sabato 29 agosto 2009

Jethro Tull a Riolo Terme


Il concerto del 4 luglio a Bergamo aveva lasciato l’amaro in bocca.
Location fantastica, Jethro Tull in forma, ma tempo infame e performance ridotta a 12 brani, per un totale di un’ora e quindici minuti:


Mi ero lasciato con tanti conoscenti ipotizzando un nuovo incontro per rivedere i Tull, a Riolo Terme, in provincia di Ravenna, il 27 agosto.
Decido all’ultimo minuto e alle 15.35 sono al cospetto del mitico Alessandro Gaglione, che nell’occasione somma il ruolo di eminenza tullica a quello di autista: il suo navigatore prevede un arrivo attorno alle 19.
Con noi una nuova e preparata fan, Caterina, conosciuta casualmente a Bergamo.
Il mio concerto inizia qui o meglio, è iniziato nel momento in cui ho deciso di partire.

Il viaggio di andata non pesa, abbiamo tante cose da scoprire e soprattutto l’eccitazione da evento imminente.
Escono fuori scalette ideali e Ale la butta lì:” Sarebbe bello ascoltare dal vivo Rocks on the Road!”.
Il navigatore ci aiuta a conoscere le colline di Riolo e all’ora prevista siamo davanti al parco fluviale, luogo in cui si svolgerà, forse il concerto.
Eh sì, forse, anche oggi il cielo lampeggia e tuona e qualcuno incomincia a pensare (e a dire) che sia io la causa di tutto ciò. Ma all’entrata in Riolo non c’era scritto “Città dell’acqua?!”
In coda trovo Danila e Ludovica, Giampiero/ Hamrin che non vedo da ottobre scorso, e Michele/Chea.
Mangiamo una piadina con i ciccioli ed entriamo.
Il palco e lo spazio antistante mi deludono un po’, così come l’insieme della location: a Bergamo, acqua a parte, era tutta un’altra cosa.
Qualche goccia cade e già prevediamo il peggio.

Alle spalle del bancone del mixer, trovo il merchandise, dove ovviamente la fa da padrone il gestore Wazza Kanazza, nell’occasione accompagnato dalla moglie Gemma.
Ad aiutarlo Maurizio Traina direttamente da Bergamo e alcuni amici romani.
Le prime gocce cadono e nell’attesa ci mettiamo al riparo in una fantastica discoteca all’aperto (ma con tettoia), vicina al merchandise.
L’opinione comune è che se le discoteche presentassero quel tipo di musica, anche noi personaggi un po’ vintage, potremmo approfittarne.
Non c’è tecno, ma ciò che viene diffuso dalle casse è il miglior stimolo al movimento:
Clapton, Free, AC/DC, Bowie, ZZ Top e così via.
Finalmente conosco Jacopo/Galeans e Debora e Simone, amici virtuali da anni, nomi che ora possono associarsi a un viso.

Inizia il gruppo spalla, i “MAMAMICARBURO” da Correggio, e abbiamo la possibilità di ascoltare un po’ di rock italico.
Sono emozionati e la gente é lì per i Tull. Ne sono consci e svolgono egregiamente la loro funzione. In ogni caso resterà per loro un ricordo indelebile: non è da tutti aprire per i Jethro!!!
Sento i commenti più disparati, ma la sezione ritmica mi convince e il chitarrista mi sembra ottimo.
Non amo sentire cantare il rock in italiano e ciò mi condizione nella valutazione del cantante, ma se dovessi scegliere tra i “Mama….” e qualche loro famoso conterraneo che riempie gli stadi come fossero bicchieri d’acqua beh… viva i Mamamicarburo.



I Jethro sono sul palco e inizia la solita magia.
Debora mi dirà più volte, nel corso della serata, che è sempre una grande emozione ascoltarli, e che bastano pochi dettagli per giustificare la spesa del biglietto. Concordo.
La voce di Ian non è buona (relativamente allo standard attualmente possibile), ma è forse un fatto legato a esercizi preliminari, se e vero che man mano che i brani si susseguono la qualità si stabilizza su livelli discreti.
Buono il lavoro del service.

