale alla popolare progressive band svedese dei
Flower Kings.

Info:
www.phaedramusic.it
www.myspace.com/phaedramusic

ATTUALE FORMAZIONE :

- CLAUDIO BONVECCHIO: basso, chitarra 12 corde, voce
- MATTEO ARMELLINI: batteria
- STEFANO GASPERETTI: tastiere, chitarre acustica, elettrica e classica, mandola
- CLAUDIO GRANATIERO: voce solista e libretto dell’opera
- DAVIDE TABARELLI: tastiere dal vivo
- ELISABETTA WOLF: violino
- ANTONIO FLORIS: violino
- FABRIZIO CRIVELLARI: flauto traverso

sabato 25 settembre 2010

Quintessenza


QUINTESSENZA

Biografia

La band toscana si forma nel 1995 con il nome di X-Rated in un vero e proprio garage, con lo scopo di suonare brani originali mischiandoli a cover di Pearl Jam, Nirvana, Guns n’Roses ed altri gruppi “in voga” in quegli anni. Dopo breve tempo, agli inizi del 1996, si aggiunge Gabriele alle chitarre, il gruppo cambia nome e continua a comporre (all’epoca in inglese e sullo stile dei gruppi già menzionati) e suona per i locali della zona iniziando pian piano a riscuotere i primi veri applausi per alcuni brani originali; cambia ancora formazione e nome fino a quando a cavallo fra il 1997 ed il ’98 incide un primo demo-cd dal titolo Q, il primo lavoro sotto il nome di Quintessenza. Si tratta per lo più di rock all’italiana, con influenze che venivano da band nostrane come Negrita, Litfiba, Timoria ed altri, ma già all’interno di alcuni brani si iniziava ad affacciare la propensione per qualcosa di diverso, di più costruito armonicamente e melodicamente, di più “progressive”.

Nel 1999 nasce il progetto Venere, il primo demo cd che la band registra interamente in studio impiegandovi una decina di giorni, che è stato un po’ il battesimo al progressive rock/metal per i Quintessenza. Lavoro, si è detto, forse non assolutamente privo di influenze evidenti (talvolta si è parlato quasi di “citazioni” da altri gruppi come i Dream Theater) ma di buona fattura e ben suonato, un bel primo biglietto da visita insomma. Nel 2003 subentra nel gruppo un nuovo elemento, Alessandro Santoni, che sostituisce Federico dello Sbarba alle batterie e porta all’interno del gruppo una ventata di creatività ed entusiasmo che evolve nella stesura ed incisione (nel 2004) di Pharmakon, una sorta di avvicinamento del gruppo ai concept album tipici del progressive con una nota di colore stavolta meno dipendente da band contemporanee ma che deve di più al progressive del passato. Si pensi all’utilizzo del Chapman Stick suonato da Federico Razzi già in precedenza molto legato allo stile dei King Crimson.

La parentesi però si chiude abbastanza in fretta, quando per differenti vedute il gruppo torna sui suoi passi riaccogliendo Federico dello Sbarba alla batteria. La voglia di suonare progressive però non è passata, anche se si ripresenta la grinta del metal nella composizione e nell’arrangiamento dei brani. Nasce così nel 2006 Cosmogenesi, un vero e proprio concept album sul quale il gruppo lavora appena qualche mese, impaziente di inciderlo e cercare un primo contratto discografico. Le aspettative vengono addirittura superate in quanto l’etichetta discografica (Videoradio) si presenta prima della fine delle registrazioni di alcuni dei brani di Cosmogenesi, offrendo un contratto non vincolante al gruppo e lanciando Cosmogenesi nei negozi e sulle riviste tra dicembre 2006 e gennaio 2007. Le recensioni fioccano e l’album piace molto.

Dopo la seconda uscita dal gruppo di Federico dello Sbarba, la band attraversa un periodo difficile nel quale non compone, non suona e non prova, ma è alla costante ricerca di un nuovo batterista che trova solo alla fine del 2008 in Francesco Bruchi. Con lui, rinvigoriti di nuovo spirito compositivo, iniziano le stesure del concept album Nei Giardini di Babilonia, lavoro stavolta interamente autoprodotto che è costato un anno tra composizione, arrangiamento, registrazione ed editing e che ha visto la luce nel settembre del 2010.

Qui decisamente si può parlare di concept: si tratta di un’ora di materiale che si intreccia tra narrazione e musiche, recitazione e canto, collaborazioni (tra le quali Elena Alice Fossi dei Kirlian Camera) ed aggiunta di strumenti classici come il flauto traverso. Insomma, un disco tutto da ascoltare senza la paura di annoiarsi.


