Lutto nel mondo del soul: si è spento
a 84 anni il chitarrista e produttore che, con Booker T. & the M.G.’s, ha
definito il suono della Stax Records ed è stato l'autore di capolavori come
"(Sittin' On) The Dock of the Bay"
Steve Cropperci ha lasciato. Il leggendario chitarrista, compositore e
produttore discografico, si è spento a Nashville ieri, 3 dicembre, all'età di
84 anni. Conosciuto affettuosamente come "The Colonel",
Cropper è stato uno dei pilastri fondamentali che hanno plasmato il suono del soul
americano.
La sua carriera è indissolubilmente legata alla Stax
Records di Memphis. Cropper era il chitarrista della house band della
storica etichetta, i Booker T. & the M.G.'s, un gruppo strumentale e
multietnico che non era solo un'eccezionale macchina da groove ("Green Onions", "Time Is Tight"), ma anche il motore ritmico
dietro alcune delle più grandi voci del soul e R&B.
La sua chitarra Telecaster, caratterizzata da un approccio
essenziale, ritmico e mai fuori posto, ha fornito l'ossatura a capolavori
immortali.
Otis
Redding:
Cropper ha co-scritto e suonato in classici come "Sittin' On) The
Dock of the Bay", un brano che definì un'epoca.
Sam
& Dave: Il
suo tocco è presente su brani fondamentali come "Soul Man".
Eddie
Floyd: Ha
contribuito alla scrittura di "Knock on Wood".
La sua maestria nel dare alla canzone esattamente ciò che
serviva, senza virtuosismi inutili, lo ha reso uno dei musicisti di sessione più
rispettati di tutti i tempi. La rivista Rolling Stone lo ha classificato
tra i 100 più grandi chitarristi di sempre.
Per una generazione successiva, il suo volto e il suo suono
sono stati cementati dalla sua partecipazione ai The Blues Brothers. Nel
celebre film e nelle successive esibizioni, Cropper ha portato il suo
inconfondibile stile chitarristico nella band di John Belushi (Jake) e Dan
Aykroyd (Elwood), contribuendo a far conoscere la potenza del soul e del R&B
a un pubblico globale. Chi non ricorda l'urlo di Belushi: "Play it,
Steve!" in "Soul Man"?
Steve Cropper era anche produttore e arrangiatore, e ha
lasciato un'eredità musicale vasta e profonda che continua a influenzare
chitarristi e band di ogni genere.
Con la sua scomparsa, perdiamo un vero gigante della musica,
ma il suo groove immortale continuerà a suonare per sempre.
Il fattaccio
avvenne il 3 dicembre 1979, giorno in cui gli Who si esibirono al Riverfront Coliseum di Cincinnati (ora
noto come Heritage Bank Center) sito in Ohio: nell’occasione, il movimento
scomposto di una miriade di spettatori posizionata fuori dalle porte d'ingresso
causò la morte di 11 persone.
Gli Who erano
nel bel mezzo della tappa statunitense del loro tour mondiale, che iniziò a
settembre e prevedeva un totale di sette date divise tra il Capitol Theatre di
Passaic, New Jersey e il Madison Square Garden di New York City. La band si
prese quindi un po’ di tempo libero e ricominciò il tour il 30 novembre
all'auditorium del Detroit Masonic Temple.
Il concerto
di Cincinnati fu il terzo spettacolo proposto in quella sezione di tour, e
seguì quello alla Pittsburgh Civic Arena realizzato la sera prima.
Fu fu un tutto
esaurito, con 18.348 biglietti venduti, la maggior parte dei quali - 14.770 -
erano ticket d'ingresso generici, quindi non numerati/assegnati.
Poche ore
prima dello spettacolo una folla numerosa si era già radunata fuori dall'arena
e alle 19 erano presenti circa 7.000 persone.