Appaiono tutti in gran forma, e anche i nuovi arrivati O’Hara e Goodier, che non mi hanno mai convinto, si dimostrano all’altezza e più sciolti sul palco.
I brani ricalcano quelli ascoltati a Bergamo con alcune differenze, anche importanti, legate anche a una performance più lunga. Eh sì … il tempo regge!
A memoria manca “King Henry's Madrigal “, assoluta novità a Bergamo, ma ci sono le altre, Nothing is Easy, A new Day Yesterday, Mother Goose, Bourèe, Heavy Horses, Farm on the Freeway, This as a Brick.
A metà serata ciò che era stato evocato si materializza e assistiamo a una bella versione di Rocks on the Road.
A Bergamo Thick as a Brick era un tutt’uno con Aqualung, ma questa volta è presentato separatamente, sostituito dal mio brano preferito, My God.
E’ una versione assolutamente fantastica e l’energia che da sempre mi colpisce, quella che suggerisce i cambi di ritmo tra l’arpeggio iniziale e il successivo attacco “duro”, mantiene intatto il suo valore e, se possibile, lo rafforza.

Il pubblico partecipa, il pubblico canta, il pubblico balla e gradisce.
Il bis canonico arriva quando è quasi mezzanotte. Per bis canonico intendo ovviamente Locomotive Breath.
Concerto finito e coda composta. Non c’era il pienone.
Mi sono fatto vendere da Wazza un’altra maglia e il book sul tour del quarantennale e ho recuperato un poster dell’evento di Riolo. I soliti trofei da “… io c’ero!”
All’uscita un musicista da strada dall’aspetto poco rassicurante, imbraccia e amplifica la sua chitarra e si lancia nella peggior emulazione possibile del bis dei Jethro, e si scalda pure quando si accorge che lo sto riprendendo... e io che già pregustavo un bel bootleg!
Salutiamo solo Debby e Simone, gli altri sono ancora dalle parti del palco.
Il viaggio di ritorno è meno euforico, ma regna una certa soddisfazione.
Commentiamo positivamente la performance e ci divertiamo a disquisire su dettagli più o meno tecnici.
Ogni volta potrebbe essere l’ultima, e non è questa una visione pessimistica, ma solo la consapevolezza che ad una certa età si potrebbe anche decidere di cambiare vita e smettere di suonare con assiduità.

Sono le 4 del mattino quando arriviamo a Savona. Alle 8 devo essere in ufficio. Solo la musica ha questo potere!


lunedì 24 agosto 2009

"Il tempo di Woodstock" ( di Ernesto Assante e Gino Castaldo)


Qualche giorno fa, stimolato da un articolo di giornale relativo a Woodstock, mi ero lasciato andare ad una apologia d’ufficio che aveva il senso del “… non toccatemi Woodstock!”.
Lunedì 17, ancora in vacanza, mi trovavo in una libreria di Mondovì, dovendo cercare un paio di libri per un amico che festeggiava il mezzo secolo. A scelta completata do una occhiata alla sezione “musica” e mi capita tra le mani “ Il tempo di Woodstock”, di Ernesto Assante e Gino Castaldo”.
Fulminato dalla copertina, mi sono lasciato andare a divagazioni ad alta voce, raccontando al gestore del negozio come ci trovassimo in pieno quarantennale.
Lui mi ha guardato come un marziano, ma mi ha assecondato, sperando in un ulteriore acquisto. Ho divorato il libro. Il libro si fa divorare.
Non è ovviamente la mera storia di quei tre giorni, ma è il racconto di un’epoca che è culminata in Woodstock, evento che forse ha decretato la fine di un sogno.
Le analisi che tanto ci appassionano, sia esse storiche, religiose, musicali ecc., hanno sempre delle limitazioni temporali, e anche quando queste non sono chiare, ci sentiamo in dovere di fissare dei paletti e sentenziare, ad esempio, con quale album è nata la musica progressive, per restare in tema “musica”.
Con Woodstock non muore /cambia la musica e i suoi protagonisti, sul palco e fuori, ma si esaurisce una certa spinta fortificata dall’illusione che il mondo potesse essere diverso, per effetto dell’azione di uomini e donne mossi da nobili e semplici principi.
Nel libro è perfettamente raccontato il percorso che ha portato al famoso raduno, con approfondimenti sul contesto storico e sociale, elementi necessari per cercare di comprendere cosa volesse dire vivere alla fine degli anni '60, dall’altra parte del mondo.
Anche il racconto dei tre giorni di metà agosto 69 è appassionante, ed emergono dettagli di cui non ero a conoscenza .
Parlo di particolari legati ai musicisti, parlo di aneddoti legati alle varie performance e parlo di fatti tragici, come il massacro di Bel Air ad opera di Charles Manson e i suoi adepti, avvenuto una settimana prima dell’inizio del festival, e collegato in qualche modo al mondo hippie.