Formazione:

Gabriele Moretti: chitarre

Diego Ribechini: voci

Federico Razzi: basso e Stick

Filippo Fantozzi: tastiere

Francesco Bruchi: batteria e percussioni


Discografia:

Pharmakon (autoproduzione, 2004)

Cosmogenesi (Videoradio, 2006)

Nei Giardini di Babilonia (Quintessenza, 2010)

Info web:

www.myspace.com/quintessenza


http://www.myspace.com/synpress44
Skype: synpress44
E-mail: synpress44@yahoo.it - synpressinfo@gmail.com

venerdì 24 settembre 2010

CAN: Sempre avanti rispetto alla musica popolare contemporanea...



Sempre avanti rispetto alla musica popolare contemporanea...

i Can è stato un gruppo di rock d'avanguardia attivo negli anni settanta.
Sin dall'inizio la loro musica non è conforme a nessuno dei canoni del rock'n'roll e neanche a quelli della controcultura.
I Can sono influenzati dalla musica classica contemporanea del ventesimo secolo e gli artisti più affini sono Frank Zappa e i Velvet Underground, ma la loro musica e più seriosa e meno accessibile.
Invece di registrare pop o brani satirici, i Can sperimentano con il rumore, i sintetizzatori, la musica non tradizionale, le tecniche di copia-incolla e soprattutto la musica elettronica.
Ogni album segna un significativo passo oltre il precedente, esplorando nuovi territori che non interessano alle altre rock band.
I Can debuttano nel 1969 con “Monster Movie”, l'unico album con il vocalist americano Malcolm Mooney.
Soundtracks”, del 1970, presenta il cantante giapponese Kenji 'Damo' Suzuki e contiene 'Mother Sky' una delle più note composizioni del gruppo.
Con il doppio album del 1971, “Tago Mago”, i Can diventano visionari e fanno a pezzi le forme canoniche della musica pop per esplorare lunghe improvvisazioni, ritmi spigolosi e tessiture sperimentali.
Ege Bamyasy”, del 1972, raffina l'approccio e incorpora una nuova sensibilità jazzistica.
Future Days”, dell'anno successivo, è il canto del cigno di Damo Suzuki e viaggia ulteriormente nel minimalismo e in territori quasi ambient. Nel 1974, con “Soon Over Bamalooma”, i Can ritornano su terreni più complicati. ”Unlimited Editions” (1976) e “Saw Delight” (1977), sono altrettanto irrequieti e introducono un ampio spettro di musiche etniche.
Quando la band si scioglie nel 1978, dopo il successo dell'album “Flow Motion”, lascia un repertorio sorprendentemente innovativo.


Filosofia di vita di Damo Suzuki

Creo il tempo e lo spazio del momento con sound carrier locali, il che vuol dire che viaggio sempre da solo.
Ho diversi sound carrier e anche la musica è diversa.
Il mio network è ovunque e il suo fine è imparare a condividere l'energia.
Questo è il mio antidoto alla violenza.
Componiamo brani musicali sul momento e il metodo si chiama 'composizione istantanea' ed ogni volta è una nuova esperienza per i carrier sul palco e per il pubblico.
Ho una rete di sound carrier in tutto il mondo e il mio tour è il NEVER ENDING TOUR.
Ogni anno suono con 400 musicisti diversi in cinque continenti.
Nuovo e vecchio non riguardano la creazione della musica. C'è solo buona musica e cattiva musica.
Quello che faccio è molto casuale e non è paragonabile a nulla.
Do molto peso al processo creativo e nessuno al prodotto.
Serviamo un menù giornaliero per un pubblico di mentalità aperta a cui piaccia viaggiare con la testa.
Molte persone hanno bisogno di risposte e il prodotto è la risposta.
Mangiare prodotti o ascoltare prodotti non è come mangiare cibo appena cucinato.
Se si ascolta musica composta in precedenza si ascoltano solo band che si copiano a vicenda, notte e giorno e che cantano le stesse tessiture per anni e anni.
E' come fare banale turismo: vai a Parigi e c'è quella famosa torre, vai a Londra e c'è il Big Ben e ti fai delle foto davanti a quei posti.
Non ci sono vere esperienze personali: le persone fanno le solite cose perché ci sono altre che le hanno comprate e perché va di moda.
La gente è controllata dal capitalismo e dal materialismo: gli insegnamenti del diavolo.
Non ho bisogno di nessuna risposta. Ho abbastanza tempo per vivere e per creare.
Non mi piace essere uno schiavo del tempo e dei pensieri materiali. Tutta la natura è un processo creativo e non raggiunge alcun risultato. Quindi è senza tempo. Si sviluppa e sviluppa e non finisce mai.
Gli umani hanno bisogno di risposte perché hanno paura di non raggiungere alcunché e di non avere cose materiali nelle loro breve vita, ma questo non li aiuta.
Nasciamo e moriamo nudi, non possiamo portare le cose con noi. Mi posso sviluppare in tantissime direzioni diverse, quindi non ho tempo di limitarmi ad una singola cosa e lascio che le cose vadano, come succede naturalmente.
E' molto meglio vivere così: non c'è stress e si può sentire il respiro della natura e capire come vivere in sintonia con essa.
Perciò non smetterò mai di creare il tempo e lo spazio del momento. Mi faccio amici ovunque e la volta successiva che vado a trovarli la loro casa è la mia casa.
Quindi ho case ovunque. Di cos'altro ho bisogno?