L'ingresso avveniva
attraverso una serie di porte posizionate lungo tutta la parte anteriore dell'arena,
così come era possibile entrare da alcune porte piazzate su ciascun lato. La
folla si concentrò nei vari punti di accesso che però non furono aperti all'ora
prevista, facendo sì che la gente diventasse sempre più agitata e impaziente.
Quel giorno gli Who intrapresero un soundcheck tardivo. Parte dei presenti
in coda lo sentirono ed erroneamente credettero che il concerto fosse già
iniziato. Alcuni, posti nella parte posteriore, iniziarono a spingere, ma l’azione
terminò presto, quando ci si rese conto che non era possibile entrare e che il
concerto non era ancora iniziato.
Il pubblico era
stato originariamente informato da una stazione radio che i possessori di
biglietti generigi, non abbinati a posizioni assegnate (i GA), sarebbero stati
ammessi alle 15:00 e quindi alle 17:00 si era formata una folla considerevole. Anche
se ci si aspettava che tutte le porte venissero aperte contemporaneamente, ciò
accadde solo con un paio di esse - all'estrema destra dell'ingresso principale.
Mentre il pubblico entrava nello stadio attraverso queste due entrate, coloro
che aspettavano davanti a tutte le altre ricominciarono a spingere in avanti.
Dopo un breve periodo di attesa, bussando alle porte e al vetro accanto, i
presenti presunsero che nessuno degli accessi rimanenti sarebbe stato aperto.
Alle 19:15
circa iniziò il vero problema.
Rapporti
contrastanti suggerirono che i concertisti potessero sentire distintamente il soundcheck, o forse la colonna sonora del film “Quadrophenia”, ma qualunque fosse la
percezione, la folla pensò che gli Who fossero sul palco in anticipo rispetto
al previsto. A quel punto tutti si misero a spingere verso le due porte che
erano state aperte e ciò provocò il calpestamento di tanti, causando molti
feriti gravi. Undici di questi non furono in grado di sfuggire alla massa densa
che spingeva verso di loro e morirono per asfissia.
Il concerto
continuò come previsto, con i membri della band che non raccontarono della
tragedia fino alla fine della loro esibizione.
La notte
seguente, un lungo resoconto del fattaccio andò in onda sul CBS Evening News,
con la trattazione della connessione tra violenza e concerti rock.
Pete
Townshend fu intervistato dalla corrispondente di CBS News, Martha Teichner, che
si spinse al confronto tra le reazioni della folla ai concerti e quelle che avvengono nel
corso dei match di calcio e boxe, definendoli tutti "eventi ad alta
energia".
La notte successiva, nel corso del concerto di Buffalo, Roger Daltrey, rivolgendosi
alla folla disse: "Abbiamo perso molti componenti della nostra famiglia
ieri sera. Questo spettacolo è dedicato a loro.”
Conseguenze
A Providence,
Rhode Island, il sindaco Vincent A. Cianci annullò una performance programmata
al Civic Center della città nello stesso mese. Questo nonostante fossero previsti posti a
sedere assegnati. Trentatré anni dopo, la band tornò a Providence per onorare l’impegno
mancato del 1979.
Le famiglie
delle vittime citarono in giudizio la band, il servizio di promozione concerti
Electric Factory Concerts e la città di Cincinnati. La class action presentata
per conto di dieci entità fu risolta nel 1983, assegnando a ciascuna delle
famiglie di ogni defunto circa 150.000 dollari. La famiglia di Peter Bowes optò
per non partecipare alla class action e concordò un importo che non venne mai
divulgato. Circa 750.000 dollari furono divisi tra i 26 feriti. La città di Cincinnati impose, a partire dal
27 dicembre 1979 eper i successivi 25 anni, il
divieto utilizzare ticket di entrata per “posti a sedere non assegnati”, salvo
piccole eccezioni.