Il racconto si spinge un po’ più in la, temporalmente e geograficamente parlando, e viene evidenziato ciò che accadde con l’ovvio ritardo in Italia, arrivando sino alla politicizzazione dei concerti e, di fatto, alla loro sospensione.
E’ un libro che va assolutamente letto, da chi ha vissuto quel periodo e da chi vuole saperne di più, sulla musica e sulla storia di un’epoca.
Ma non è la voglia di parlare del libro che mi spinge a scrivere queste righe, bensì una domanda che si trova verso la fine. E’ un quesito a cui gli autori danno una risposta immediata e voglio provare a fornire un piccolo contributo.
Suona pressappoco così:” Cosa sarebbe stato Woodstock senza il film che lo racconta?”.
Senza ergermi a rappresentante di uno spicchio di popolazione, quella che appunto affollò le sale in quel periodo, mi limiterò a raccontare il mio ricordo, evidenziando che il film “Woodstock, tre giorni di pace, amore e musica”, gira regolarmente nel mio lettore DVD, e spesso utilizzo spezzoni di quell’evento per raccontare o per rivivere le emozioni di allora.
Incomincio nel dire che nell’agosto del 1969 avevo 13 anni, ascoltavo regolarmente musica rock, ma non avevo la libertà necessaria per potermi muovere in autonomia. Forse è stato un bene.
Ero insomma nella situazione in cui dovevo vivere gli eventi con ritardo, di rimbalzo, alimentandomi con quanto il convento passava, essenzialmente “Ciao 2001”.
Proprio da quelle pagine appresi del mega concerto, ma in Italia arrivò nel 1970, o almeno nella mia città, Savona.
Il film veniva proiettato nel mitico cinema Astor, all’entrata del centro storico.
Ora l’Astor non esiste più e al suo posto stanno costruendo un edificio.
Ricordo di aver fatto esattamente come descritto nel libro e cioè di essere rimasto in sala per diverse proiezioni in sequenza, e rammento anche di essere tornato nella sala il fine settimana successivo.
Più avanti sarebbe successa la stessa cosa per “Pink Floid a Pompei” e “Yessongs”.
Quella pellicola mi fece conoscere soprattutto il mondo hippie e scatenò la mia adolescenziale necessità di emulazione.
Di li a poco avrei iniziato a vestirmi con pantaloni a zampa di elefante, tuniche immacolate, capelli lunghi ( ma in casa dovevo in qualche modo ridurre la loro voluminosità!), patchouli, borse a tracolla, cafetani, e … musica.
Il mio primo concerto dal vivo risale al 1972, ma il naturale ritardo rispetto ai movimenti d’oltreoceano, fece sì che i figli dei fiori italiani si muovessero proprio in quel periodo.
Il ritardo di cui parlo non riguardò invece le droghe pesanti.
Nel libro viene descritto un confine temporale, oltrepassato il quale la droga diventa una cosa “differente”, ma nei miei ricordi ci sono schiere di disperati che del mondo hippie presero il “prima e il dopo” e ci arrivarono subito, unendo velocemente il positivo e il negativo.
Io mi sentivo attratto da quell’universo e da quella musica, ma non ero DOC, non avevo la propensione alla vita comunitaria, e non avevo nessuna intenzione di farmi il minimo male.
La mia ribellione era forse contenuta in quei lunghissimi capelli (che ahimè non ho più), che raccoglievo dietro alla nuca quando ero a casa, e che liberavo appena fuori dal portone, allargandoli al massimo e specchiandomi nelle vetrine dei negozi.
In questo caso esiste per me un limite ben preciso, testimoniato dall’ultima foto con i capelli sciolti, il 17 ottobre del 1973, giorno in cui mio padre non riuscì più a sopportare un figlio che, secondo lui, perdeva un sacco di occasioni per effetto di quell’aspetto da fricchettone.
E così partecipavo ai raduni, ai mini Woodstock di provincia (nel trimestrale contAPPUNTI, rivista dedicata al prog, ho recentemente raccontato il festival di Altare, Savona, una due giorni in mezzo al verde a cui parteciparono tra gli altri Battiato, Sorrenti, Circus 2000, Balletto di Bronzo), felice del contesto, ma preoccupato per ciò che vedevo, non assimilabile alla musica.
Il film di Woodstock scatenò in me tutto questo e immagino che sia stato il detonatore di migliaia di bombe pronte ad esplodere.
La prima cosa che mi colpì fu il luogo, la preparazione, la folla di ragazzi, anche se mai fui attratto dai disagi a cui gli hippies dovettero andare incontro.
La pioggia, il fango, la fame, la sporcizia, le precarie condizioni igieniche, la droga… elementi pittoreschi se vissuti da altri.
Ma dalla pellicola il tutto emergeva come gioioso.
Michael Lang girava in lungo e in largo per il green, utilizzando la sua moto negli spostamenti, e ricordo di essermi chiesto come un uomo così giovane potesse avere tali responsabilità organizzative.