Paperhouse





Gianni Leone ricorda Irma Serrano




Gianni Leone mi ha cortesemente inviato un suo ricordo di Irma Serrano, "immagine" che riporto fedelmente.

Aprile 2009

Mi è appena giunta da Città del Messico la notizia che Irma Serrano è stata arrestata e addirittura messa in galera per un giorno, prima di passare agli arresti domiciliari. La ragione? Avrebbe fatto cambiare la serratura del suo teatro, il Fru-Fru, per impedire a una compagnia teatrale di continuare ad esibirsi, chissà per quale ragione. Inoltre, pare siano stati rubati da ignoti costumi e scenografie costose di proprietà degli attori, che hanno denunciato lei in quanto proprietaria del teatro. La Serrano, però, declina ogni responsabilità.


Ricordo con piacere i tre concerti che feci col Balletto di Bronzo proprio al Fru-Fru nel periodo fra settembre e ottobre 2006.

Luogo incredibile: uno splendido teatro degli Anni '20 situato nel centro storico di Città del Messico e restaurato di recente, nello stile e nei decori molto ispirato al periodo della Belle Epoque. Tutto stucchi, marmi, specchi, statue, palchetti dorati con lampadari di cristallo, poltrone in velluto rosso, affreschi nei camerini... un vero gioiello, anche se innegabilmente un po' kitsch.


Con tanto di fantasmi inclusi. Sì, proprio così. Ci fu raccontata con molta serietà la storia di due ballerine che negli Anni '30 furono uccise nei bagni del locale e dei loro fantasmi che da allora si aggirano fra quelle mura. Qualcuno ci ha mostrato anche delle foto scattate durante i nostri concerti con degli strani aloni bianchi dietro di noi, assicurandoci: "Vedete? Sono loro! Erano con voi sul palco durante i concerti!"...


Magari! La cosa mi avrebbe divertito molto. Invece in una delle foto io stesso sembro una specie di fantasma, ma per un banale effetto ottico... La proprietaria di questo teatro è, appunto, Irma Serrano, cantante-attrice messicana, una vamp truccatissima e a dir poco appariscente, sempre accompagnata da giovani amanti di bell'aspetto (of course), una specie di Mae West. È stata anche senatrice del Chiapas nonché l'amante di capi di Stato. Insomma, è una vera diva in Messico. Ricordo che una sera dal palco le inviai i miei saluti e ringraziamenti, facendo anche una battuta: poiché il suo soprannome è "La Tigresa", auspicai un incontro con..."El Leòn"!... Tutto il pubblico a ridere. Qualcuno le riferì il fatto, e lei da Acapulco, dove era in vacanza con il giovane amante di turno, mi inviò una sua grande foto con dedica: "Para mi amigo Gianni Leone agradeciendo el estar en my teatro FRU-FRU. Irma Serrano" (Al mio amico Gianni Leone la mia gratitudine per essersi esibito nel mio teatro...). Che piacevole sorpresa! Personaggi del genere, così vitali, mi affascinano molto. Da giovane era una bellezza davvero muy caliente. Oggi, per l'età ma soprattutto a causa di azzardati interventi chirurgici al viso, purtroppo non lo si può più dire. Però, ce ne fossero di persone pimpanti come lei! La prossima volta che andrò in Messico, cercherò davvero di far organizzare un nostro incontro.