Le
undici persone che morirono nella ressa furono:
Walter
Adams Jr., 22 anni, Trotwood
Peter
Bowes, 18 anni, Wyoming, Ohio
Connie
Sue Burns, 21 anni, Miamisburg
Jacqueline
Eckerle, 15 anni, Finneytown
David
Heck, 19 anni, Highland Heights, Kentucky
Teva
Rae Ladd, 27 anni, Newtown
Karen
Morrison, 15 anni, Finneytown
Stephan
Preston, 19 anni, Finneytown
Philip
Snyder, 20 anni, Franklin
Bryan
Wagner, 17 anni, Fort Thomas, Kentucky
James
Warmoth, 21 anni, Franklin
L'incidente è
stato oggetto di un libro, “Are The Kids All Right? The Rock Generation And
Its Hidden Death Wish”, così come un episodio della seconda stagione di “WKRP
in Cincinnati” chiamato "In Concert". Ha anche ispirato scene del
film “Pink Floyd-The Wall”, la cui prima del 1982 vide la partecipazione
di Pete Townshend.
Nel 2004 la
città di Cincinnati ha definitivamente abrogato il divieto di utilizzare posti
a sedere non assegnati, due anni dopo aver temporaneamente fatto un'eccezione
per un concerto di Bruce Springsteen. L'obiettivo di revocare il divieto era
ovviamente quello di attirare altri grandi artisti. Tuttavia, la città ora
impone che ci siano nove piedi quadrati a persona in ogni luogo e il numero di
biglietti venduti per ogni evento viene regolato di conseguenza.
Paul
Wertheimer, il primo Public Information Officer della città al momento della
tragedia, ha continuato a far parte di una task force sul controllo della
folla, e in seguito ha fondato Crowd Management Strategies nel 1992, una
società di consulenza specifica con sede a Los Angeles.
Nel 2009,
trent'anni dopo la tragedia, la stazione rock WEBN/102.7 ha pubblicato una
retrospettiva sull'evento, includendo clip provenienti da notizie pubblicate
nel 1979.
Ogni primo
sabato di dicembre, i musicisti locali si esibiscono al P.E.M. Memorial, creato
nell'agosto 2010 per commemorare la vita di coloro che sono tragicamente morti
in attesa dell'ingresso al concerto.
Nel 2014, i
Pearl Jam hanno suonato in città e hanno ricordato la tragedia, dedicando alle
vittime di quel giorno una cover di "The Real Me" degli Who (https://www.youtube.com/watch?v=MmQBFMB-8W0).
Anche loro vissero
una tragedia simile nel 2000, quando nove persone morirono nella ressa durante
il loro concerto al Roskilde Festival.
Alla vigilia
del 35° anniversario dell’accaduto, il sindaco di Cincinnati John Cranley,
sotto la spinta di uncomitato
composto da tre sopravvissuti al concerto e da un membro della famiglia della
vittima Teva Ladd, decise l’inserimento di una targa commemorativa sul luogo
della tragedia, cerimonia avvenuta il 3 dicembre 2015.
Il 4 dicembre
2019, 40 anni dopo la tragedia, gli Who hanno annunciato che si sarebbero esibiti
a Cincinnati per la prima volta dopo gli avvenimenti del 1979. Lo spettacolo
era previsto per il 23 aprile 2020 alla BB&T Arena della Northern Kentucky
University, che si trova a pochi chilometri da dove si svolse il loro concerto
nel 1979. Tuttavia, è stato riprogrammato per una data non specificata a causa
della pandemia di COVID-19.
Pete
Townshend ha detto in un documentario andato in onda nell'anniversario della
tragedia: "Dobbiamo tornare a Cincinnati, e lo faremo appena possibile.
Sarebbe un'occasione gioiosa per noi, e una cosa curativa”.
Townshend ha
anche recentemente detto di essersi pentito del fatto che la band, quel giorno,
non fosse rimasta a piangere sul posto, la notte della tragedia, aggiungendo:
"Non ci siamo perdonati. Avremmo dovuto rimanere.”