Lang diventò per me famoso come Hendrix o i Canned Heat, e ancora oggi rappresenta un po’ il simbolo dell’evento, lui, hippie tra gli hippies, ma talmente concreto da scriver un pezzo di storia (non solo lui, come si evince dalla lettura).
Attraverso la pellicola arrivai a “Soul Sacrifice”(che acquistai in 45 giri) e a Santana.
Arrivai a Summertime Blues( anche quello "passò" a lungo nel mio mangiadischi) e a The Who(che già giravano sul mio registratore”Geloso” con “Substitute”).
E poi i brani di C.S.N& Y che fanno da colonna sonora( Long Time Gone, Woodstock), Alvin Lee che annuncia “I’m go home”, Grace Slick ”, Country Joe, Richie Havens, Sha Na Na, Arlo Gutrie, John Sebastian, Melanie, Joan Baez.
La performance di Hendrix invece mi ha sempre fatto soffrire, per effetto di immagini che rappresentano il “ vuoto” (relativo… 80000 persone ancora presenti) e ciò che rimane dell’evento.
Il film ha decretato la fortuna di tutta questi geni musicali, e il non potere essere ripresi, per sfortuna o per bizze da divi, come ben descritto nel book, ha inciso enormemente sul loro futuro artistico.
Cosa sarebbe stato Joe Cocker senza l’attacco di hammond di “With a little help for my friends” , senza il suo contorcersi scoordinato, senza la sua maglietta a macchie di leopardo (fu forse a causa sua se incominciammo a passare le nostre T-Shirt nella candeggina…)?



Esiste un ragionamento che noi ammalati musica facciamo quando abbiamo l’occasione di vedere gruppi storici e cerchiamo di collocarli in almeno uno dei tre raduni mitici (Monterey, Woodstock e Wight).
Mi è capitato recentemente di sentire The Who, all’Arena di Verona, e al mio figlioletto che aveva 9 anni ho detto:”Vedi, loro sono gli unici ad avere partecipato a tutti e tre gli eventi..” Parole al vento ovviamente .
Lo scorso anno ho visto Johnny Winter e un amico mi diceva:”… non mi piace molto, ma… ha suonato a Woodstock e non si può perdere!”.
E ogni volta che assisto a questi concerti penso sempre che potrebbe essere l’ultima occasione… in fondo stiamo parlando di “vecchietti” spesso mal conci!.

