domenica 31 luglio 2011

Dana Fuchs a Savona

Fotografia di Angelo Lucardi


“Metti una sera a Savona, nel centro storico”
è una manifestazione che nel mese di luglio mi ha dato qualche soddisfazione, talune cercate e altre fortuite.
Giovedì 28 luglio, ad esempio, ho “casualmente” partecipato ad un grande concerto che ha esaltato il mio concetto di performance live, momento in cui il talento e la tecnica perdono peso a favore di una scintilla capace di regalare magie che restano per sempre nei cuori e nelle menti. Ovviamente occorre essere un po’ sensibili e un po’ virtuosi… d’animo.
Conoscevo Dana Fuchs solo di nome e ricordavo della sua partecipazione al movie “Across the Universe”, ma non avevo chiara la sua proposta, ne il suo viso.
Definita dagli esperti una sorta di prolungamento ideale di Janis Joplin si è ritrovata addosso, ieri sera, una nuova etichetta che pare abbia accettato con entusiasmo.
A fine concerto infatti, dopo una strepitosa versione di Whole Lotta Love degli Zeppelin, ultimo brano prima del bis, Dana si è presentata al pubblico per un’intelligente (perché ovviamente proficua) vendita del suo materiale audio/video, firmando il tutto e baciando ogni acquirente. Nell’occasione la mia amica Marina Montobbio, rivolgendosi alla Fuchs, affermava che se fosse esistita la versione femminile di Robert Plant, la parte sarebbe certamente toccata a lei. Dana accettava con entusiasmo questo assioma musicale, e in questa picture risiede tutto il significato di una prestazione vocale e scenica di grande livello.
La band è la tipica formazione rock, chitarra, basso e batteria (un pezzo di Italia sul palco) a cui si aggiunge una voce incredibile, fatta di potenza, espressività e modulazione fuori dal comune.
Lei interloquisce con l’audience, cerca di coinvolgerla e riesce a prendersi qualche piccola “soddisfazione da coinvolgimento”, se si pensa che parte del pubblico presente in Piazza Sisto IV era li per caso, magari conta tanti validi motivi, ma probabilmente non molto musicali. Ma è questa la magia della musica!
Regina assoluta del palco, che calpesta a piedi nudi, Dana passa da brani molto “duri” a ballate di atmosfera, non disdegnando il dialogo, utilizzando un inglese capibile, e raccontando frammenti di dolorose vicende personali.
E quando un problema tecnico impone una sosta tecnica al chitarrista, Dana improvvisa a cappella, intonando brani beatlesiani, a mo di “Across the Universe”.
Credo che la peculiarità della band in fase live, sia la dimostrazione di enorme energia, che unita alla capacità di coinvolgimento e alla presenza scenica di Dana, regala momenti di puro rock che induce al “lasciarsi andare”.
Un concerto davvero inaspettato e di valenza assoluta.

Anche io non potevo mancare l’acquisto/souvenir e la dedica personalizzata. Dopo aver fatto un po’ di spelling per far comprendere a Dana il mio nome, lei si preoccupava di spiegarmene la provenienza e le origine greche. Io aggiungevo che forse c’era anche qualcosa di francese e la “discussione” terminava con il solito bacio. Piccole soddisfazioni per ammalati di musica!!!


Un po’ di Biografia tratta da wikipedia.

Dana Fuchs, nata nel New Jersey il 10 gennaio del 1976, è una cantautrice e attrice statunitense, famosa per aver interpretato il ruolo di Sadie nel film del 2007 Across the Universe, interpretando alcuni dei maggiori successi dei Beatles.

Dana, la più giovane di sei figli, crebbe in una piccola città lontana dai grandi centri in Florida. Fin dalla giovane età era circondata dalla musica, seguendo le orme dei fratelli maggiori. Presto sarà tanto convinta della sua volontà di fare musica che dirà a amici e parenti che sta "andando a New York per cantare il blues".

Da sola arriva a New York all'età di 19 anni, e si sentì spaesata. Dopo la forte scossa data dalla notizia del suicidio di una delle sorelle maggiori (Donna, ritenuta da Dana il suo primo mentore musicale), Dana inizia ad impegnarsi nella musica, partecipando ad alcune sessioni di improvvisazione nei locali blues di Manhattan. Fu in una di queste sessioni che incontrò Jon Diamond, un chitarrista americano molto affermato. Subito, insieme formarono la Dana Fuchs Band. Nel giro di un anno, la band si esibiva già nei locali blues più rinomati. Per tutto l'anno successivo, Dana si immerse nel blues, cantando tutte le notti fino a tardi, guadagnando una potenza vocale formidabile, e formando una larga schiera di fans. Dopo due anni di lavoro nel blues, Dana decise di intraprendere la strada solista. Lei e Jon iniziarono a scrivere intensamente. Presto tornarono ad esibirsi dal vivo con l'aggiunta dei pezzi inediti, e la risposta dei fan fu entusiasta. Non tanto tempo dopo i produttori della hit Love, Janis, sentendo voci riguardanti Dana, le proposero un'audizione. Dana andò, cantò un estratto di Piece of My Heart, e, senza indugio, le fu offerto il ruolo di Janis Joplin. Cantare Janis 4 notti a settimana, garantì a Dana un nuovo pubblico, che presto si spostò anche agli spettacoli del DFB ascoltando i pezzi inediti di Dana. Queste canzoni sono udibili dall'album di debutto della band: Lonely for a Lifetime, che fu subito accolto bene sia dalla critica che dai fan. Dana dichiarò: "Volevo catturare una vibrazione soul e rock... Ma dandole una nota selvaggia". Dal punto di vista vocale, Dana fu ispirata da cantanti come Etta James, Otis Redding e Aretha Franklin.

Across the Univer

Nel 2007, Dana entra a far parte del cast del fim (interpretando Sadie) Across the Universe, con una colonna sonora interamente composta da brani dei Beatles. Nel film, Dana esegue alcuni brani, tra i quali: Helter Skelter, Oh! Darling e Why Don't We Do It in the Road; tutti i brani sono caratterizzati da una forte performance vocale, mista tra il blues e l'hard rock.