Gianni

Guardate questo omaggio alla Serrano con sottofondo di (immonda) canzonetta...





giovedì 23 settembre 2010

In ricordo di Maria Carta


Sedici anni fa, il 22 settembre del 1994, ci lasciava Maria Carta.
Faceva parte di un mondo e di una cultura che non conosco, ma istintivamente la collego al mio ex compagno di scuola Andrea Parodi, cantante, anche lui scomparso, dei Tazenda

Ho anche un'altra immagine di Maria, quella legata al mito giornale Ciao 2001, su cui l'avevo vista da adolescente.
In rete ho trovato le seguenti note:

Nata a Siligo (Sassari) raggiunse la popolarità grazie alle sue esecuzioni di canti tradizionali sardi eseguiti senza eccessivi criteri di fedeltà filologica, basandosi sui suoi mezzi vocali fuori dal comune. Col tempo però passò da semplice riproduttrice di canti tradizionali ad interprete finissima ed innovativa. Ha potuto così raggiungere un pubblico molto vasto contribuendo a una generale riscoperta e valorizzazione del patrimonio tradizionale sardo - ninne nanne, gosos, canti gregoriani - da lei rispolverato e rivitalizzato, anche se il puntare sulla gradevolezza dell’esecuzione allontanava Maria Carta dall’originaria espressività popolare sarda, assai più aspra e dolente di quanto non compaia dalle sue esecuzioni. La passione per il canto nacque fin dalla primissima infanzia quando cantava la messa nella parrocchia del paese. Nel 1958 si trasferì a Roma e perfezionò il suo lavoro di ricerca sul patrimonio sardo, frequentando il Centro studi di musica popolare, presso l'Accademia Santa Cecilia. L'attività artistica cominciò a metà degli anni '60 quando Maria Carta si esibì al Folkstudio di Roma, presentando alcune sue personali elaborazioni dei canti sardi. La sua produzione discografica comprende oltre dieci LP. Da segnalare i canti tradizionali e religiosi raccolti nell'album Dies Irae, i canti politici italiani, spagnoli e sardi rivisitati nell' album Vi canto una storia assai vera del 1976 e soprattutto i due volumi di Sonos e memoria, editi dapprima in Francia nel 1981 e infine anche in Italia, su iniziativa della stessa cantante sarda.

Maria Carta ha portato i canti della sua terra in tutto il mondo: dal festival di Avignone del 1980 alla cattedrale di San Patrick a New York nel 1987, dalla cattedrale di St. Mary di San Francisco nel 1988 all'America Latina. Altri concerti di rilievo si segnalano nella cattedrale cattolica di Amburgo nel 1989, nella basilica di S. Severin, all'Olympia ed al Theatre de la Ville di Parigi, durante le tre stagioni teatrali che vanno dal 1986 al 1988. Nel 1993 Maria Carta ritornò un po' a sorpresa alla ribalta con Le memorie della musica, album intenso a tratti anche malinconico in cui è comunque sempre presente il riferimento al mediterraneo ed alla sua Sardegna. Per promuovere il disco, anche a dispetto delle pessime condizioni fisiche intensifica la sua attività concertistica. Il culmine si registra il 26 agosto alla fiera di Cagliari davanti a duemila persone in una kermesse in suo onore che vede sul palco alcune delle migliori espressioni della musica sarda legata al recupero della tradizione - Cordas e Cannas, Càlic, Bertas, Tenores di Bitti e Neoneli, Tazenda, Luigi Lai, Duo Puggioni). Maria Carta ripropose la vasta gamma del suo repertorio dai canti gregoriani alle ninne nanne, da Chelu e mare (accompagnata da Luigi Lai), a Sa dansa con i Tazenda, sino ad una versione "a cappella" di No potho reposare con Andrea Parodi.


mercoledì 22 settembre 2010

Carpenters


I Carpenters furono un duo musicale-canoro statunitense attivo tra gli sessanta e ottanta e composto dai fratelli Richard (n. 1946) e Karen Carpenter (1950-1983).

Attivi dal 1969 al 1983, anno della morte di Karen a causa delle complicazioni che fecero seguito a un’anoressia nervosa, i Carpenters ebbero il loro momento di maggior successo negli anni settanta, in cui riuscirono, in un periodo in cui si avvicendarono, come generi che andavano per la maggiore, il rock e il punk, a ritagliarsi una loro fetta di pubblico che ne fece uno dei gruppi dal più grosso successo commerciale del decennio.


Le loro canzoni figurarono spesso in testa alle classifiche di vendita, sia in assoluto, che in quelle di genere pop o easy listening; tra i maggiori autori che scrissero per loro figurano Paul Williams e soprattutto il duo Burt Bacharach/Hal David.

