sabato 5 luglio 2025

Rolling Stones: il concerto di Hyde Park del 5 luglio 1969 raccontato da Michael Pergolani


Un evento storico ricordato da chi era presente, Michael Pergolani (https://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Pergolani)

5 LUGLIO 1969-Concerto di Hyde Park in ricordo di Brian Jones

È una splendida giornata, il sole è caldo e rassicurante, Brian Jones è morto. Sgomento, incredulità... Per noi era morto il nostro poeta maledetto e per moltissimi il simbolo vivente degli Stones, l'espressione più estrema, più intrigante e più ribelle della band. Il suo volto da bambino, i suoi occhi sempre gonfi erano da tempo diventati il segno iconico della dissolutezza degli Stones stessi.

Molta gente era convinta che senza Brian il gruppo non sarebbe più stato lo stesso. Chissà… Il fatto è che la sua morte, tragica ed effimera al contempo, era stata strumentalizzata e venduta dai quotidiani popolari come estrema prova di depravazione e facili costumi. “Ecco a cosa porta il loro scellerato stile di vita!” Questo il succo degli articoli.

Quel 5 luglio 1969 gli Stones ci avevano chiesto di andare tutti ad Hyde Park per commemorare Brian e noi avevamo risposto in tanti, forse 200.000, forse di più, una giornata storica.


Un forte odore di hashish permea la Serpentine di Hyde Park. Molta gente s'è buttata nel laghetto. L'acqua è gelida ma gli inglesi probabilmente pensano che tutta l'acqua del mondo sia gelida. Tra i ragazzi gira di tutto, LSD californiano, funghi e mescalina del Messico, oppio, pillole colorate di ogni genere e grandezza (Love pills, Take-It-Easy, etc.) e poi il potente hash afgano, il libanese rosso, il marocchino zero-zero, i thay-sticks, l’agapulco gold. I bobbies ci circondano fin dall’inizio ma rimangono ai margini, fermi nelle loro divise estive come soldatini di piombo.

I cellulari e le camionette sono concentrati in alcune traverse di Bayswater e, a sud, lungo la strada che da Queen's Gate porta all’Hyde Park Corner. Siamo veramente in tanti. C'è gente che balla, intere famiglie di hippies che suonano e cantano, gli hare krishna coi santoni magrimagri in arancione e i guru vestiti di bianco nonchè tanti aquiloni su nel cielo e tanto colore intorno come in un quadro di Pollock.


Aspettiamo gli Stones. Sul palco, per la prima volta sento i King Crimson di Robert Fripp e i Family di Roger Chapman. Ottimo, davvero un ottimo inizio. Poi arrivano loro, gli Stones, poi il discorso di Mick tutto vestito di bianco, poi i bei versi del poeta Shelley e le migliaia di farfalle che, in una nube leggera e tremolante, si alzano verso il cielo. L'emozione è forte, intensa, indimenticabile.





Led Zeppelin al Vigorelli: era il 5 luglio del 1971




Led Zeppelin, Velodromo Vigorelli, Milano, 5 luglio 1971

Ripercorrendo le antiche vicende legate alla musica e dintorni, si “cade” ripetutamente su avvenimenti nefasti che, al solo accenno, identificano immediatamente protagonisti e contesto: il Festival di Altamont o la Family di Charles Manson, tanto per parlare di fatti di oltreoceano. Anche a casa nostra, in Italia, abbiamo qualche ricordo negativo. Mark Paytress ci ha raccontato così, nel libro “Io c’ero”, la sua versione dei fatti avvenuti a Milano, 53 anni fa.