Discografia

Album in studio

2003 - Lonely for a Lifetime

2011 - Love To Beg


Live

2008 - Live in NYC


Note

Biografia ufficiale : http://danafuchs.com/bio



Video di Angelo Lucardi

sabato 30 luglio 2011

J.C. Cinel-"The light of a new sun"


The light of a new sun è il nuovo album di JC Cinel.
Un paio di anni fa, in questo spazio, avevo “raccontato” Before my eyes, un “disco” strettamente correlato a quello attuale, pur mantenendo un’identità propria, come JC racconta nell’intervista a seguire.
Ed oggi arriva una nuova proposta, undici brani che sanno di consapevolezza e maturità, e in questa affermazione potrei condensare il mio giudizio generale.
La consapevolezza è legata alla presa di coscienza del proprio valore artistico. JC Cinel è molto “americano”, non per la necessità di allinearsi a una “nave scuola”, ma esclusivamente per DNA. Non ci sono sentori di emulazione forzata, tutto sgorga spontaneo, e di fatto è praticamente impossibile, se non lo si sa, catalogare J.C. come musicista italiano. L’accettazione della sua musica, in America, ne ha aumentato la “sicurezza” e tutto ciò traspare in questo nuovo lavoro.
La maturità invece è legata all’autorevolezza che normalmente si acquisisce quando non occorrono forzature per essere riconosciuti musicisti, in questo caso “musicisti cittadini del mondo”.
Sono infatti i viaggi, i tours e le collaborazioni importanti che hanno permesso di accumulare esperienza e spessore espressivo. E quando si raggiunge un certo status anche le collaborazioni viaggiano sulla stessa onda. La prova, in questo caso, è la partecipazione, in quattro tracce, di Johnny Neel, ex tastierista degli Allman Brothers e Gov't Mule.
Parlando del precedente Before my eyes ricordo di averlo “bollato” col termine … “musica da viaggio”, laddove il viaggio, abbinato a certi suoni d’oltreoceano, è sinonimo di libertà e vita vissuta. Tutto ciò non significa superficialità, ma dietro ad ogni canzone, in viaggio tra Nashville e Memphis, così come tra Columbus e Miami, si possono nascondere momenti di estremo dolore o lunghe riflessioni, stati d’animo che parole musicate esprimono con estrema efficacia, attimi che è facile ritrovare in The light of a new sun.
E questo è forse il “new sun” che JC Cinel intravede da lontano… la possibilità di coniugare il quotidiano e il passato, con la musica della vita, quel misto tra rock, blues e country dal quale non si può proprio prescindere.
E poi il tocco finale, quella voce dal timbro particolarissimo che rende JC riconoscibile, senza indugio, dopo pochi secondi di ascolto.
Davvero un gran album.
TRACK LIST:
1.THINK OF MYSELF
2.WHEELS OF TIME
3.LIVING OF A HIGHWAY
4.THE LIGHT OF A NEW SUN
5.SWEET AND WILD
6.ISLANDS
7.NASHWILLE NIGHTS
8.CALIFORNIA SUNSETS
9.WHITE SOLDIER
10.FALLEN ANGEL
11.A PLACE IN THE SUN

Andromeda relix / Black Widow Records 2011

L’INTERVISTA

Era il 2009 quando scrivevo del tuo album “Before My Eyes”. Che cosa ti è accaduto, musicalmente parlando, in questi due anni?

Mi sono accadute un sacco di cose. Pur continuando a scrivere i miei brani, che poi sono finiti su “The light of a new sun”, ho iniziato la collaborazione col chitarrista Jimi Barbini; abbiamo scritto insieme i brani che sono andati a fare parte di “Back on the tracks”, l’album uscito a Dicembre 2010. Da li è incominciato un nuovo tour, in Olanda Germania, e la partecipazione a Festival importanti, come Osoppo Ameno Bleus , dove abbiamo condiviso il palco con Buddy Widdingtone ex chitarrista di John Mayall, Nistoc Festival, prima del bluesman Andy J.Forest e recentemente al Burg Herzberg Festival in Germania, dove ci siamo esibita davanti a migliaia di persone.

Che cosa lega “The light of a new sun” al tuo album precedente? Esiste un filo conduttore che unisce i significati?

Beh si,”Before my eyes” era un album sognante, un album positivista, legato ai temi del viaggio, della scoperta dell’esigenza di intraprendere e agire, della necessità di spingersi sempre avanti senza pensare all’arrivo, al traguardo, ma amando la consapevolezza del percorso del presente. ”The light of a new sun”è meno spensierato… a volte la corsa folle riserva dei cambi di rotta inaspettati, degli incroci dove non sempre si sceglie la strada più conveniente, più vantaggiosa; il sogno a volte si incrina e la corsa non è più cosi leggera, ma dubbiosa e troppo analitica, ma alla fine la luce torna con un colore diverso ma sempre pronta a delineare la strada, la rotta da seguire. Musicalmente è più energico, più articolato, più suonato e pensato da band live… forse più immediato.

I tuoi album sono sempre molto “americani”, e non mi riferisco all’utilizzo della lingua inglese. Come sono accolte le tue performance in America? Hai mai trovato una sorta di diffidenza che spesso colpisce stranieri che propongono rock blues laddove il genere è nato?

Guarda, questa è la cosa che più mi ha sorpreso dell’America; la curiosità e soprattutto la disponibilità e l’apertura mentale degli americani mi ha sempre fatto sentire a mio agio. La non c’è alcun pregiudizio musicale ne tantomeno di nazionalità, anzi, la mia musica è piaciuta moltissimo, e soprattutto il mio essere europeo ha fatto notare e apprezzare delle caratteristiche sonore e melodiche molto presenti nel mio sound che nemmeno io pensavo di avere così evidenti. Se in Italia sono l’artista col sound americano in America vengono riscontrate nelle mie canzoni sonorità e melodie molto europee che miscelate rendono il genere molto particolare e accattivante. Questo è quello che mi diceva la maggior parte dei promoters, ascoltatori e musicisti che ho avuto la fortuna di conoscere.