(Lastfm)





domenica 19 settembre 2010

"Preludio ad una nuova alba"- Marcello Capra


“Raccontare” un disco può essere fatto per diversi scopi, nella gamma che va dall’esercitazione alla professione.
Nel mio caso, il piacere è quello della condivisione, cosa su cui sono attivo su diversi fronti.
Amo esaltare le mie scoperte, così come sono felice quando ricevo nuovi stimoli che, nel campo musicale, non prevedono barriere anagrafiche.
Ma trovare le parole per descrivere la musica, avendo l’obiettivo di “spiegarla”, e non di far emergere la “penna d’autore”, è cosa ardua, da professionisti seri.
Io mi limiterò a dare qualche immagine derivante dal primo impatto, perché il mio feeling primario trova sempre delle conferme ad ascolti successivi.
Il comune denominatore che ho trovato in ”Preludio ad una nuova alba”, di Marcello Capra, è la capacità di fornire immagini e sensazioni . Sembrerebbe una cosa scontata, ma non sempre è così.
La musica, in alcuni casi, ripropone antiche scene già vissute, e spesso anche gli odori più caratteristici.
I brani che compongono “Preludio ad una nuova alba” mi sono arrivati come un racconto fatto ad amici dopo un viaggio a tappe fortunato, con un suono per ogni luogo toccato, e una cartolina per ogni porto, comprata e mai inviata, ma ora pronta alla diffusione tra intimi. Eh sì, non sono per tutti queste postcard , così come non è per tutti la musica di Marcello, fatta di emozioni, pictures e acrobazie da funambolo.
Nell’ intervista che Marcello mi ha rilasciato, ho evitato accuratamente di chiedere particolari relativi al suo CD, preferendo scoprire da solo i risvolti per me significativi, evitando condizionamenti , cercando piuttosto di soddisfare qualche curiosità sull’uomo /musicista, sul “chitarrautore”, come lui si definisce.