Un tremendissimo e sciagurato inciucio andò in onda una sera di prima estate del 1971 sul prato del glorioso Velodromo Vigorelli, aprendo e chiudendo in un amen la storia dei Led Zeppelin in Italia. Con una decisione strana e infelice, gli organizzatori del Cantagiro avevano deciso quell’anno di invitare alcune grandi star della musica internazionale al loro show nazionalpopolare: la scelta era caduta su Aretha Franklin, Donovan, Moustaki, Leo Ferrè, Charles Aznavour e, per la sola data di Milano, i Led Zeppelin. Pensavano forse di rilanciare così una manifestazione in evidente declino; in realtà andarono a cercarsi dei guai, e questo soprattutto a Milano, al Vigorelli, quando in fondo alla scaletta venne aggiunto il set dei più caldi, eccitanti re del rock di quella stagione. I 12.000 o 15.000 convenuti quella sera (a seconda delle stime) erano li tutti per il “Dirigibile”, e non avevano alcuna intenzione di sorbirsi la lunga anteprima del Cantagiro, con l’esibizione prevista di una quindicina di artisti. Si possono immaginare le reazioni del pubblico alle prime uscite sul palco: fischi, bùu, slogan sarcastici. Vista la mala parata, la maggior parte degli interpreti si rifiutò di esibirsi. Gianni Morandi tentò la sortita con una canzone “impegnata” (Al Bar si Muore), ma venne scorticato dai fischi; un po’ meglio andò ai New Trolls, considerati tollerabili cugini rock. Il problema in realtà non era sul palco, ma intorno e fuori, con un esagerato dispositivo di forze dell’ordine (2000 uomini fra polizia e carabinieri, a leggere le cronache del giorno dopo). Quella Grande Armèe doveva fronteggiare alcune decine di autoriduttori e “agitatori politici più mestatori a vario titolo”, per usare le parole del Corriere della Sera, e lo fece con grande impeto, impegnandosi con ripetute cariche e lancio di candelotti lacrimogeni mentre i manifestanti, sempre secondo il Corriere, iniziavano una fitta sassaiola, erigevano barricate di automobili nelle strade adiacenti e preparavano bombe molotov. Alle 22.40, scorciando di molto la scaletta, i Led Zeppelin salirono sul palco accolti dal boato della folla. Era fresco il ricordo del terzo album, uscito da pochi mesi, e si parlava di pezzi nuovi dal quarto, previsto per l’autunno (una di queste novità era Stairway to Heaven, regolarmente in scaletta nel tour primaverile). In un clima di palpabile tensione, la band attaccò Black Dog. Dopo una versione ridotta di Dazed And Confused, passò a I’ve Been Starting Loving You e lì si udirono distintamente dei botti violenti: non era Bonham in azione, ma la polizia che sparava fumogeni, e non fuori dal Velodromo, bensì dentro, sul prato e nei dintorni del palco (un cancello aveva ceduto sotto la pressione di una ventina di autoriduttori e gli agenti si erano lanciati con foga al loro inseguimento). Robert Plant cercò di metterla sul teatrale e invitò i ragazzi a soffiare contro quell’aria viziata, ma era vento cattivo, e non c’era nessuna risposta dylaniana che potesse aggiustare le cose. Per sedare gli spiriti, il gruppo attaccò Whole Lotta Love, in medley con il celebre assolo di Bonham, Moby Dick. A quel punto però l’aria si era fatta irrespirabile, il pubblico ondeggiava pericolosamente tra le gradinate e il prato, e il manager Peter Grant salì sul palco imponendo ai suoi ragazzi lo stop. Gli Zeppelin filarono dietro le quinte in una nuvola di gas irritante e pensarono bene di rifugiarsi in infermeria, dove si barricarono assediati da decine di persone che stazionavano intorno al palco, alla ricerca anch’essi di un riparo. Intanto i roadies cercavano di protegger l’impianto, con esiti alterni: alcuni strumenti furono danneggiati e l’addetto alla batteria di Bonham, Mick Hinton, finì all’ospedale con la testa squarciata dal lancio di una bottiglia.Il pubblico sfollò con pericolosa lentezza, lacrimando e tossendo, da una porticina di due metri per uno e venti. All’esterno impazzavano altre cariche, anche con le jeep, che si protrassero fino alla mezzanotte. Finì con il più drammatico e triste “show interruptus” della storia rock italiana. Quella stessa sera, con gli occhi ancora arrossati per i lacrimogeni, Robert Plant confessò la sua delusione ad Armando Gallo, inviato per Ciao 2001: “ Abbiamo girato mezzo mondo e non ho mai visto nulla di simile. E’ la prima volta che siamo stati costretti ad abbandonare un nostro concerto. Venendo al Vigorelli avevamo scherzato tra noi, vedendo tutte quelle forze dell’ordine: sembravano schierate più per un congresso politico che per un concerto. Ancora non capisco come possa succedere che la polizia intervenga su 10.000 persone che hanno pagato un biglietto”. 

I Led Zeppelin, per inciso, non avrebbero mai più messo piede dalle nostre parti.