Mi pare di aver letto che dovevi “aprire” per Alvin Lee. Esibirsi prima di una leggenda di Woodstock non può diventare stimolante per tracciare un primo bilancio di una vita dedicata alla musica?

Purtroppo non abbiamo aperto per Alvin che è stato spostato alla sera prima, ma ai Creedence Clearwater Revived. I miei riscontri con gli artisti americani però sono legati alla permanenza a Nashville, dove come sai ho avuto la possibilità di conoscere vere e proprie leggende del rock americano, come Johnny Neel( ex Allman Brothers e Gov’t Mule)che è presente sul mio disco in quattro brani, ma anche fantastici musicisti come Mike Stergis ex chitarrista di Crosby Stills and Nash. La frequentazione di tutta la comunità di songwriters di Nashville e promoters mi ha fatto capire che la strada che ho seguito è quella giusta, la mia musica è sempre piaciuta in America, dove gli artisti hanno a disposizione una struttura sia culturale che oggettiva che li supporta e incentiva in maniera incredibile. Purtroppo essere senza carta verde è l’unico vero limite che ridimensiona progetti e collaborazioni, ma va bene ugualmente.

Quale degli undici brani di “The light of a new sun” ti emoziona maggiormente? Perché?

Beh sicuramente la title track che penso abbia un pathos particolare. E’ strutturata in maniera molto articolata, e include sicuramente molti dei miei trademarks prediletti per un buon song writing. Ci sono le armonie vocali, le chitarre aggressive nei soli, ma anche una linea melodica trascinante ed evocativa. Insomma, un viaggio nel viaggio, ma sono molto contento di tutto l’album che alterna differenti moods sonori e lirici; le canzoni che ho scelto sono le migliori che avevo e come sempre scelgo solo i brani migliori che ho per fare un album. Ecco perche ci impiego cosi tanto per concludere una nuova avventura artistica! E’ come se dovessi sentire ogni brano dissociato dall’altro … devono piacermi tutti, singolarmente.


venerdì 29 luglio 2011

Gran Turismo Veloce-"di Carne, di Anima"



Avere tra le mani il CD “di Carne, di Anima”, primo album di “Gran Turismo Veloce”, fa immediatamente rimpiangere l’epoca del vinile, e questo prima di aver ascoltato la proposta. Chi ha vissuto quel periodo sa cosa intendo dire, e sa quanto fosse magico (ancora oggi lo è…) il messaggio visivo e quante soddisfazioni derivavano dal toccare, annusare, leggere e ammirare un contenuto, che oggi è davvero difficile decodificare.
Ritengo che l’art Work faccia parte del prodotto, esattamente come le tracce musicali, e penso che anche in fase live si dovrebbe trovare il modo di inglobare le immagini significative nella performance. Nel corso dell’intervista emergono le motivazioni specifiche, ma vale la pensa spendere qualche parola sulla cover, che potrebbe rappresentare la filosofia musicale del gruppo.
Uno sfondo di assoluta tristezza, con mare, sabbia e cielo che si dividono le tonalità del grigio, con in bella evidenza un pesce allo specchio. Si gira pagina e lo sgombro irrompe nello specchio, uscendone letteralmente a fette, adagiandosi sulla sabbia, probabilmente “vivo”, ma profondamente diverso da prima. Un monito è scolpito nel cielo, all’entrata dello specchio: “ … a coloro che vivranno per sempre… “, quelli che forse non avranno mai il coraggio di osare. Osano invece i membri della band, rappresentati quindi senza capo. Osano con la loro musica, con i loro testi e, appunto, con le immagini cariche di significati.
Nove tracce “italiane” per un disegno sonoro che parte da molto lontano, da anni che i GTV hanno assimilato senza (purtroppo o per fortuna, dipende dai punti vista) viverli direttamente. Viene automatico affibbiare l’etichetta prog, contenitore dalle molteplici definizioni che in questa occasione mi piace definire”rock complesso”, essendo le composizioni molto articolate, varie, contaminate (positivamente) e di impegno, con un sottofondo ritmico che riunisce le variegate influenze dei componenti la band.
Come sottolineato nello scambio di battute a seguire, non ci si siede a tavolino per decidere uno stile da proporre, e mi pare di poter dire che “di Carne, di Anima” sia caratterizzato dalla libertà espressiva applicata a concetti ben chiari e schematizzati. Musica free, lasciandosi guidare dall’amore per il classico, il rock e il pop, ma su linee guida rigorose, con il risultato finale di un album davvero godibile che lascia spazio alla speranza rivolta all’affermazione di una nuova realtà musicale. La strada intrapresa è tra le più complicate possibili, ma, come sottolineavo inizialmente, mi pare che GTV, abbia il coraggio di osare, e non la voglia di stare a guardare.
Il futuro immediato potrebbe regalarci un concept album, nella migliore tradizione prog, e a fine intervista mi viene scherzosamente chiesto se “scriverlo” in italiano o inglese, ritornando ad una domanda precedente.
Italiano… inglese… cinese… la buona musica prescinde dall’idioma. Ma questo è risaputo.

Informazioni sulla band al seguente link:

Informazioni sull’album a fine post.



L’NTERVISTA

Ho letto dell’origine del vostro nome e del legame con gli anni ‘70. Da dove nasce l’amore per una musica che è cronologicamente lontana da voi?

La musica e l’arte in generale non hanno età, esattamente come l’amore. Il punto piuttosto è che in quel periodo era ancora lecito sperimentare ed esprimersi senza costrizioni di sorta. E’ questo che a noi interessa: poter dire la nostra in totale libertà. Sicuramente in quel che facciamo il legame affettivo con la musica degli anni ‘70 è piuttosto evidente, soprattutto nei suoni che utilizziamo, ma l’etichetta “progressive” ci è stata regalata ex-post da chi ci ha ascoltato. Non ci sediamo a tavolino dicendo “OK, facciamo un pezzo prog”: semplicemente suoniamo quello che sentiamo dentro. La cosa interessante è che molti “puristi” del progressive storcono il naso quando i nostri brani finiscono dopo soli cinque minuti.

Che tipo di evoluzione personale vi ha portato alla nascita della band? Come vi siete formati, musicalmente parlando?