Per indole, per età, per situazioni contingenti, sono stato un hippie da quattro soldi e va bene così. Ma avrei voluto essere là su quel prato, e adesso ne avrei di cosa da raccontare.
Nel 1996, trovandomi libero e solo per un fine settimana in West Virginia, decisi di fare un viaggio senza meta, avendo a disposizione una buik azzurra tutta per me.
Sulla cartina stradale trovai scritto Woodstock e qualcuno mi disse che era a 150 km di distanza, in Virginia.
Partii senza indugio e arrivato sul posto scoprii che non era il luogo che cercavo, ma trattavasi di una località omonima e la vera Woodstock era altrove.
Scontata la delusione, ma l’eccitazione del viaggio, la speranza di potermi trovare in quel luogo, per me sacro, sono un ricordo sempre acceso.
Così come è sempre vivido il ricordo di quel mattino di inizio settembre, 1970, quando davanti al castello di Bossolosaco, luogo di vacanza, qualcuno portò la notizia che Jimi era morto, e il mio pensiero volò immediatamente verso la scena finale del film, tra inno americano distorto e spazzatura.

Questa che ho raccontato è solo una delle possibili influenze che il film “Woodstock” ha esercitato su un adolescente, troppo piccolo per trasgredire sino in fondo, troppo quadrato per “esagerare”, ma voglioso di rivivere quei momenti in modo poco critico, istintivo, lasciandosi prendere da un po’ di nostalgia e dal ricordo di un tempo spensierato.

Ancora sul film.
Tra i protagonisti( involontari) troviamo tanti bimbi, alcuni dei quali in fasce.
Sarebbe bello poterli ritrovare e sentire che cosa è stato traferito loro dai genitori e, per i più grandicelli, che cosa è rimasto di quei giorni.

Prima o poi ripasserò dalle parti di New York, e un giro al museo di Bethel non me lo toglierà nessuno:
saranno 13 dollari spesi con piacere!

giovedì 20 agosto 2009

"Effetto Pop"- Innocenzo Alfano


A inizio giugno ho partecipato alla presentazione di un libro, “Effetto Pop”, di Innocenzo Alfano.
Il resoconto di quella gradevole serata passata allo studio Maia di Genova è fruibile al seguente link:
http://athosenrile.blogspot.com/search/label/Innocenzo%20Alfano