Il Rock negli anni ’70 e dintorni — 4° incontro, Savona, 2 dicembre 2025
UN PO' DI RESOCONTO
La Sala Stella Maris si è confermata ancora una volta
gremita nel 4° incontro all’UniSavona del 2 dicembre, segno di un buon
consenso. Naturalmente, non tutti i gruppi incontrano il gradimento dell’intera
platea, visto che ognuno porta con sé gusti e sensibilità diverse. Tuttavia,
parlando del rock di quel periodo, certi nomi non si possono ignorare, perché
hanno indubbiamente segnato la storia della musica e sono entrati a far parte del tessuto culturale
americano, oltre che europeo.
La giornata si è aperta con l’ascolto di Spirit in the
Sky, di Norman Greenbaum, canzone del 1969 che mescola chitarra fuzz, cori gospel e un testo
ironico-spirituale. Un brano che anticipa le atmosfere psichedeliche e mistiche
che avrebbero caratterizzato il decennio successivo.
Il cuore della prima parte è stato dedicato alla conclusione
dell’argomento “Led Zeppelin”, iniziato
la volta precedente, in particolare al concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli
di Milano. Quella serata, che avrebbe dovuto essere una celebrazione del rock,
si trasformò in un disastro: lanci di lacrimogeni e atti pericolosi misero a
rischio pubblico e artisti. L’esperienza fu così traumatica che la band
dichiarò di non voler mai più tornare a suonare in Italia.
È stato poi ricordato il comunicato del 4 dicembre 1980, con
cui i Led Zeppelin annunciarono la fine della loro storia dopo la morte del batterista John
Bonham.
Si è evidenziato che la band si è riunita solo in quattro
occasioni:
1985 – Live Aid (Londra)
1988 – 40º
anniversario Atlantic Records (New York)
1995 – Rock
and Roll Hall of Fame (Cleveland)
2007 – O2 Arena (Londra), con Jason Bonham alla batteria
Si è menzionato il concerto del 2007, evento storico con
oltre 20 milioni di richieste di biglietti per una capienza di 20.000 posti. Il
Live Aid del 1985 sarà invece approfondito nel prossimo incontro extra di
venerdì sera, 5 dicembre; quell’evento, che vide la presenza di Phil Collins
alla batteria, non fu proprio soddisfacente dal punto di vista tecnico.
È stato segnalato come i Led Zeppelin, pur essendo
britannici, siano entrati a pieno titolo nel tessuto culturale americano. Un
esempio toccante è avvenuto al Kennedy Center Honors del 2012, quando la band
fu premiata alla Casa Bianca. In quell’occasione, altri artisti eseguirono Stairway
to Heaven - con Jason Bonham alla batteria - e i membri dei Led
Zeppelin si commossero ascoltando il loro brano reinterpretato come tributo.
Il passaggio dal primo al secondo argomento è stato curato da
Giacomo, che ha quindi introdotto gli Who. Anche loro, come i Led
Zeppelin, sono diventati parte integrante del tessuto culturale americano,
grazie alla forza dei loro brani e alla capacità di raccontare la società
attraverso la musica.
Si è partiti dagli inizi, con My Generation e Substitute, quest’ultimo ascoltato da me per la prima volta a soli otto anni, un ricordo
personale che ha dato colore al racconto.
Si è poi passati ad analizzare A Quick One (1966),
considerato un antesignano delle opere rock che sarebbero arrivate in seguito, Tommy e Quadrophenia. Questi lavori hanno mostrato la
capacità degli Who di trasformare il rock in narrazione teatrale e in
esperienza collettiva.
Infine, si è affrontato uno dei brani simbolo della band, Won’t
Get Fooled Again. Oltre alla versione originale degli Who, è stata proposta
anche l’esecuzione del Rockin’1000 di Linate, che ha dato nuova vita al
brano attraverso la forza di un’esecuzione corale e partecipata.
La lezione si è chiusa con un invito all’ascolto, lasciando
che la musica parlasse direttamente al pubblico, sempre numeroso e curioso. Il
prossimo incontro, tra 15 giorni, sarà l’ultimo dell’anno: oltre alla musica,
ci sarà, probabilmente, anche tempo per brindare insieme all’arrivo del Natale.