Ciascuno di noi ha sempre ascoltato molta musica, senza particolari preclusioni o gusti esclusivi. Claudio, il tastierista e cantante, studia jazz ma ascolta Alan Parsons, Flavio, il bassista, è il metallaro del gruppo che però gode con Bach, Stefano, il batterista, ha una passione per Frank Zappa ma adora anche Stewart Copeland dei Police, e io, Massimo, quello delle idee strane e delle chitarre, sono cresciuto a pane e Genesis ma mi “perdo” molta nella musica elettronica. Quando scriviamo quindi giochiamo a carte scoperte pescando nel mazzo quello che ci serve. Il bello di suonare nei GTV è che tutto scorre sempre in modo molto fluido: raramente discutiamo di come dovrebbe essere un pezzo. Tutto avviene naturalmente e lavorare così è molto stimolante.

Molti dei nuovi gruppi italiani scelgono di utilizzare la lingua inglese, privilegiando il suono alla facilità di comunicare un messaggio. Quanto è importante per voi la comprensione immediata delle vostre liriche?

In tanti, soprattutto giovani, non sanno che il prog è nato in Italia parallelamente al prog britannico. Potremmo parlare del prog italiano come di “musica tradizionale” senza allontanarci troppo dalla verità. E’ stato quindi naturale scrivere in italiano piuttosto che in inglese. Band come la PFM hanno scelto l’inglese solo in un secondo momento, solo dopo aver varcato i confini nazionali e solo quando il mercato glielo ha chiesto. L’assurdo, nel nostro caso, è che ci contestano l’italiano in Italia, mentre all’estero sono entusiasti della nostra scelta!

Che cosa pensate del rapporto tra nuove tecnologie e la visibilità che da esse si può ottenere? Si può stilare una sorta di bilancio tra benefici e problematiche?

Penso che potremmo parlare di un bilancio in pareggio: incidere un disco che suoni bene è oggi veramente alla portata di tutti, così come è alla portata di tutti far sentire la propria musica a tutti mettendola in rete. Se prima il problema era trovare un produttore che ti facesse registrare un disco, oggi il problema è far emergere dalla selva musicale la propria visione, le proprie idee. Purtroppo anche gli mp3 non aiutano in questo perché il file digitale spinge a un ascolto superficiale: prima compravamo un CD (quando non un vinile) e lo ascoltavamo fino allo sfinimento; ora, se un brano non convince al primo passaggio, si preme “delete” con disarmante facilità.

Come spieghereste il vostro progetto musicale e le vostre linee guida, a un giovane che decide di avvicinarsi alle composizione di impegno?

Una cosa che ci ha sempre fatto storcere il naso nelle varie rassegne e contest per band emergenti a cui abbiamo partecipato è che molto spesso i gruppi mancano di personalità: nascono cloni dei Muse o dei Subsonica, quando non dei Genesis. Molto raramente abbiamo sentito idee veramente nuove. Senza salire in cattedra, ma da compagni di classe, potremmo quindi consigliare di cercare la propria strada. E’ senz’altro più divertente. La musica è un mezzo perfetto per trovare la propria identità e la spinta dovrebbe essere la passione, non il “successo” (virgolette d’obbligo). A noi, che dal successo siamo ben lontani, la possibilità di fare un disco è arrivata quando meno ce lo aspettavamo. Di sicuro, non ci è mai mancata ne la determinazione, ne un po’ di sana disciplina.

Mi ha colpito la cover dell’album, che sarebbe un enorme stimolo per la creazione di una storia ricca di metafore. Che cosa vi ha spinto a evidenziare una simile immagine?

“di CARNE, di ANIMA” è figlio di un EP dal titolo “In un solo brivido”. Avevamo affidato la copertina al pittore grossetano Francesco Serino che disegnò per noi qualcosa che rappresentasse il momento subito prima di un evento imprecisato, l’attimo in cui si scatena il brivido che precede l’azione. Da EP a LP, dal brivido siamo passati all’azione, che è fatta appunto di carne e di anima, e la copertina del disco è quindi un’evoluzione fotografica per mano del fotografo grossetano Francesco Rossi, con il quale abbiamo sviluppato anche il resto del packaging. Non ci piace lasciare le cose al caso e ci incuriosisce e ci gratifica che le persone si domandino “perché questo pesce?”, ricamandoci su le loro storie ricche di metafore...

Se doveste fare una graduatoria dei cinque album più importanti della storia del rock… riuscireste a mettervi d’accordo?

La prima risposta che mi viene in mente è un rapido “NO” perché andrebbero definiti i parametri che rendono importante un disco. E, una volta definiti tali parametri, sarebbe comunque difficile stilare una graduatoria. Possiamo dirti i must di ognuno di noi: Sgt Pepper’s dei Beatles, Made in Japan dei Deep Purple, Live at Pompeii dei Pink Floyd, The Turn of a Friendly Card degli Alan Parsons Project.

Cosa pensate dello stato attuale del businnes musicale?

C’è solo da sperare che collassi su se stesso: le radio hanno cominciato a fare da produttori degli artisti da promuovere, i locali chiamano soltanto tribute band, le agenzie di booking e promozione rispondono sempre con un “siamo pieni”, le etichette e i produttori puntano sempre sui soliti noti. Ci ricolleghiamo in parte al discorso tecnologia/visibilità: l’offerta è tanta, tantissima, ma il vero problema è che manca sia l’educazione culturale del pubblico, sia la voglia di investire sul nuovo. La musica, più del cinema e della letteratura, proprio a causa dei mezzi tecnologici, viene trattata come cibo in un fast food. Dovrebbe nascere un movimento slow food anche per la musica, qualcosa che faccia tornare la voglia delle cose buone. Senti questa equazione: “Hamburger: Tokio Hotel = Filetto al pepe verde: GTV”. Si può dire “Tokio Hotel” in un’intervista?

Sono molto frequenti le collaborazioni live con musicisti importati del passato (niente a che vedere con le jam di 30 anni fa). Chi vi piacerebbe ospitare sul “vostro palco”?