Nell’occasione non avevo emesso particolari giudizi, preferendo l’attenta lettura piuttosto che “l’impressione da dibattito”.
Solo in questi giorni di vacanza mi sono buttato su “Effetto Pop”.
Il motivo di tanto ritardo è legato al fatto che accumulo libri, che poi vado a leggere secondo un ordine preciso e cioè rispettando il FIFR, acronimo coniato in questo momento, che sta a significare “First In, First Read”, ovvero… chi arriva per primo viene letto per primo (e gli altri in coda).
A volte faccio qualche deroga, ma in questo caso proprio non potevo, preso dal timore di dover “troppo controbattere”.
Se fossi un professionista dovrei scegliere una logica precisa per commentare una lettura, ma non lo sono (non è falsa modestia, ma un dato di fatto) e posso quindi permettermi… voli pindarici, approfittandone per mettere in campo le mie convinzioni.
Parto da una mia precedente affermazione( meglio dire speranza) che espressi su questo blog a Natale, quando nella mia letterina di fine anno consigliavo ai miei occasionali lettori un regalo per i figli: uno strumento musicale.
Ce ne sono di tutti i tipi e di tutti i prezzi e una chitarra o un flauto, al posto di un gioco della play station, possono fornire inaspettati stimoli dai sorprendenti risvolti.
Non è demagogia, in casa mia ci sono strumenti in quantità industriale, con cui mi diverto e con cui “giocano” i miei figli.
Cosa c’entra tutto questo con Innocenzo Alfano?
Uno dei suoi dogmi dichiarati, con cui concordo pienamente, è che per fare musica in modo ortodosso occorre conoscere la materia.
Ci si può anche inventare “musicisti”, ma la maggior parte delle volte si viene scoperti con le mani nel barattolo della marmellata, intenti a rubarla.
Chi si tuffa in queste “spiacevoli” situazioni ha spesso enorme successo di pubblico e questo è davvero frustrante per chi è attento osservatore, musicale e non.
A volte ci troviamo davanti a peccati di giovinezza e la saggezza legata all’età fa si che anche musicisti di successo sentano il bisogno di completarsi, nel segno del “non è mai troppo tardi”.
Un esempio che mi viene in mente è quello legato all’artista che mi ha dato le maggiori soddisfazioni, Ian Anderson.
Non ho mai sentito nessuno muovergli critiche per il fatto di essere un autodidatta… critiche a LUI, inventore di qualcosa che prima non esisteva nella grande famiglia del rock!
Eppure, a distanza di lustri dalla sua incredibile performance di Wight (mi sono sempre chiesto cosa provò il pubblico, abituato al rockblues tipico di quei raduni, nell’ascoltare”My God” , per me sintesi di perfezione e innovazione) Ian, influenzato dal know out musicale della figlia, sentì il bisogno di ricominciare da capo e “studiare “ seriamente il flauto, prendendosi una lunga pausa dal palco, deciso a cambiare totalmente la tecnica di esecuzione.
Immaginiamo uno sciatore dilettante che dopo 20 anni di discese da autodidatta si affida ad un maestro!!!
Dietro a cambiamenti simili non ci sono motivazioni economiche, ovviamente, ma solo la volontà di sentirsi “adeguato” da tutti i punti di vista musicali, avendo la certezza/speranza di poter dare sempre di più al proprio pubblico e a se stessi.
Questa lunga divagazione mi serve per concordare con il concetto base che Enzo fa emergere a più riprese: non ci si inventa musicisti, anche se chiunque può fare musica e avere sconfinato successo di pubblico.

“Effetto Pop” è un saggio da tenere come riferimento in una corretta biblioteca musicale.
Ritengo non sia un libro per tutti e dopo spiegherò il perché.