Chiunque abbia avuto modo di visionare la celebre performance
di 1000 musicisti che eseguono con potenza titanica "Won't
Get Fooled Again" degli The Who, ha assistito non a un
semplice concerto, ma a un'esperienza sonora di portata epocale.
Quella memorabile esibizione, registrata nell'estate del 2019
presso l'aeroporto di Milano Linate, non si è limitata a rendere omaggio a uno
dei più grandi inni rock della storia. Ha bensì cementato lo status di Rockin'1000,
un progetto musicale italiano unico nel panorama mondiale.
Rockin'1000 trascende il concetto di una semplice cover band,
affermandosi come un vero e proprio movimento. L'idea, concepita da Fabio
Zaffagnini (fondatore e General Manager del progetto), è tanto semplice
quanto rivoluzionaria: radunare un migliaio di strumentisti – chitarristi,
batteristi, bassisti e tastieristi, sia professionisti che amatoriali – e farli
suonare all'unisono.
Sotto la direzione energica di un maestro come Alex
Deschamps, l'obiettivo è la creazione del muro sonoro definitivo,
trasformando stadi e location inusuali (come le piste aeroportuali) in arene
del rock. La potenza emotiva e la perfetta sincronizzazione di mille musicisti
che attaccano il riff di "Won't Get Fooled Again" dimostrano la
capacità aggregativa della musica rock, che supera ogni immaginazione.
L'epopea di Rockin'1000 ha avuto inizio nel 2014 a Cesena. In
quell'occasione, un video virale vide 1000 musicisti implorare i Foo Fighters
di esibirsi nella città. L'obiettivo fu raggiunto, segnando il punto di svolta
del progetto.
Da allora, il format è esploso a livello internazionale,
portando la sua formula unica in giro per il mondo: da Madrid a Parigi, fino a
San Paolo in Brasile e in Portogallo.
Questa band composta da mille elementi non solo celebra la
grande musica, ma esalta i valori di comunità, passione e la capacità di
realizzare imprese ritenute impossibili. Dopo aver dominato il palco di Linate,
l'avventura è pronta a proseguire con nuove, incredibili tappe.
Dai Pink Floyd a Carla Boni, una
storia di reinterpretazioni italiane tra ironia, memoria e contaminazione
culturale
C’è un momento nella storia della televisione italiana in cui
tutto sembra possibile. È il 1986, e sul palco di Un fantastico
tragico venerdì appare Carla Boni,
icona della canzone melodica anni ’50, pronta a interpretare… Another
Brick in the Wall dei Pink Floyd.
Sì, proprio lei. La voce di “Casetta in Canadà”, il volto
rassicurante del varietà postbellico, si ritrova immersa in un’atmosfera da
college britannico, tra cori di bambini e synth da disco. Il pubblico è
spiazzato, ma anche affascinato: è come vedere la nonna che improvvisamente
cita Roger Waters.
La performance è breve, surreale, eppure memorabile. Carla
Boni non cerca di imitare i Floyd: li attraversa. Il testo è adattato,
l’arrangiamento è pop, il contesto è quello di una TV che gioca con i simboli
senza paura. Il risultato? Un piccolo frammento di cultura pop italiana che
oggi, a distanza di decenni, risplende come una gemma kitsch.
Il video, oggi disponibile su YouTube, è diventato una
curiosità d’archivio. Non è un fake, non è una parodia moderna: è una
testimonianza reale di come la musica rock, anche quella più iconica, possa
essere reinterpretata nei modi più inattesi. E forse, proprio per questo, più
autentici.
Carla Boni non distrugge il muro: lo decora. Lo rende suo. E
in quel gesto c’è tutta la libertà creativa di un’epoca in cui la televisione
osava mescolare generi, epoche e linguaggi. Un venerdì fantastico, sì. E anche
un po’ tragico. Ma indimenticabile.