Più che sul palco, ci piacerebbe scrivere con accanto qualche mostro sacro: un bel disco prodotto da Brian Eno, con Vangelis alle tastiere, David Gilmour alla chitarra, Sting alla voce, Pino Palladino al basso, il tutto magari missato da Alan Parsons. Facile, no?

Che tipo di soddisfazione trovate on stage?

La soddisfazione più bella è quella di guardare “down stage” e vedere che ci ascoltano sia i ragazzi di 16 anni che i nostalgici del prog. Ci sentiamo onorati perché certe cose succedono solo ai concerti dei grandi. Forse è la conferma che siamo sulla strada giusta ed è anche il più grande stimolo a far meglio. Poi, se da un lato ci dà fiducia nella gente, dall’altro ne toglie sempre di più al music business...

Cosa potrebbe esserci dopo “di CARNE, di ANIMA”?

In realtà la promozione del disco non è mai partita in grande stile per una serie di problemi legati a quanto dicevo prima, comunque abbiamo girato un videoclip per “La Paura” diretto da Stefano Lodovichi. Dovrebbe uscire a settembre e magari ci aiuterà a smuovere un po’ le acque. Nel frattempo stiamo scrivendo il nostro secondo disco, che con molta probabilità sarà un concept album, nella migliore tradizione del prog. E’ un idea che è nata quasi per caso, anzi direi per sbaglio, ma che ci ha affascinato da subito. Ci piacerebbe che fosse il mezzo per fare un altro passo in avanti… che dici lo scriviamo in italiano o in inglese?

NOTE
Produzione
Lizard Records
Distribuzione
Lizard Records
Line-Up
Claudio Filippeschi: voce, pianoforte e tastiere
Flavio Timpanaro: basso, voce secondaria Stefano Magini: batteria
Massimo Dolce: chitarre,programmazione loop, weird ideas
Tracklist
1. Anec Retrorsum
2. Sorgente Sonora
3. Misera Venere
4. Quantocamia
5. L'artista
6. L'estremo viaggiatore
7. La paura
8. Misera Venera (reprise)
9. L'indice e l'occhio

mercoledì 27 luglio 2011

ANSIRIA-"Il vuoto e la sua vanità"


Il vuoto e la sua vanità” è il primo album di ANSIRIA, band napoletana di cui fornisco indicazioni a fine post.

Sono arrivato a questo album attraverso Irvin Vairetti, leader del gruppo, ma anche membro dei mitici Osanna, assieme a Nello D’Anna. Conosco personalmente entrambi e quindi l’ascolto è stato una logica conseguenza.

Da queste prime righe è facile capire di come io stia scrivendo di giovani, ma esperti musicisti, che hanno la fortuna e la capacità di partecipare ad un progetto complesso, in ambito progressivo, ma che al contempo cercano una via personale, cercando di far coesistere proposte di qualità, ma certamente con differenti tratti caratteristici.

Quando Irvin mi parlò de “Il vuoto…” si premurò di avvisarmi delle diversità, tra l’album e la musica che, un paio di anni fa, mi aveva portato a conoscerlo.

Beh, i binari della musica viaggiano paralleli quando in comune c’è la qualità, e non il genere proposto!

Undici tracce di cui dieci inedite (“l’Uomo” è l’omaggio agli Osanna), cantate per dieci undicesimi in italiano. Nell’intervista a seguire molti risvolti reconditi vengono a galla, così come le motivazioni guida del progetto.

Oltre agli ottimi musicisti della band, il “disco” vede la partecipazione di illustri ospiti come Lino Vairetti (Osanna) / Raffaele Giglio (The Gentlemen’s agreement) / Max Fuschetto / Adriano Rubino (Inner City Affair).

Il comunicato stampa ufficiale parla di “nuovo rock d’autore”, ma al di là delle etichette direi che è un disco piacevole e completo, laddove il “piacevole” è rivolto alla forma canzone, che non richiede l’assoluta concentrazione che spesso caratterizza certi ascolti; il termine ”completo” associa invece la “facilità di fruizione” a trame musicali difficili e piene di momenti “rock”, con i testi di Irvin incentrati sul quotidiano, trattati con grande sensibilità, ma con un’attenzione inusuale all’utilizzo della parola, in una sorta di dimostrazione di bravura che, a memoria, non rilevo da molto tempo. E’ bene ricordare che la lingua italiana, applicata alla musica, presenta difficoltà espressive che possono far perdere i veri significati, quando si esce dal circolo chiuso “cuore-amore”.

Ma l’album “numero uno”è paradossalmente un primo bilancio di vita, contenitore in cui si esprimono e si amalgamano le esperienze pregresse, anche se si è giovani, e stupisce la maturità di questo album che, potenzialmente, poteva seminare qualche tranello “auto celebrativo”.

Il gusto della melodia, molto italiano, ma soprattutto napoletano, risulta evidente, e anche in questo riesco a vedere un discreto link con la musica prog, altra anima del gruppo (o almeno parte di esso), non dimenticando che il lato più gradevole della musica progressiva è quello che unisce la complessità delle composizioni ad atmosfere melodiose.

La musica rock fa da contorno a messaggi “pesanti” nella sostanza, e nobili nella forma… Ansiria da osservare da vicino!


L’INTERVISTA

Ho letto la derivazione del nome “Ansiria”, ma… qual è la vostra fissazione, il vostro capriccio musicale?

La fissazione sta proprio nella volontà di esprimersi a tutti i costi attraverso la musica. Sembrerà banale, ma tra le mille difficoltà economiche, organizzative e promozionali che ci troviamo ad affrontare quotidianamente, sentiamo la necessità di affermare questo nostro “capriccio” come valvola di sfogo dei nostri pensieri e delle nostre sensazioni sul mondo e su ciò che ci circonda.

Sempre restando in tema “definizioni”, cosa vi ha portato al titolo “Il vuoto e la sua vanità”?

Innanzitutto è un frammento del testo di uno dei brani “Riuscirò”. Diciamo che nei testi in generale è presente una visione della realtà e della società a cui apparteniamo, che vediamo un po’ in conflitto tra innumerevoli contraddizioni, e dove chi vuole realizzare un obiettivo così semplice come il volersi esprimere liberamente è invece condizionato da un omologazione culturale che impone quasi la scelta di adattarsi a degli stereotipi “vuoti” di senso, ma contemporaneamente densi di un appariscenza (la vanità appunto) che distrae dai contenuti.