Alfano ci presenta mezzo secolo di storia musicale attraverso analisi scientifiche.
Ci racconta dell’importanza di Battisti e dei Beatles come apripista e conduttori verso un nuovo e affascinante percorso. Ci parla di artisti sopravvalutati e di altri poco considerati, nonostante la qualità tecnica. Opera da iconoclasta nei confronti di mostri sacri come Stones e Velvet.
Il coraggio non gli manca !
Ma è sufficiente andare un po’ controcorrente e dimostrare onestà intellettuale per scrivere un libro significativo?
Posseggo innumerevoli testi legati alla musica, ma mai avevo trovato un tale accanimento (in questo caso termine da considerarsi positivo) nello sviscerare il singolo problema, la singola canzone o il singolo album.
Enzo utilizza una ferrea disciplina che lo porta ad arrivare all’essenza dell’argomento trattato, avendo adeguata cultura musicale, ma soprattutto un inusuale rigore scientifico.
E le sue convinzioni, le sue conclusioni, sono spesso ripetute sotto diversa veste, come se ci fosse la consapevolezza che certi concetti non sono poi così facili da digerire, e quindi rimarcare ed evidenziare a più riprese non appare come l’imporre a tutti i costi il proprio pensiero, ma un metodo necessario al “riportare a terra” un scritto che ha bisogno di una certa metabolizzazione.
Questo trattato colto (non so se era nelle intenzioni di Alfano concepirlo così) non è quindi un libro per tutti, o meglio lo può diventare se l’effetto domino provocato dalla curiosità( e gli appassionati di musica sono generalmente curiosi) porta poi ad approfondimenti e a voglia di migliorarsi e di mettere in discussione il proprio credo radicato nel tempo.
Le note sensibili, le pentatoniche, gli accordi maggiori o minori, rappresentano cibo per pochi, ma non è detto che non possano trovare diversa diffusione.
Vorrei possedere la capacità di Alfano di analizzare una qualsiasi canzone e spaccarla in quattro, cercando le sfumature che sono dettagli per i più, ma note rilevanti per gli studiosi della materia.
Dalle pagine del libro, così come dall’incontro di giugno, un gruppo in particolare ne esce massacrato. Parlo dei Rolling Stones, dei quali Alfano salva un paio di dischi su una produzione che si dipana per nove lustri.
Ritengo (ma anche Enzo lo scrive) che gli Stones siano utilizzati come simbolo, come massimo esempio di gruppo sopravvalutato, ancorché considerato il più grande in assoluto degli ultimi 50 anni, ma le citazioni potevano essere diverse e numerose.
Non starò ora a fare l’apologia degli Stones , gruppo che ho amato molto, ma che ricorderei allo stesso modo se avesse concluso la carriera a metà seventies… in quegli anni sono state scritte canzoni da brivido, ma da un certo punto in poi le “pietre rotolanti” hanno trovato la loro principale giustificazione ad esistere essendo un' imbattibile macchina da soldi.
Nel corso del dibattito allo studio Maia, ricordo di avere obiettato che la pochezza tecnica di Keith Richards rispetto ad illustri colleghi, ad esempio, poteva anche essere considerata come inesperienza legata alla gioventù( il Richards chitarrista ritmico di oggi non mi pare malvagio!).
In fondo anche Pete Towshend a vent'anni spaccava solo chitarre, ma poi è riuscito a immaginare il mondo di internet quarant'anni prima che qualcuno lo realizzasse!
Ma esiste un atteggiamento di fondo in cui ritrovo molte differenze tra me e Enzo, tra il semplice appassionato di musica e lo studioso della materia.
Ciò non significa che la ragione debba risiedere assolutamente da un lato o dall’altro, ma semplicemente che ognuno vive la musica nel modo che più lo soddisfa, a seconda del proprio retroterra musicale e culturale, e le varie posizioni possono convivere.
La musica mi fa stare bene, ma non sono in grado di dare una spiegazione razionale al fatto che preferisco un gruppo piuttosto che un altro, ad esempio.
Sono solito dire che mi bastano trenta secondi di ascolto di un nuovo brano per capire se non lo riascolterò mai più o lo farò “passare” mille volte.
Questo è qualcosa di inspiegabile, che sfugge all’abilità tecnica, all’assolo virtuoso, alla genialità del compositore e dell’esecutore. Stessa cosa per i concerti… spesso la musica si mischia al contorno e non si sa bene quale sia l’aspetto più importante.
Ho sentito dire al bluesman Fabrizio Poggi che la diversità tra lui e il pubblico, durante i concerti , è solo nella differente posizione, uno di fronte all’altro, ed è questa una cosa che verifico spesso.
Da “Effetto Pop” emerge anche un senso di frustrazione, lo stesso sentimento che provo quando accade come un mese fa, quando mi sono trovato con altri 300/400 cuori palpitanti, a vedere Jack Bruce o Eric Burdon e la mia mente andava a certi indecenti cantanti italiani , capaci di riempire stadi come se niente fosse!!”
O come quando scopriamo che ragazzotti usciti dalle “fiction” defilippiane arrivano nientepopodimeno che al disco di platino dopo una sola settimana di vita.
O come quando penso che per fare un buon disco di musica prog ci si impiega anche due anni e per fare una canzone che vince Sanremo bastano poche ore!
E così, scorrendo le pagine del libro, si scopre che al povero Alfano è stata fatta un’offerta allettante legata allo “scrivere di musica”, salvo poi scoprire che esistono condizioni, paletti e scarsa libertà di espressione, e il ribellarsi ai condizionamenti porta alle conseguenze più ovvie.
I compromessi fanno parte del nostro quotidiano, ma non tutti li accettano, preferendo magari il ruolo di novelli Don Chisciotte, sperando che prima o poi la storia cambi.
Io, che ribadisco, sono un “utente della musica”, e non un attento musicofilo come Innocenzo Alfano, sono arrivato alla scontata conclusione che la musica non sia in grado di cambiare il mondo, come qualcuno ha creduto in tempi lontani, ma abbia un potere enorme, che è quello di far stare bene, di abbattere le barriere di ogni tipo, di incrementare la socializzazione, di vivere di azione … non solo passivamente.
E’ per tutto questo che rivedendo Keith Emerson sul palco, a distanza di anni, non mi sono soffermato sui suoi errori palesi, ma mi sono lasciato coinvolgere dall’evento; è per tutto questo che vedendo Roger Daltrey senza voce, sotto un nubifragio, non ho pensato a niente di imperfetto e mi sono goduto il più bel concerto della mia vita.
Questo è l’istinto e la razionalità che io rappresento.
La razionalità e l’istinto musicale sono sicuramente racchiusi nel DNA di Innocenzo Alfano, ma la sua capacità analitica e il suo coraggio sono qualità “per pochi”, qualità che impregnano “Effetto Pop” , anche se occorre avvicinarsi alla lettura senza preconcetti.
Che strano, soltanto oggi ho scoperto, grazie a Innocenzo Alfano, che i 45 giri di cui ci nutrivamo un tempo erano da 7 pollici: il dato è stato davanti ai miei occhi per anni e non me ne sono mai accorto!

