Il 2025 sarà ricordato come uno degli anni più dolorosi per
la musica contemporanea. Non solo per la quantità di artisti che ci hanno
lasciato, ma per ciò che rappresentavano: una generazione di miti che avevamo
creduto eterna. Figure che hanno attraversato decenni di storia, plasmando
generi, linguaggi, immaginari. La loro scomparsa non è solo un fatto di cronaca,
ma un passaggio epocale. È la sensazione, sempre più nitida, che stiamo
assistendo agli ultimi capitoli di un’epoca irripetibile.
Peter Yarrow è stato uno dei primi addii dell’anno. Con i Peter, Paul
and Mary aveva trasformato il folk in un gesto collettivo, un canto civile.
La sua eredità è racchiusa in brani come Puff, the Magic Dragon,
che oggi suonano come un invito alla memoria.
Pochi giorni dopo, il soul ha perso una delle sue voci più
incandescenti: Sam Moore, metà del leggendario duo Sam & Dave.
La sua potenza vocale è ancora tutta lì, in Soul Man o in
interpretazioni come Rainy Night in Georgia, che restituiscono la
profondità emotiva del suo timbro.
Marianne Faithfull, icona fragile e indomita, ha lasciato un vuoto che pesa
come una pagina strappata dalla storia del rock. La sua parabola artistica è
racchiusa in Broken English o nella più antica As Tears GoBy, che oggi sembrano due fotografie lontanissime della stessa vita.
Roberta Flack, voce di seta e di fuoco, se n’è andata a febbraio. Il suo
lascito è scolpito in brani come Killing Me Softly With His Song,
una delle interpretazioni più imitate e meno eguagliate della storia della
musica soul.
Con Garth Hudson è scomparso l’ultimo alchimista di The
Band, l’uomo che trasformava un organo in un paesaggio sonoro. Per capire
la sua importanza basta riascoltare Chest Fever o The Genetic Method, dove la sua impronta è inconfondibile.
Roy Ayers, invece, ha portato con sé il vibrafono più luminoso del jazz-funk. La
sua influenza è ovunque, dai club degli anni ’70 ai campionamenti dell’hip hop.
Un brano come Everybody Loves the Sunshine (non presente nei
risultati ma universalmente riconosciuto come simbolico) resta un manifesto del
suo stile.
David Johansen, anima dei New York Dolls, ha incarnato l’ironia e
l’eccesso del proto-punk newyorkese. Mike Peters, leader degli Alarm,
ha trasformato la sua battaglia personale in un atto di resistenza artistica.
Entrambi hanno lasciato un segno che merita di essere riascoltato attraverso i
loro brani più iconici.
E mentre i nomi continuavano ad accumularsi, uno dopo
l’altro, un pensiero ha iniziato a farsi strada: i nostri miti stanno
scomparendo. Non è un allarmismo, né un lamento nostalgico. È un dato
culturale. Stiamo assistendo alla fine naturale di una generazione che ha
definito il Novecento musicale e i primi decenni del nuovo secolo. Una
generazione che non avrà eredi diretti, perché il mondo in cui è nata non
esiste più.
Sly Stone, con la sua rivoluzione funk, e Brian Wilson, genio del pop più fragile e visionario, erano due poli opposti dello stesso universo creativo. Le loro opere - Family Affair, God Only Knows -restano testimonianze di un’epoca in cui la musica cambiava il modo di percepire il mondo.
James Senese, Jimmy Cliff... E ancora… Ozzy Osbourne, Perry Bamonte, Ace Frehley, Terry Reyd, Rick Davies, Chris Dreja, Mike Abraham, Mike Ratledge, Chris Rea.
Ognuno di loro rappresentava un modo diverso di raccontare la vita, Le loro voci erano geografie emotive. E ogni volta che una di queste voci si spegne, il paesaggio culturale cambia per sempre.
Eppure, in mezzo a questo lento svanire, resta una certezza: la
musica non muore con chi la crea. Ogni link, ogni ascolto, ogni brano che torna
a vibrare in una stanza è un atto di resistenza contro l’oblio. Forse è questo
il compito che ci resta: custodire, tramandare, riascoltare. Perché finché
qualcuno preme “play”, nessuno di loro è davvero perduto.
E forse, per salutare davvero tutti questi artisti, serve una canzone che non appartenga a uno solo di loro, ma che possa parlare a nome di tutti. Una canzone che sia insieme ringraziamento, confessione, promessa. Per questo, alla fine di un anno così, la scelta più naturale sembra essere “A Song for You” di Leon Russell: un brano che molti hanno interpretato, ognuno con la propria verità, come se fosse una lettera aperta al mondo. È un modo semplice e potente per dire ciò che accomuna tutte le voci che abbiamo perso: “Ho cantato questa canzone per te”.