Sono abituato a vedere te e Nello in un contesto diverso dove, musica a parte, esistono liriche che arrivano dal passato e che avete ereditato. Che valore ha il potersi esprimere attraverso testi che rappresentano il vostro pensiero e non quello di altri? Credete nel messaggio portato attraverso le parole musicate?

Diciamo che gli Osanna hanno portato avanti sempre un messaggio sia musicale che testuale molto innovativo rispetto ad altri gruppi a loro contemporanei, che invece viravano verso intellettualismi e sofisticazioni musicali troppo fini a se stessi, a mio giudizio. Credo che questo abbia contribuito a rendere gli Osanna ancora attuali nella comunicazione e noi “nuove leve” ne riusciamo a condividere con convinzione il messaggio. Testi esistenzialisti come l’Uomo (non a caso scelta nel disco come cover/omaggio ai nostri Osanna) non hanno tempo e li può sentire propri un diciottenne come un sessantenne. I testi degli Ansiria, da un lato, ereditano la volontà di riflettere profondamente e senza condizionamenti, dall’altro, sono orientati su una strada propria molto più metaforica che diretta. Siamo sempre alla ricerca di un modo diverso di dire le cose (che chiaramente può piacere o no), che non è artificio, ma è un ulteriore modo di rappresentare se stessi… quindi, sì, ci crediamo molto nel messaggio portato avanti attraverso le parole musicate!

All’interno dell’album esistono due atti differenti: l’omaggio agli Osanna e un brano in inglese. Come si inseriscono nel progetto?

Sono entrambi mondi musicali a cui ci sentiamo legati. Un po’ tutto il disco è caratterizzato da una marcata eterogeneità, voluta sia per rappresentare le diverse anime che ci hanno ispirato, che per una scelta provocata dalla stanchezza che ci procurano gli ascolti di dischi troppo uguali dall’inizio alla fine.

Il vuoto e la sua vanità” poteva nascere solo a Napoli o è indipendente da quel particolare tipo di cultura?

Non so risponderti con certezza. Da un lato, i nostri ascolti sono un po’ “esterofili”, dai Radiohead ai Motorpsycho, dagli Air agli Elbow, dai Blonde Redhead ai Fleet Foxes e chi più ne ha più ne metta, ma dall’altro lato tutti i messaggi musicali e le diverse ispirazioni sono filtrati attraverso uno stile interpretativo che caratterizza noi napoletani, meno razionale, ma spesso più profondo.

Quanto sono serviti i consigli di Lino Vairetti, sia in fase di progetto che di realizzazione?

Lino ha cercato di condizionarci poco o nulla. Ha desiderato che questo progetto potesse esprimere liberamente un’altra parte di noi. Le sue riflessioni sono giunte paradossalmente a lavoro finito e stampato e lo considera elegante e con delle belle canzoni emozionanti. Ciò che non ha condiviso è la scelta (un po’ inglese) di tenere la voce troppo dentro in alcuni mix... fortunatamente ne “L’Uomo” l’abbiamo ben messa in risalto... eh eh eh eh!

La strada da percorrere con “Ansiria” può viaggiare su di un binario parallelo a quello degli Osanna o c’è il rischio che si possa arrivare a qualche divergenza?

Penso che musicalmente si debbano fare delle scelte precise e coerenti con il proprio modo di essere. Negli Ansiria diamo sfogo ad un’altra parte della nostra sensibilità musicale e ciò può soltanto contribuire positivamente a vivere tutti i progetti di cui facciamo parte, con più serenità perché pienamente appagati. Viceversa gli Osanna sono una parte fondamentale di noi a cui non vorremmo mai rinunciare. Nella pratica basta sapersi organizzare e credere in un progetto più ampio che sia contenitore di varie espressioni musicali tra di loro contigue e coerenti. Poi di esempi del genere te ne potrei fare tanti, ad esempio: Thom Yorke dei Radiohed con gli Atoms for Peace e il suo progetto solista; ancora Eddie Vedder dei Pearl Jam e il suo progetto solista; restando in Italia Samuel cantante sia dei Subsonica che dei Motel Connection, e la lista potrebbe continuare!

Ma… come nasce la band? Vecchi amici o musicisti che si cercano in funzione dell’obiettivo?

Io e il chitarrista, Pasquale Capobianco, suoniamo e scriviamo canzoni insieme da più di dieci anni; diciamo che siamo diventati ormai inseparabili sia come amici che come musicisti. Il progetto lo abbiamo poi condiviso dal 2007/2008 con Nello D’Anna e con Marco Caligiuri (a cui è subentrato poi Andrea Paone), amici importanti e musicisti con cui abbiamo scelto di fare un percorso insieme.

Come è avvenuta la scelta degli special guest?

Scelte di stima e di affetto. Lino non poteva mancare proprio per rappresentare quella voglia di creare un ponte tra gli Osanna e gli Ansiria e con “L’Uomo” abbiamo trovato un terreno musicale comune. Max Fuschetto all’oboe ha scritto con noi i brani in cui è ospite ed è un importante riferimento nella nostra storia musicale. Raffaele Giglio è cantante di una band molto interessante (The Gentlemen’s Agreement) e lo abbiamo coinvolto in un brano che è molto vicino alle sue corde. Infine, Adriano Rubino, oltre ad essere un altro caro amico è un musicista di grande sensibilità e ha dato un colore giusto con il flicorno ad una parte strumentale in Everything.

Immagina il futuro di Ansiria nei prossimi tre anni.

Innanzitutto immagino… anzi sono certo che gli Ansiria continueranno ad esistere e produrre nuova musica (abbiamo già in cantiere un bel po’ di brani). Spero che la dimensione live sia sempre più protagonista perché è il momento in cui si avvertono le sensazioni più forti e stimolanti. Quindi immagino tour no-stop tra Osanna ed Ansiria, ipotizzando anche qualche show in cui ci sarà una continuità tra le due band. Nel frattempo Lino è spesso ospite dei nostri concerti, in cui dedichiamo, oltre l’Uomo, un omaggio agli Osanna con “Vado verso una meta”, “In un vecchio cieco”, “Lady power” e altri brani.