Photo gallery by kind permission of Wazza








































venerdì 4 luglio 2025

The Ramones-The Roundhouse, Londra, 4 luglio 1976



The Ramones
The Roundhouse, Londra, 4 luglio 1976

Insieme hanno dato vita a un’ispirata esibizione di arte minimalista”.
Michael Watts, Melody Maker

Patty Smith, astro nascente di una ribellione a base di reggae e Rimbaud, aveva fatto il suo esordio londinese poche settimane prima. Per i Ramones invece, niente letture di poesie o magliette dedicate a Keith Richards. Fracassoni e foruncolosi, i quatto newyorkesi urlarono come ossessi, snocciolando i loro pezzi a velocità supersonica (fermandosi solo per togliere i giubbotti di pelle) e lasciarono il palco dopo mezz’ora salutati dall’ovazione di una folla carica di birra. La settimana successiva, Max Bell di Melody Maker definì quella musica “rockoglione”, descrivendola tuttavia come capace di riscuotere la sua inconndizionata approvazione e quella di quasi tutti i 15000 spettatori presenti. Il termine non attecchì, ma lo stile e il suono portati alla ribalta dai Ramones sì.

Praticamente tutti coloro che avrebbero formato i principali gruppi punk inglesi quella sera erano al Roundhouse e osservavano attoniti come si potesse mettere in piazza senza paura la propria condizione di emarginati urbani bianchi. La chiava stava nella semplicità: nomi da finti fratelli (Joey Ramone, Dee Dee Ramone, e così via), abbigliamento da teppisti, canzoni che si confondevano una con l’altra. Jeans a tubo strappati, magliette attillate e scarpe da tennis da pochi dollari, i Ramones assunsero immediatamente la loro tipica posa a gambe aperte e ginocchia piegate, mentre le loro facce smunte e serissime non mostrarono alcuna emozione per tutto il concerto. Con il suo taglio di capelli a scodella, il bassista Dee Dee parve a Max Bell “ l’esemplare umano meno intelligente” mai visto su un palco, capace però di suonare con tanta forza da ferirsi a un dito. In mezzo alla folla, ubriaco e ingestibile, c’era il futuro bassista dei Sex Pistols Sid Vicious, e Dee Dee era il suo musicista preferito.

Sid adorava i Ramones” spiega Marco Pirroni, che sarebbe diventato chitarrista di Adam Ant The Ants, “anche se odiava il loro taglio di capelli. Sid aveva un taglio di capelli splendido, loro no. Ma da loro prese a prestito l’idea del giubbotto di pelle e dei jeans strappati.”
Il suono senza fronzoli di Joey e compagni ebbe dunque un impatto istantaneo sulla nascente scena punk.

Quando i Sex Pistols entrarono in studio insieme al produttore Chris Spedding, portarono con sé l’album di debutto dei Ramones dicendo: 
"E’ così che vogliamo suonare!”
(Mark Paytress . "Io C'ero")




giovedì 3 luglio 2025

Il 3 luglio del '69 ci lasciava Brian Jones, un caleidoscopio di suoni, un'anima inquieta

 

Brian Jones sul palco alle 4 del mattino, all'All-Nighter, Alexandra Palace, Londra, 1964


Il 3 luglio segna una data indelebile nella storia del rock: l'anniversario della prematura scomparsa di Lewis Brian Hopkins Jones, meglio noto come Brian Jones, il polistrumentista che diede vita ai Rolling Stones. La sua figura, spesso avvolta in un'aura di tragica bellezza e incomprensione, merita di essere celebrata e approfondita al di là delle semplificazioni e dei luoghi comuni.  

Jones fu molto più di un semplice membro fondatore. Negli albori della band, era lui il leader carismatico, il motore creativo, l'innovatore musicale. Il suo talento poliedrico lo portava a padroneggiare un'ampia gamma di strumenti: chitarra, armonica, pianoforte, mellotron, sitar, dulcimer, marimba, fiati...

Questa versatilità gli permise di arricchire il sound dei primi Stones con sfumature blues, rock'n'roll, ma anche con influenze esotiche e sperimentazioni psichedeliche.  

Chi ascolta attentamente brani come "Paint It Black" o "Ruby Tuesday" può percepire l'impronta precisa di Jones, il suo gusto per l'arrangiamento, la sua capacità di creare atmosfere uniche.  Purtroppo, la sua parabola artistica fu tanto fulgida quanto breve.  Le tensioni interne alla band, i problemi personali e l'abuso di sostanze lo portarono ai margini del gruppo, fino al tragico epilogo.  