INTERVISTA

Hai vissuto gli albori del Prog, suonando in manifestazioni in cui erano presenti artisti che sarebbero diventate icone per gli appassionati del genere. Hai un ricordo/aneddoto significativo, positivo o negativo, che ti porti dietro da quei giorni?
I ricordi sono tanti, dal 70 al 73 ho frequentato palchi insieme a musicisti già molto conosciuti, PFM, BANCO, THE TRIP, ORME, OSANNA, tantissimi ritenuti “minori”come la mia band e molte altre del periodo, sono stati anni molto intensi, ricchi di prove, concerti, viaggi, incontri, notti bianche, giorni esaltanti ed altri in standby. Amo l’equilibrio, di conseguenza citerò un ricordo negativo ed uno positivo. Ho suonato per due mesi a Riccione,nell’estate 70, tranne un piccolo anticipo, non abbiamo ottenuto i nostri compensi, il gestore del locale è fuggito con la cassa, abbiamo dovuto pagare tutto il soggiorno in albergo e le altre spese. Quello positivo che in quella occasione, ho potuto conoscere quasi tutti i musicisti che transitavano nella zona, ci si vedeva tutti a fare l’alba in una pizzeria dopo i concerti, c’era un senso di allegra fratellanza, se le invidie erano gia’ presenti, io non me ne accorgevo, ci sentivamo parte di un movimento musicale alternativo alle proposte tradizionali.
Quando penso alla ricerca della perfezione tecnica ed esecutiva, relativamente ad una performance chitarristica, mi viene sempre in mente un vecchio articolo letto da adolescente su “Ciao 2001”, che raccontava di come Steve Hackett avesse impiegato 6 mesi per perfezionare l’assolo di “Firth of Fifth”. E’ questo un approccio “maniacale” o è la normale prassi utilizzata dai grandi chitarristi?
Non mi sento di “giudicare” le impostazioni e le scelte dei musicisti, ognuno deve fare quello che è più vicino alla sua sensibilità, cultura, fantasia, esperienze…. chi sono i grandi chitarristi ? Io penso siano quelli che dopo aver suonato tutto e di più, iniziano a ricercare un percorso stilistico personale, innovativo e geniale, se poi alcuni non hanno riscontri di “massa” puo’ dipendere dai media e dal businnes collegato, una dote dei grandi in generale è la tenacia, abbinata a una fervida immaginazione, non sempre queste doti sono premiate, soprattutto ora nella grande frammentazione.
Mi rifaccio ancora a un aneddoto legato al rapporto musicista strumento. Steve Howe ha raccontato di come agli inizi della sua carriera prenotasse, durante i tours, due biglietti aerei , uno per se e uno per la sua prima chitarra. Anche tu hai un rapporto simbiotico con una o più sei corde?
Assolutamente si! La mia guitar è il mio arco, fa parte del mio corpo quando la faccio vibrare sotto le mie mani, l’estensione della mia anima da 34 anni ormai, una delle prime Ovation Legend, è tuttora lo strumento che utilizzo maggiormente in pubblico, possiedo altre acustiche e non ho abbandonato la mia Les Paul De Luxe.
Come si è evoluto il businnes attorno alla musica, da 40 anni a questa parte?
Cosa ne so di businnes? Non mi sono mai interessato, ritengo che Arte e Cultura debbano essere diffuse con tutti i mezzi naturali (concerti) o tecnologici (web,radio supporti), non possiamo condizionare le scelte dei managers, perche’ le loro decisioni sono dettate dai più bassi istinti del mercato, tranne qualche “oasi” controcorrente.
Lo scorso anno, alla presentazione dell’ultimo album degli Osanna, ho sentito Lino Vairetti fare commenti benevoli su artisti presenti al Festival di Sanremo, legittimando la loro presenza con il largo seguito e ascolto, della serie … " se così tanta gente li segue è giusto che abbiano spazio”. Cosa pensi dell’easylistening?
Concordo con Vairetti sui commenti benevoli agli artisti presenti a Sanremo, perchè qualcuno vorrebbe eliminarli dalla scena? Se mai che cosa si è fatto per creare scenari alternativi? Provincialismo e sottocultura abbondano nei palinsesti delle reti nazionali, l’underground creativo è merce rarissima, mentre si punta molto al revival, sempre a guardare ai mitici anni 60/70, dovremmo ibernarci per qualcuno, io invece “cresco”.
Quando ero un adolescente, era d’obbligo la rigidità nei confronti della musica, e sembrava che tutti sapessimo cosa era giusto ascoltare e cosa no. Ora la mia unica distinzione è tra musica che mi “da qualche cosa” e musica che “non mi da niente”, e se Orietta Berti proponesse un brano gradevole non mi vergognerei ad ascoltarlo. E’ corretto inserire i differenti stili in categorie rigide, o esistono solo due tipi di musica…?
Esistono per me miliardi di musiche, già nell’utero materno “ascoltiamo”, purtroppo dopo smettiamo di farlo per i condizionamenti ambientali e culturali, la musica non si può inscatolare perchè come il vento arriva ovunque, ti può arrivare benessere o tempesta, inoltre la soggettività delle nostre esistenze ci puo’ differenziare nei gusti, se cerchiamo diversi “registri” allora possiamo allargare il nostro cuore e la mente.
Ti è capitato…. potresti …. scrivere un brano ispirato da un’immagine?
Le mie fonti ispirative sono molteplici e arrivano improvise, se un’immagine mi colpisce, puo’ nascere qualcosa, ad esempio ho visto a Praga un muro con ancora i graffiti di 42 anni prima, quando gli studenti esprimevano le loro angosce e speranze in quella primavera di risveglio sotto la dura repressione, se non ho un’emozione, difficilmente avrò uno stimolo creativo.
E ritorno alla musica.
Un disco (mi piace immaginare ancora il vecchio LP) dominato dalla presenza della chitarra non può prescindere dalla tecnica e dal virtuosismo, ma queste due caratteristiche, se isolate, potrebbero sfociare in un prodotto didascalico, e qui “ il cuore” fa la differenza.
Un viaggio dunque, da ascoltare almeno una volta da soli, magari in una stanza vuota, che improvvisamente si riempie di cose e significati e fornisce un tappeto volante per il “Preludio”, che conduce verso balli pieni di folklore “ ( Danza verde”, “Danza Turchese”, “Danza russa”), regalando uno sguardo ad un affetto (“Omaggio a Lulu”), combattendo in mari lontani (“Corsari”), bagnandosi di lacrime (“Gocce”) o di semplice mare(“Bassa Marea”), al suono di una chitarra un po’ pazzerellona (“Tipsy guitar”) che utilizza poche note(“La-sol-fa-mi”) per disegnare una nuova canzone (“Canto di mare”). E il vento caratteristico del nostro mare (“Vento teso”, “Tracce di mediterraneo”) delinea un nuovo e incerto futuro (“Presagio”), una nuova energia tutta da scoprire ("Aura")
Io l’ho vissuto così.






BIOGRAFIA

Nato a Torino nel 1953, Marcello Capra inizia il suo percorso artistico giovanissimo, in un tipico gruppo beat degli anni '60 chiamato Flash. Studia il contrabbasso al conservatorio di Torino e fonda il gruppo di rock progressivo dei Procession, con cui nel 1972 pubblica l'album Frontiera, presentato alla stampa con un concerto al Piper di Roma.
Con la band partecipa ai piu' importanti raduni pop dell'epoca, tra cui il leggendario Festival di Villa Pamphili a Roma nel 1972, dividendo il palco con nomi del calibro di Van Der Graaf Generator, Osanna e The Trip, quello di Gualdo Tadino (PG) con Le Orme e Banco Del Mutuo Soccorso e quello di Travagliato (BS) con il Rovescio della Medaglia.