Innocenzo Alfano (Cosenza, 1971) si è laureato in Scienze Politiche e in Cinema Musica Teatro presso l’Università degli Studi di Pisa. È autore dei seguenti volumi: Fra tradizione colta e popular music: il caso del rock progressivo. Introduzione al genere che sfidò la forma canzone (Aracne, 2004); Verso un’altra realtà. Cenni di strategia compositiva e organizzazione dei brani nella musica rock, da Jimi Hendrix al rock progressivo (Aracne, 2006); Argentina e Brasile: quale politica comune? Tentativi di strategia politica unitaria dalla presidenza Frondizi al Mercosur (Il Coscile, 2006). Scrive per contrAPPUNTI, quaderno quadrimestrale del Centro Studi per il Progressive Italiano.

mercoledì 5 agosto 2009

The Dubliners



Inizialmente conosciuti come The Ronnie Drew Folk, The Dubliners presentano diversi cambi di formazione fin dai loro inizi, nel 1962.
Il gruppo inizialmente comprende Ronnie Drew (voce/chitarra), Luke Kelly (voce e banjo), Barney McKenna (banjo/mandolino e voce) e Ciaren Bourke (voce/chitarra e armonica).
Il loro dubutto avviene nel 1964 quando vengono inclusi nelle compilation di The Hoot'nanny Show e Folk Festival, e nello stesso anno pubblicano il loro primo album omonimo.
Nel 1967 pubblicano il singolo che permette loro di raggiungere il successo: "Seven drunken nights", infatti, porta il gruppo in giro per il mondo.
Alcuni anni dopo, nel 1974, Bourke è costretto a lasciare la band per una grave malattia a seguito della quale muore nel 1988 a seguito di questo fatto, Drew decide di tentare una carriera solista, sostituito da Jim McCann, che però gli rilascia il posto cinque anni dopo.
Anche Kelly purtroppo muore.
Qualche anno dopo i The Dubliners riescono a risollevarsi con Eamonn Campbell, già collaboratore in alcuni album precedenti, nonchè produttore del disco Celebration, con la partecipazione dei Pogues.
Nel 1993 esce 30 Years a' Greying.
Nel 1995 Drew lascia la band per la seconda volta sostituito da Paddy Reilly.
Nel 2002 la band si riunisce temporaneamente per il quarantesimo anniversario, a cui fa seguito, nel 2006 , una partecipazione allo show tv "Legends of Irish Folk".
Il gruppo continua ad esibirsi in Europa: Barney McKenna e John Sheahan sono gli unici membri rimasti della formazione originale.