La sua scomparsa, avvenuta il 3 luglio 1969, gettò un'ombra sulla scena musicale. Appena due giorni dopo, il 5 luglio, i Rolling Stones tennero un concerto gratuito a Hyde Park, a Londra, che si trasformò in un tributo a Jones. Questo evento, Nato in origine per celebrare il nuovo corso della band - con l’introduzione del nuovo chitarrista Mick Taylor - rappresentò anche un momento di commossa memoria per il suo fondatore.

Con Nico, spettatori, al festival di Monterey

A cinquantacinque anni dalla sua scomparsa, Brian Jones continua a essere una figura enigmatica e affascinante.

Non è questa l’occasione per ripercorrere morbosamente le circostanze della sua morte, ma pare opportuno celebrare la sua musica, la sua creatività, il suo spirito pionieristico. 

Brian Jones è stato un caleidoscopio di suoni e colori, un artista che ha contribuito in modo fondamentale a definire l'identità dei Rolling Stones e a plasmare il volto della musica rock. 

A distanza di decenni, la sua abilità polistrumentale e la sua visione musicale rimangono uniche...






Nel ricordo di Jim Morrison, mancato il 3 luglio del 1971


Qualcuno ha scritto: “Era il 3 luglio del 1971 quando James Marshall Morrison, cantante dei Doors e icona pop dei tardi anni Sessanta, fu ritrovato morto dopo una breve vita di folli eccessi, nella vasca da bagno del suo appartamento di Parigi. E nessuno come lui si può dire che viva ancora nella memoria dei suoi fan, la maggior parte dei quali non era ancora nata quando morì.

Io lo ricordo con uno dei momenti più “caldi” della sua purtroppo breve carriera. Quattro mesi dopo sarebbe scomparso per sempre!

Ciò che accadde il 1º marzo del 1969 è rimasto nella storia del rock...

The Doors erano impegnati in un concerto a Miami quando, stordito dagli stupefacenti e con spirito provocatorio, Jim Morrison “avrebbe” mostrato i genitali al pubblico. 
Sia i Doors superstiti che numerosi fan presenti al concerto testimoniarono di non aver visto nulla, seppure il tasso alcolico di Morrison fosse effettivamente molto alto e giustificasse un comportamento del genere, a tal punto che gli altri della band gli chiesero se fosse effettivamente in grado di salire sul palco. Quella notte Jim interruppe lo show a metà concerto e iniziò una specie di discorso contro l’autorità, rubando anche un cappello di un poliziotto per lanciarlo sulla folla. Successivamente Morrison arrivò al culmine citato. Nessuno saprà mai la verità sino in fondo, forse neanche Morrison lo sapeva. A seguito di ciò, tuttavia, Jim subì un processo e venne liberato su cauzione, ma l’immagine della band ne uscì gravemente macchiata, al punto che furono annullati tutti i concerti che i Doors avevano iniziato in quel periodo. In seguito a ciò decisero di comune accordo di non partecipare al Festival di Woodstock ritenuto dalla band uno spazio molto vasto per la loro esibizione e che diminuiva notevolmente l’energia e l’intimità che ambienti più raccolti sono invece in grado di dare !
Jim Morrison fu condannato500 dollari e sei mesi di prigione, ma non andò mai in carcere. Si trasferì infatti a Parigi quando la sentenza era in appello e mori nel 1971.

A distanza di 41 anni Jim Morrison fu graziato dallo stato della Florida dalle accuse di esibizionismo; il governatore democratico uscente dello stato della Florida, Charlie Crist insieme ai membri del consiglio di grazia dello stato, considerarono decadute le accuse mosse ai tempi a Morrison. 
Secondo fonti ben informate il Governatore da tempo aveva dubbi sul fatto che Morrison avesse effettivamente commesso reato e aveva in mente sin dal 2007 di concedergli la grazia, dopo che i fan si erano messi in moto per sottoporre il caso all’ufficio del Governatore.




mercoledì 2 luglio 2025

L'ultima di Ziggy Stardust: era il 3 luglio 1973


David Bowie And The Spiders From Mars
Hammersmith Odeon, Londra, 3 luglio 1973

Il drammatico annuncio:

“Questa è stata una delle più belle tournèe della nostra vita. Vorrei ringraziare il gruppo. Vorrei ringraziare chi ha lavorato per noi. Vorrei ringraziare gli addetti alle luci… Quello di stasera è il concerto di cui ci ricorderemo più a lungo… perché non solo è l’ultimo della tournèe, ma è il nostro ultimo concerto in assoluto. Grazie.”