Membri

Irvin Vairetti: voce e chitarra
Pasquale Capobianco: chitarra
Nello D'Anna: basso
Andrea Paone: batteria
Marco Caligiuri: batteria
Alfonso La Verghetta: sound engineer

Etichetta discografica

Afrakà records - Full Heads

Biografia

Band napoletana di rock d'autore composta da Irvin Vairetti (voce, chitarra ritmica e piano) e Nello D'Anna (basso), membri della nuova formazione Osanna, Pasquale Capobianco (chitarra solista) e Marco Caligiuri (batteria). Il nome della band nasce dal termine napoletano 'nziria ovvero il capriccio, la ‘fissazione’, ma anche il voler comunicare il proprio modo di essere e di sentire il mondo attraverso la musica.
Gli Ansiria hanno collaborato in diversi ambiti musicali e teatrali con artisti di...

Contatto stampa

Carmine Aymone (Afrakà Records) - carmine.aymone@libero.it / In Event Comunicazione info@ineventcomunicazione.it

Sito Web

http://www.myspace.com/ansiria
http://www.ansiria.it


martedì 26 luglio 2011

WINTERAGE



La mia assidua attività di “osservatore della musica” mi ha dato come evidente vantaggio il continuo e facile aggiornamento per effetto di “materiale” che mi arriva senza cercarlo. Quello di cui parlerò oggi è frutto di un incontro casuale, in piena atmosfera concerto: quale miglior location per parlare di musica!?
Un conoscente mi saluta… mi presenta un padre il cui figlio suona in una band e in pochi minuti entro in possesso del primo EP dei Winterage, musicisti genovesi, tutti giovanissimi.
Sottolineo la parola”giovanissimi” perché è uno status in netto contrasto con ciò che questi ragazzi sono riusciti a realizzare in studio ( e da quanto sentito, anche dal vivo reggono la responsabilità). E la loro sorprendente “maturità” passa anche attraverso altri aspetti che hanno una certa importanza, e che vedo spesso presi in scarsa considerazione, perché ritenuti secondari rispetto alla musica. Parlo ad esempio di un sito, ben fatto, pronto anche per la versione in inglese, che è il primo luogo in cui si alimenta la curiosità, dopo aver sentito un brano o dopo che un nome di un musicista sconosciuto è arrivato alle nostre orecchie.
Difficilmente di questi tempi si può ottenere successo con la musica di impegno, ma avere un minimo di corretta visibilità è a mio giudizio imperativo per alimentare i propri sogni. Ovviamente tutto crollerebbe se non ci fosse dietro della valida musica.
Ventisette minuti suddivisi su 6 tracce, due della quali cantate, ci regalano il “mondo Winterage”, i cui dettagli scaturiscono dall’intervista a seguire.
Che tipo di musica propongono i Winterage?
Loro la definiscono Power Symphonic Metal”, termine per me, poco incline alle etichette, non usuale, ma che racchiude in se concetti molto chiari, che fondono perfettamente le culture e gli intendimenti dei cinque ragazzi di Genova. Le atmosfere ariose e quasi orchestrali, si fondono alle anime metalliche, più consone allo stato anagrafico medio, con l’aggiunta di ciò che è cultura antica.
La miscela è esplosiva e la qualità delle idee è davvero pregevole. La proposta di un mix tra antico, moderno e tradizione, trova illustri predecessori, ma l’accostamento tra violino, cornamuse e la cultura irlandese in genere, con l’anima metal dei componenti la band, poteva essere di difficile realizzazione se non ci fossero state alla base idee chiare e buona tecnica.
I peccati veniali, figli di un “progetto primo”, sono per me secondari, seppur presenti, perché quando alla qualità si accompagnerà la corretta esperienza fatta sul campo, le soddisfazioni arriveranno.
A quel punto sarà lo spirito di gruppo che potrà contribuire a calmierare gli umori e le situazioni. Ma se il buongiorno si vede dal mattino…
Tutte le info necessarie sono reperibili al seguente link:


Pagina FB:




L’INTERVISTA

Ho ascoltato il vostro album e la cosa che sorprende è la maturità della proposta, in contrasto con la vostra giovane età. Come siete arrivati a sviluppare l’amore per una musica così difficile, da creare e proporre, destinata a restare musica di nicchia?

Altri gruppi di fama, ad esempio i Rhapsody, hanno aperto la pista a questo tipo di contaminazioni, ma l’idea per la nostra musica non è nata unicamente come imitazione, poiché tutti noi abbiamo una sorta di “doppia personalità”: da una parte siamo dei “truci metallari” cresciuti con gli Iron Maiden, gli Helloween e gli Stratovarius, ma ciascuno coltiva parallelamente la passione per musiche diverse. Questo parallelismo ha portato a un’inevitabile fusione dei nostri gusti musicali.

Che tipo di formazione artistica avete alle spalle? Come nasce l’avvicinamento al mondo musicale?

Il nostro violinista Gabriele è cresciuto nella musica classica, figlio di orchestrali e insegnanti di musica, per poi avvicinarsi al metal proprio attraverso i gruppi ibridi tra i due generi. È recentemente entrato in conservatorio, dopo anni di lezioni private. Dario ha studiato privatamente il pianoforte, sospinto dai suoi genitori, per poi avvicinarsi alla musica tradizionale: nel frattempo il metal lo rodeva dall’interno. Riccardo è un chitarrista fondamentalmente solista, influenzato fortemente da personalità quali Satriani, Malmsteen e Timmons: attinge però le sue doti ritmiche dagli insegnamenti di gruppi quali In Flames, Dream Theather, Angra. Fondamentali per lui gli anni di lezioni presso la scuola G. Conte, frequentata anche dal cugino Dario. Davide è uno strano caso di batterista cresciuto a metà tra il metal e l’indie: trovatosi improvvisamente catapultato nel Power Metal, si sta adeguando egregiamente. Dopo un paio d’anni di lezioni private, ha proseguito il suo percorso per conto suo. Matteo, il classico metallaro, fornisce la base ritmica tipica del genere, coerentemente con ciò che insegnano gli Iron Maiden. Come Davide, anche Matteo ha preso lezioni per qualche tempo, per poi proseguire come autodidatta.