Dopo lo scioglimento del gruppo, Marcello pubblica per la torinese MU il suo primo album solista dal titolo Aria Mediterranea (1978): accompagnato da un gruppo di validi collaboratori, Capra inizia a sviluppare quello stile chitarristico così personale e preciso che diventera' il punto forte delle sue proposte a venire. Subito dopo, inizia un periodo di grande attività e fermento: collabora dal vivo e in studio con i cantautori Enzo Maolucci e Tito Schipa Jr., partecipa in veste solista alla 1° edizione della rassegna Le Corde nel Mondo a Milano, affianca l'attrice cantante Raffaella De Vita nello spettacolo Canti e Voci di Raffaele Viviani, collabora musicalmente con il gruppo teatrale L'Invenzione e partecipa ai tour italiani di leggende dela musica acustica inglese come John Martyn e Dave Cousins.

A causa di un'inaspettata crisi personale, agli inizi degli anni '80 Marcello si ritira dalle scene. Per un lungo periodo si dedica a studiare la propria proposta creativa e si ripresenterà solo nel 1993: con il brano Combatpartecipa a Fafnir, compilation edita dalla milanese Kaliphonia. Nel 1994 pubblica per Mellow Records il CD Imaginations, che racchiude la ristampa di Aria Mediterranea e una serie di inediti eseguiti alcuni "in solo", altri con l'accompagnamento di alcuni ottimi musicisti della scena torinese. Nei primi mesi del 1997 registra nuovi brani di sua composizione da cui viene tratto il lavoro solista Danzarella, pubblicato dalla Toast Musique nell'aprile del '98. Questo lavoro dimostra la notevole maturità raggiunta dall'artista, e il suo amore per una certa tradizione sonora che non lede, ma arricchisce la sicura modernità della proposta. Nel maggio 1999 partecipa alla IV Convention Internazionale A.D.G.P.A. (Atchins Dadi Guitar Player Association) di Soave. Nel mese di settembre registra dieci sue nuove composizioni da cui trae l'ennesimo capitolo sonoro (edito privatamente) dal titolo Biosfera, nel quale prosegue la ricerca di temi, ritmi e armonie che con stile personalissimo esegue in solo alla chitarra acustica

Nell'autunno del 2001 entra al Minirec Studio per definire i brani che verranno pubblicati alcuni mesi dopo per Toast Musique in Alchimie, con la produzione di Giulio Tedeschi. Nell'ultimo anno, con il suo fedele set di chitarre, Marcello Capra si è esibito con successo in più punti d'Italia. A questo proposito ricordiamo con particolare piacere la presenza al MEI 2002, con ben due esibizioni e la partecipazione a due grandi manifestazioni per la pace che si sono tenute a Torino nei primi mesi del 2003. Invitato allaX Convention internazionale A.D.G.P.A., svoltasi a Sarzana a fine maggio del 2003, ha presentato il seminario-concerto dal titolo Perche' non suonare italiano?. Ha partecipato come protagonista alla Festa della Musica 2003 con più performance. Per la seconda volta partecipa con due live al MEI di Faenza nel novembre 2003, e il 6 marzo 2004 suona per 30 minuti le sue composizioni in "solo" alla I Edizione del Festival della Musica di Mantova.

Il 22 maggio a Sarzana, nel contesto dell'Acoustic Guitar 7th International Meeting, presenta in anteprima, presso lo stand di Unplugged Chitarre, il suo nuovo lavoro discografico Alchimie. Partecipa alla I Edizione di Acquadalsole: festival internazionale di musica e letteratura a Brugherio (MI). Il 21 giugno nell'ambito della Festa della Musica 2004 interviene al Convegno Lo stato della musica in Italia e l'orgoglio di essere indipendenti. Il 2005 si apre con uno show-case alla Fnac di Torino, e in maggio Marcello presenta un altro seminario alla XII convention internazionale A.D.G.P.A. dal titolo Armonie melodico-ritmiche nella chitarra a plettro. 