Quando, nell’estate precedente, David Bowie aveva raggiunto il grande successo commerciale, si era subito scatenato il dibattito sulla sua identità sessuale. Nessun dubbio poteva invece esserci quella artistica. 

Il 3 luglio 1973 la sua tournèe nei panni di Ziggy Stardust era approdata all’Hammersmith Odeon dopo 18 mesi di concerti. A quel punto, la straordinaria vividezza del personaggio aveva conquistato i fan, gli amici e persino il suo creatore che, tempo dopo, avrebbe spiegato: “Era molto più facile vivere dentro Ziggy che dentro Bowie.” 

Dunque Ziggy doveva uscire di scena e, all’insaputa di tutti (tranne il manager Tony Defries e il chitarrista Mick Ronson), l’annuncio sarebbe stato dato dal palco. In un periodo in cui i gesti plateali non mancavano, una decisione tanto sorprendente, comunicata subito prima di un pezzo dal titolo emblematico quale Rock’n’Roll Suicide, era destinata a lasciare il segno: all’apice della notorietà ecco David Bowie annunciare il suo clamoroso ritiro suscitando gli stupiti “no-o-o-o!” della folla. 

Ma se Bowie pensava di aver chiuso Ziggy fuori dalla porta si sbagliava di grosso: “Non mi stavo liberando di lui, anzi, mi stavo alleando con lui. Il mio doppio e io stavamo diventando una persona sola. E’ una strada che porta al caos e alla distruzione della psiche.”

BOWIE SI RITIRA!”, strillarono il giorno dopo i quotidiani. In realtà il concerto segnò solo la fine di un’epoca, visto che, nemmeno due mesi dopo, David Bowie era sul palco del Marquee Club per le riprese di uno special televisivo a lui dedicato.

Tratto da “Io c’ero”, di Mark Paytress


Uno Spider from Mars racconta…
Ecco come il batterista Woody Woodmansey ricordava la sua ultima serata sul palco con Bowie:

Vi aspettavate qualcosa al di fuori del normale?
No, non particolarmente.

Il pubblico fu più isterico del solito?
Il pubblico era sempre isterico!

Il concerto?
Molto emozionante. Era l’ultimo della tournèe.

Sentisti l’annuncio di David?
Sì.

I commenti nei camerini a fine concerto?
Irriferibili.

Il tuo stato d’animo il giorno dopo?
Ottimo, mi sono sposato!

Quando capiste che gli Spiders erano finiti?
Quando sul palco la mia bacchetta mancò la testa di David!



martedì 1 luglio 2025

William James Dixon: l'architetto silenzioso del “Chicago Blues” e innovatore del Rock and Roll


 

Willie Dixon: l’indiscusso pilastro del Chicago Blues, le cui centinaia di canzoni hanno definito un genere e oltrepassato i confini, lasciando un'eredità immortale nella storia della musica


William James Dixon (1915-1992), universalmente noto come Willie Dixon, è una figura colossale nella storia della musica americana, la cui influenza si estende ben oltre il suo ruolo di musicista. Basso elettrico, cantante, paroliere, arrangiatore e produttore discografico, Dixon è riconosciuto, accanto a Muddy Waters, come la mente più influente nella formazione del suono del Chicago blues del dopoguerra e un ponte cruciale verso l'emergente rock and roll.

Nato a Vicksburg, Mississippi, il 1° luglio 1915, Dixon fu esposto precocemente alla musica, assorbendo le sonorità del blues rurale e del gospel. La sua passione per le rime, ereditata dalla madre, si manifestò presto nella scrittura di canzoni. Trasferitosi a Chicago nel 1936, intraprese inizialmente una carriera nel pugilato, vincendo il campionato amatoriale dei pesi massimi Golden Glove dell'Illinois. Tuttavia, la musica era il suo vero destino. Imparò a suonare il contrabbasso e nel 1939 incontrò il pianista Leonard "Baby Doo" Caston, con cui formò i Five Breezes e in seguito i Big Three Trio, un gruppo che introdusse l'armonia vocale nel blues.