Non amo molto le etichette musicali, ma a volte servono per facilitare la comprensione della proposta. Come definireste la vostra musica, in parole semplici?

Ci proponiamo al pubblico come “Power Symphonic Metal”, anche se cerchiamo di rendere la nostra musica più ampia del semplice “Metal” e più varia del semplice “Symphonic”.
L’incontro, nell’album, di strumenti particolari è stato casuale o è la precisa ricerca di un sound che era già chiaro sin dagli inizi?

La nostra musica fin dall’inizio si è configurata in questo modo: ognuno ci mette del suo. Per cui Dario, suonatore di cornamusa e whistles irlandesi, ha giustamente voluto metterci del suo. Per quel che riguarda la parte classica, abbiamo voluto inserire il violoncello, il flauto traverso e la voce del soprano proprio per rendere il suono del disco più genuino e uscire un poco dall’ottica “tastieristica” tipica dei gruppi di questo genere.

Che tipo di rapporto avete con i testi? Pensate siano indispensabili o le emozioni si possono trasferire con la sola musica?

Finora i testi non sono stati la nostra priorità (anzi, a lungo abbiamo lavorato come gruppo unicamente strumentale), ma abbiamo intenzione di lavorare anche su questo aspetto. Ad ogni modo, il testo non ha il primato dell’espressività, come non lo ha la musica. Una canzone può avere un testo meraviglioso, che possa giustificare scelte musicali semplicistiche, o viceversa. Naturalmente, riuscire a contemperare i due aspetti dovrebbe essere l’obiettivo di tutti.

Che giudizio vi date in fase live? Riuscite ad interagire con l’audience?

Stiamo facendo un grosso lavoro sul live: effettivamente la nostra musica non è il solito hard rock che tanto si presta ad essere suonato facilmente dal vivo. Il rischio di rimanere sul palco impalati, concentrati sullo strumento, è un rischio reale. Noi ci stiamo impegnando per rendere i nostri show il più possibile coinvolgenti, sia dal punto di vista musicale, sia dal punto di vista dell’interazione col pubblico. Siamo ancora piccoli, e l’esperienza ci farà bene! Ci tengo comunque a precisare che il nostro genere è MOLTO penalizzato dal missaggio: per ottenere il suono che vogliamo, la nostra musica necessita di un mix molto accurato che spesso non è fornito dai piccoli locali del genovese.

Come avvengono le vostre creazioni? C’è chi solitamente porta l’idea principale sui cui “ricamare” o i brani nascono in piena collaborazione, sin dalla genesi?

Il nucleo della band, Riccardo, Dario e Gabriele, si occupa della composizione, per così dire, a pari merito. L’idea parte da uno dei tre, e solitamente tutti ci lavorano e forniscono il proprio apporto. Davide collabora naturalmente sotto l’aspetto ritmico, e Matteo cura le linee di basso, senza mancare di proporre alcune sue idee anche sulla composizione dei brani.
Che tipo di rapporto avete con la sperimentazione e, più in generale, con l’utilizzo delle nuove tecnologie?

Non possiamo dire di accogliere la tecnologia a braccia aperte, poiché anche sotto il punto di vista tematico la nostra musica è legata al fantasy, al medioevo e alla mitologia, ma riusciamo a coniugare i due aspetti: in “The King of Fairies” si può ascoltare il suono della cornamusa, fabbricata a mano da artigiani irlandesi, mentre in “Power in My Veins” si può ascoltare un assolo di sintetizzatore dal suono tutt’altro che antico. Mettiamola così: finché la tecnologia riesce a non rovinare l’atmosfera fantasy/medievale della nostra musica, noi la utilizziamo.

Siete consci delle difficoltà che troverete nel proporre musica di qualità, anziché musica easy?

Le stiamo già incontrando! Sulla scena musicale genovese ci è già stato dimostrato quanto poco spazio ci sia per la nostra idea: nell’ambito metal, i locali più grandi si aprono unicamente alle cover-band, mentre la maggior parte dei locali chiude le porte a prescindere, quando sente parlare di “metal”. Fondamentalmente siamo metallari, e in più siamo metallari strambi: non è una grande base per sfondare nel mondo musicale. Se da un lato la componente melodica della nostra musica e la presenza del violino nella formazione possono incuriosire un pubblico anche estraneo all’ambito metal, dall’altro ci alienano buona parte del pubblico di “addetti ai lavori” della musica metal. Quello che ci lascia ben sperare è il successo ottenuto nel mondo da gruppi di questo genere, che sono riusciti a trovare un pubblico e a ritagliare una notevole nicchia di ascolti al “metal neoclassico”. Ad ogni modo il successo non è il nostro obiettivo primario, altrimenti suoneremmo, per l’appunto, musica easy.

Provate a sognare la vostra evoluzione musicale da qui al 2015.

Dopo la pubblicazione del loro primo EP, i Winterage lavorarono con dedizione per portare la propria musica a un livello compositivo e tecnico superiore. Grazie a qualche concerto un po’ più grande, insieme a gruppi del genere già affermati in Italia, riuscirono a ottenere qualche data fuori da Genova, e ad attirare l’attenzione del pubblico, diffondendo il proprio disco tra gli appassionati di Power Metal. Nel 2013 i Winterage iniziarono il lavoro su una nuova autoproduzione in LP, che ottenne l’attenzione di una piccola casa discografica indipendente: l’etichetta si offrì di produrre il disco in 1500 copie, e il gruppo iniziò nel 2014 un piccolo tour per promuovere il disco in giro per l’Italia. Grazie alla visibilità acquisita in seguito a questo tour, nel 2015 i Winterage iniziarono a ottenere le prime date estere in collaborazione con altri gruppi italiani e non. E vissero tutti felici e contenti? Ci sembra abbastanza verosimile (o, almeno, speriamo che lo sia) ma staremo a vedere...