Rock internazionale reinterpretato in Italia
Da Pink Floyd a Carla Boni – una
storia di contaminazioni
1979 - Another Brick in the Wall diventa un successo mondiale dei Pink
Floyd.
1980–1985 - La TV italiana sperimenta contaminazioni: varietà e
programmi musicali inseriscono brani rock in chiave pop e melodica.
1986- Carla Boni interpreta Another Brick in the Wall nello
show televisivo Un fantastico tragico venerdì. Performance surreale e
ironica, oggi reperibile su YouTube come curiosità d’archivio.
Anni ’90- Crescono le reinterpretazioni italiane di classici rock in
chiave dance e pop (cover di Queen, Led Zeppelin, Pink Floyd in programmi TV e
compilation).
2000–2010- Internet diffonde registrazioni d’archivio: emergono video
rari e reinterpretazioni dimenticate.
2018- Il video di Carla Boni viene caricato su YouTube, diventando
un piccolo fenomeno di culto tra appassionati di rock e cultura pop italiana.
Oggi- La performance è citata come esempio di “kitsch televisivo”
e reinterpretazione culturale, ponte tra tradizione melodica italiana e icone
del rock internazionale.
Ci sono dischi che non si limitano a essere ascoltati: si
attraversano, come si percorre un paesaggio mutevole. Volevo Andare Altrove, esordio degli Arianuova,
è uno di questi. Non è soltanto un album, ma un viaggio che mette in scena la
tensione umana verso un altrove indefinito, un bisogno che ci accompagna da
sempre e che diventa qui materia sonora.
L’apertura con Rota Fortunae è come un varco
improvviso: scale discendenti e vortici strumentali che evocano la ruota della
sorte, la vita che gira senza preavviso. È un preludio che non concede
certezze, ma prepara all’ignoto. Subito dopo, La strada buona diventa
manifesto: un canto di liberazione, il desiderio di cambiare direzione, di
respirare aria nuova. La voce si fa confessione, le tastiere disegnano scenari
che oscillano tra malinconia e speranza, mentre la chitarra apre squarci di
luce.
Il ponte dell’arcobaleno di Rainbow bridge ci porta in
una dimensione sospesa, dove mito e leggenda si intrecciano con la memoria
personale. Qui la musica diventa carezza, un conforto che non indulge nel
sentimentalismo ma lascia spazio a un respiro cosmico. Downfall, al
contrario, è tensione pura: riff incalzanti, voci campionate, un ritmo che
precipita fino al silenzio del piano elettrico. È la caduta, la fragilità di
chi rincorre il successo e si ritrova improvvisamente senza appigli.
La tempesta arriva e passa in La quiete dopo la tempesta,
otto minuti di progressione strumentale che alternano calma e turbolenza, fino
a un finale epico. È il brano che meglio mostra la capacità della band di
trasformare la narrazione in musica, senza mai perdere coerenza. Poi, La
commedia è finita: una ballata che riflette sulla fine dello spettacolo,
sul tramonto della musica dal vivo, ma anche sulla dignità di chi continua a
credere nel palco e nel pubblico. La voce di Zanon restituisce tutta la nostalgia
di chi sente svanire il calore delle mani che applaudono.
Il cuore del disco è la lunga suite L’orologio che andava
all’indietro. Sedici minuti che diventano un viaggio nel tempo, tra paure,
cadute, fughe verso la luce e ritorni alle origini. È un brano che chiede
ascolto attento, ma ripaga con intensità emotiva e costruzione narrativa. Qui
il tempo non è solo misura musicale: è esperienza, memoria, vertigine. A
chiudere, Fortunae rota volvitur riprende il tema iniziale della sorte,
riportando l’ascoltatore al punto di partenza, ma con la consapevolezza di aver
attraversato un cammino.
Volevo Andare Altrove è un album che si legge come un racconto e si ascolta come
un viaggio. Gli Arianuova non si limitano a citare il progressive, ma lo
reinventano come linguaggio per parlare di inquietudini contemporanee. È un
disco che chiede tempo e attenzione, ma che restituisce emozioni autentiche e
la sensazione di aver compiuto un percorso insieme agli autori.