Il periodo più significativo della carriera di Dixon fu il suo ruolo centrale presso la Chess Records, una delle etichette discografiche più importanti per il blues e il rock and roll. Dal 1948 ai primi anni '60, Dixon fu un pilastro fondamentale: suonava il basso nelle sessioni di registrazione, arrangiava brani, produceva artisti e agiva da talent scout. Ma il suo contributo più duraturo fu come prolifico paroliere. Dixon ha scritto o co-scritto oltre 500 canzoni, molte delle quali sono diventate standard intramontabili del blues. Tra le sue composizioni più celebri figurano "Hoochie Coochie Man", "I Just Want to Make Love to You", "Little Red Rooster", "My Babe", "Spoonful" e "You Can't Judge a Book by the Cover". Questi brani, eseguiti da leggende come Muddy Waters, Howlin' Wolf, Little Walter e Bo Diddley, hanno definito il sound del Chicago blues e influenzato generazioni di musicisti in tutto il mondo.

L'impatto di Dixon non si limitò al blues. Il suo lavoro con artisti come Chuck Berry e Bo Diddley all'inizio degli anni '50 lo rese un collegamento essenziale tra il blues e i primi suoni del rock and roll. Molte delle sue canzoni furono successivamente riprese da iconici artisti rock, tra cui i Rolling Stones, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Elvis Presley e gli Allman Brothers, consolidando la sua eredità nel pantheon della musica popolare.

Negli anni successivi, Willie Dixon divenne un instancabile ambasciatore del blues, girando il mondo con la sua band, i Chicago All-Stars. Fu anche un fervente sostenitore dei diritti degli artisti, fondando la Blues Heaven Foundation, un'organizzazione senza scopo di lucro dedicata a preservare l'eredità del blues, proteggere i diritti d'autore e le royalty per gli artisti più anziani e fornire borse di studio a giovani musicisti.

Willie Dixon è stato insignito di numerosi riconoscimenti per il suo contributo inestimabile alla musica, tra cui l'introduzione nella Blues Hall of Fame (1980), nella Rock and Roll Hall of Fame (1994) e nella Songwriters Hall of Fame. La sua autobiografia, "I Am the Blues", pubblicata nel 1989, offre una preziosa testimonianza della sua vita e della sua visione della musica.

Willie Dixon è deceduto il 29 gennaio 1992, ma la sua musica e la sua influenza continuano a risuonare, confermando il suo status di "poeta laureato del blues" e di "padre del moderno Chicago Blues", un vero gigante la cui genialità ha plasmato il panorama musicale globale.







lunedì 30 giugno 2025

The Alice Cooper Show: era il 30 giugno del 1972



Alice Cooper
Empire Pool, Wembley, Londra, 30 giugno 1972
The Alice Cooper Show

In realtà si tratta solo di uno specchio che metto di fronte a un pubblico per riflettere il lato più oscuro della natura umana

Alice Cooper a Roy Carr, Music Scene, 1972.

Andato in scena per la prima volta a New York il 1 dicembre 1971, “Killer di Alice Cooper era uno scioccante esempio di teatro rock che, secondo il cantante, “era figlio della televisione, del cinema e dell’America“. 
Con il singolo “School’s Out” in procinto di sbancare le classifiche britanniche, lo spaventoso spettacolo horror, con tanto di boa constrictor vivo, ghigliottina portatile e bambole decapitate, andò in scena a Londra guadagnandosi i titoli a tutta pagina dei quotidiani. Fra i presenti in sala quella sera c’era anche la giovane e accesissima fan Simone Stenfors.