Nel maggio del 2005 esce il suo nuovo album solista Vento teso, ancora per la Toast Musique: 12 brani dove la chitarra acustica assume un ruolo di "orchestra" nella varieta' di ispirazioni, sfumature, contrasti , pulsioni ritmiche, che solo un autore completo e originale può trasformare in "sinfonie" per un solo strumento. Domenica 5 giugno partecipa con lusinghiero successo alla II Edizione del Festival della Musica di Mantova nell'ambito del Piccolo Compleanno Toast Records (1985/2005), con replica il 19 giugno alla Fnac di Torino; il 5 luglio è special guestnella rassegna di musica POP-(olare) nel parco Ruffini di Torino, il 18 agosto nell'Abetaia di Pievepelago (Modena) partecipa alla VI edizione di Pieve Rock Estate.

Sempre nell'ambito dei piccoli compleanni Toast, partecipa insieme ad altri artisti alla serata organizzata nel Teatro Vittoria di Pennabilli (Pesaro-Urbino), la settimana seguente il 25 novembre è all'anteprima del MEI di Faenza al Teatro Masini, il 26 alla Maison Dadà e il 27 nello spazio Toast. Vigilia natalizia a Luino con due performance in alternanza al gruppo locale Trenincorsa, degna chiusura di un anno molto intenso e significativo.

Il 2006 inizia con una registrazione a Rai 1 (Saxa Rubra, Roma) per il popolare radio-show DEMO, condotto da Michel Pergolani e Renato Marengo: cinque brani eseguiti dal vivo tratti dell’ultimo album Vento teso e un’anteprima ancora inedita, grande atmosfera in studio per una performance che verrà trasmessa il 16 marzo. Il 18 febbraio Marcello suona al Ciustè, originale locale sul passo dell’Abetone (PT): un grande successo con richieste di numerosi bis e tante dediche scritte sui cd. In giugno partecipa alla Festa della Musica con due performance a Novara e a Vercelli, il 29 luglio è presente al Piccolo Compleanno Toast Records 2006 alla Cascina 00 con un concerto che viene in parte videoregistrato dal filmakers torinese Mao. In ottobre Capra partecipa con due performance alSalone del Gusto 2006 (Lingotto di Torino).

Nel mese di maggio 2007, nell’ambito del Salone del Libro di Torino, il chitarrista partecipa ad una serata organizzata dall’Editrice Zona insieme ad altri progetti italiani. Il 21 settembre esce in distribuzione nazionale il suo ultimo, attesissimo album dal titolo Ritmica-Mente, che subito riscuote un notevole apprezzamento dalla critica specializzata, ad esempio su testate come: MusikBox, MovimentiProg, Guitar Club, Guida Prog Supereva e Il Mucchio.
Nel novembre 2007 Marcello presenta in un lungo live il suo ultimo lavoro alla Fnac (Le Gru) di Grugliasco (To) e partecipa con due performance all’XI Edizione del MEI di Faenza.

Per Marcello il 2008 è un anno dedicato soprattutto allo studio del nuovo album Preludio ad una nuova alba, che vedra’ la luce nel gennaio 2010, per la Elecrtomantic di Beppe Crovella con brani inediti e due brani già editi, interpretati in modo molto differente dagli originali, novità nell’uso delle chitarre e qualche sorpresa. La stampa specializzata plaude ai due brani presenti nel lettore del MySpace, come la Guida Prog di Supereva del giornalista Gaetano Menna.
In maggio suona all’Arteri’a di Bologna, il 13 giugno è l’ospite di Rock City Nights, fortunato radio-show condotto dal noto giornalista musicale Donato Zoppo, dove festeggia il trentennale del suo primo album solista Aria Mediterranea; sempre in giugno partecipa insieme ad altri progetti allaFesta della Musica in Fnac a Torino, il 3 luglio e’ ospite speciale ad un reading alla Topia, caratteristico locale sulle colline torinesi, dove poi in ottobre eseguirà un concerto in solo, molto seguito e apprezzato.

Inizia una collaborazione nell’ambito di una associazione fondata da Enzo Maolucci, cantautore con il quale riprende un sodalizio anche in ambito live, partecipando ad un suo concerto molto affollato a Le Fonduk, locale di tendenza a Torino. La serata dell'11 dicembre 2008 è un'occasione speciale: all'Artintown di Torino Marcello è special guest alla Festa Toast, organizzata dal patron Giulio Tedeschi. Qui ha modo di esibirsi con tanti giovani gruppi e di presentare in anteprima assoluta alcuni brani tratti da Preludio ad una nuova alba, .



Info:
www.marcellocapra.com

Synpress 44
P.I.: 00243248887
Via Martiri d'Ungheria 9, 82100 Benevento
Tel: 0824-312966
Francesca Grispello: 328-8665671; Donato Zoppo: 349-4352719.
Mail: info@synpress44.com