Formazione
Daniele
Olia-tastiere, chitarre,
liuto, voci
Luca
Bonomi-batteria
Massimo
Zanon-voce
Michele
Spinoni-chitarra
Lista brani
1-Rota
Fortunae-3'30''
2-La
strada buona-5'20''
3-Rainbow
bridge-6'12''
4-Downfall-4'57''
5-La
quiete dopo la tempesta-8'10''
6-La
commedia è finita-6'45''
7-L’orologio
che andava all’indietro-15'45''
8-Fortunae
Rota volvitur-2'10''
Musica, testo e arrangiamenti: Daniele Olia
Mix e
masterizzazione: Luca Bonomi
Progetto
grafico: Daniele Olia
Tutti
i brani sono registrati e depositati presso SOUNDREEF
Oltre il mito: la profondità musicale
e spirituale di George Harrison, un'eredità che continua a risuonare
George Harrison. Il "Beatle silenzioso". Un
appellativo che, sebbene riconosca la sua indole più introversa rispetto agli
esuberanti Lennon e McCartney, rischia di oscurare la profondità e la
complessità di un artista che ha lasciato un'impronta indelebile nella storia
della musica. Andare oltre questo stereotipo significa esplorare le molteplici
sfaccettature di un uomo la cui spiritualità, il talento compositivo e la
ricerca di autenticità hanno plasmato la sua vita e la sua opera.
Le radici musicali di Harrison affondano negli anni della
formazione a Liverpool e nell'irresistibile ascesa dei Beatles. Il suo ruolo
all'interno della band, spesso sottovalutato, si rivela cruciale. Emerge un
chitarrista dalla tecnica raffinata e dal tocco inconfondibile, capace di
arricchire le melodie con riff iconici e assoli carichi di feeling. Ma
soprattutto, si afferma come un autore di crescente maturità, le cui
composizioni, inizialmente relegate ai lati B o a momenti secondari degli
album, hanno progressivamente conquistato spazio e riconoscimento, culminando
in gemme come "While My Guitar Gently Weeps", "Something"
e "Here Comes the Sun".
Un aspetto centrale della sua vita è il profondo percorso
spirituale intrapreso. Il suo interesse per la cultura e la filosofia indiana,
introdotto nella band durante le riprese di "Help!", lo ha condotto a
un'intensa ricerca interiore che si è riflessa non solo nella sua vita privata,
ma anche nella sua musica. L'introduzione di sonorità orientali, l'uso di
strumenti come il sitar e il sarod, e i testi intrisi di misticismo hanno
rappresentato una svolta significativa nel panorama musicale dell'epoca, influenzando
profondamente la creatività dei Beatles e aprendo nuove strade per la
sperimentazione sonora.
Dopo lo scioglimento della band, Harrison ha intrapreso una
carriera solista ricca e variegata, affrancandosi definitivamente dall'ombra
dei suoi celebri compagni. L'album triplo All Things Must Pass
(1970) è considerato un capolavoro, un'esplosione di creatività repressa che
spazia dal rock al gospel, dal folk alle sonorità orchestrali, con testi
profondi e personali. Questo periodo evidenzia la sua capacità di collaborare
con altri musicisti di talento e di spaziare tra diversi generi musicali,
mantenendo sempre una forte identità artistica.
La sua vita intima e personale rivela un uomo schivo ma
dotato di un acuto senso dell'umorismo, profondamente umano e autentico nella
sua ricerca di significato. Le sue relazioni, le sue passioni (come l'amore per
i motori e il cinema, testimoniato dalla fondazione della HandMade Films) e le
sue fragilità completano il ritratto di un artista complesso e sfaccettato.