Ero la più grande fan di Alice Cooper sulla faccia della terra. Tutto in lui era originale. Era un film dell’orrore, non la solita cosetta carina. Come Captain Beefhart e Frank Zappa, si trattava di musica per fuori di testa. Più o meno all’epoca del concerto, il gruppo suonò a “Top Of The Pops” e il pubblico era pieno di sosia di Alice Cooper e di ragazzine che urlavano in prima fila. Provai fastidio perché quello era il mio gruppo e mi disturbava che fossero diventati così famosi. Avevamo due posti molto indietro , ma io e la mia amica convincemmo due tipi a venderci i loro che erano all’incirca in decima fila. Quando il gruppo di spalla, i Roxy Music, finì di suonare, erano arrivati anche tutti i miei amici e mi ritrovai ai bordi della passerella, seduta in braccio a un ragazzo. Così, quando Alice si sedette lì a cantare ci trovammo alla stessa altezza. E quando cantò “Dead Babies” strappando i vestiti alla bambola i suoi occhi guardavano diritti nei miei.
“Non so dire se facesse paura o meno. Ero una ragazzina molto presa da quel tipo di cose. All’epoca uno spettacolo simile no si era mai visto. C’era il serpente per “It My Body”, il patibolo per “Killer” e tante capsule piene di sangue. Si diceva che Alice stesso avesse rischiato di finire decapitato. Credo fossero voci messe in giro ad arte, ma noi del pubblico avevamo tutti tra i 15 e i 18 anni per cui restammo parecchio impressionati.
Quando Alice, quasi alla fine, cantò “School’s Out”, lanciò gladioli al pubblico e me ne mise uno in mano. Arrivata a casa lo sistemai con la massima cura in un bicchiere pieno d’acqua. Mia madre lo buttò via: non aveva capito quanto importante fosse per me!”

Da “Io C’ero”, di Myke Paytress.

Immagini di repertorio...



domenica 29 giugno 2025

Tim Buckley: un giorno tragico, un'eredità immortale (29 giugno 1975)



Tim Buckley: il giorno in cui la musica perse un visionario – 29 giugno 1975


Il 29 giugno 1975, il mondo della musica perse una delle sue voci più originali e innovative: Tim Buckley. La sua prematura scomparsa, all'età di soli 28 anni, a causa di un'overdose di eroina e alcool, pose fine bruscamente a una carriera in continua evoluzione, lasciando dietro di sé un'eredità complessa e affascinante che continua a risuonare tra gli appassionati di musica a distanza di decenni.

Nato a Washington D.C. e cresciuto in California, Buckley emerse dalla scena folk rock della metà degli anni '60, ma la sua musica presto trascese le etichette convenzionali. Con una gamma vocale straordinaria che spaziava dal baritono al falsetto, e una propensione per composizioni che sfidavano le strutture tradizionali delle canzoni, Buckley era un artista che non temeva di esplorare i confini della forma e dell'espressione.

I suoi primi album, come l'omonimo Tim Buckley (1966) e Goodbye and Hello (1967), lo consolidarono come un cantautore di talento, con testi spesso poetici e introspettivi. Tuttavia, fu con opere successive come Starsailor (1970) che Buckley si spinse in territori più sperimentali, incorporando elementi di jazz d'avanguardia, folk progressivo e improvvisazione vocale. Questo album, in particolare, divise critica e pubblico al momento della sua uscita, ma è stato rivalutato nel corso degli anni come un capolavoro audace e visionario, un testamento alla sua volontà di non conformarsi.

La carriera di Buckley fu costellata di sperimentazioni e cambiamenti stilistici, riflettendo la sua inesauribile ricerca artistica. Dal folk intimista si mosse verso sonorità più rock e soul nei suoi ultimi lavori, come Greetings from L.A. (1972) e Sefronia (1973), dimostrando una versatilità e una curiosità musicale rare. Sebbene non abbia mai raggiunto un vasto successo commerciale durante la sua vita, Buckley era venerato dai suoi pari e dai critici per la sua integrità artistica e la sua innegabile abilità vocale.

Il 29 giugno 1975, la notizia della sua morte scosse il mondo musicale. Le circostanze della sua scomparsa, un triste epilogo per un artista così giovane e dotato, misero in evidenza i pericoli e le pressioni spesso associate all'industria musicale.

È passato mezzo secolo, ma l'impatto di Tim Buckley sulla musica rimane significativo. La sua influenza può essere rintracciata in generazioni di artisti che hanno osato spingersi oltre i confini del genere, dall'art rock al progressive folk, fino al pop sperimentale. Suo figlio, Jeff Buckley, avrebbe seguito le sue orme, ereditando parte del suo talento vocale e creando una propria, seppur breve, eredità musicale, rendendo il nome Buckley sinonimo di profondità emotiva e innovazione.

Il 29 giugno 1975 fu un giorno di lutto per la musica. Tuttavia, la ricchezza e la complessità del catalogo di Tim Buckley assicurano che la sua voce, la sua visione e il suo spirito sperimentale continuino a vivere, ispirando nuove generazioni di ascoltatori e musicisti a esplorare le infinite possibilità dell'espressione sonora. La sua musica è una testimonianza eterna di un talento indomito e di una ricerca artistica senza compromessi.