In conclusione, George Harrison rappresenta una figura
fondamentale nella storia della musica. La sua evoluzione artistica e
spirituale, il suo contributo unico al suono dei Beatles e la sua prolifica
carriera solista testimoniano la profondità e la genialità del "Beatle
silenzioso", un'anima musicale che ha saputo far risuonare la sua voce
unica nel panorama del rock.
VI - ...AND THUS THE ENDnon è semplicemente un nuovo album,
ma il capitolo finale di una delle imprese concettuali più significative del
progressive rock contemporaneo. Con l'uscita di questo sesto lavoro, The
Rome Pro(G)ject si consacra come il concept project più lungo nella storia
del progressive rock, una "monumentale traversata musicale"
interamente dedicata agli eventi e alla grandezza dell'antica Roma.
L'idea originaria, concepita nel 2009 dal compositore e
tastierista Vincenzo Ricca, è evoluta da un singolo album a un vero e
proprio "laboratorio musicale aperto" che ha saputo attrarre e
rilanciare leggende internazionali del genere, un'iniziativa pionieristica nel
panorama prog. Ricca è il vero artefice del progetto, avendo curato concezione,
composizione, arrangiamento, esecuzione e produzione di tutte le tracce in
questo, come nei precedenti capitoli.
L'album presenta una tracklist di sei nuovi brani (più un
brano bonus) per una durata totale di 56:06 minuti. La cifra "VI" è
carica di simbolismo, ma anche di aneddoti, dato che l'album detiene il record
per il maggior numero di cambi di titolo durante la sua gestazione.
La tracklist evidenzia l'ambizione narrativa e la visione
progressiva di Ricca attraverso un contrasto stilistico estremo:
1229
Years (28:11):
è la traccia più lunga dell'intera saga.
...And
Thus The End
(1:23): è la traccia più breve della saga, creata all'ultimo minuto
durante le sessioni di mixaggio e che ha dato il titolo definitivo
all'album.
Dei sei brani, quattro sono interamente strumentali, mentre
due presentano contributi vocali:
"We
Wandered"
è cantata da Bernardo Lanzetti.
"Far
From Home"
è cantata dallo stesso Vincenzo Ricca.
Come da tradizione, il disco include un bonus track, che in
questo caso è una rivisitazione di un pezzo già edito: "Over 2,000
Fountains" in versione early demo, che vede la partecipazione
di David Cross.
La forza di "VI - ...AND THUS THE END"
risiede, ancora una volta, nell'eccezionale sinergia tra leggende e nuovi
talenti.
Steve
Hackett (chitarra
elettrica): ritorna per la sua sesta apparizione in un album di The Rome
Pro(G)ject, lo stesso numero di album in studio registrati con i Genesis,
un parallelismo carico di simbolismo.
David
Jackson (sax & flauti): L'artista detiene il record di presenze nel progetto,
apparendo con la sua sezione di fiati in tutti e sei gli album.
Tony
Levin (basso):
La sua seconda apparizione sostanziale nel progetto.
Billy
Sherwood (basso): Anche per lui è un secondo ritorno di alto profilo.
Bernardo
Lanzetti (voce):
Presta la sua voce per la terza volta, un'altra analogia con i suoi tre
album realizzati con la PFM, che connette idealmente il passato e il
presente del prog italiano.
Il progetto continua inoltre a valorizzare le nuove leve. Paolo
Ricca, figlio di Vincenzo, è accreditato per la chitarra elettrica, e Franck
Carducci (basso e chitarra 12 corde) è ormai un nome consolidato che
ritorna al fianco dei veterani.
"VI - ...AND THUS THE END" si preannuncia
come una conclusione degna di una saga decennale. L'album riesce a fondere ispirazione
storica, citazioni musicali, originalità e strumenti vintage amati dagli
appassionati di prog, dimostrando che la visione artistica di Vincenzo Ricca è
ancora la forza trainante di questo progetto ambizioso.
Con il suo mix di pezzi brevi e una traccia monolitica, e la
partecipazione di un cast di musicisti senza precedenti, l'album conferma la
posizione di The Rome Pro(G)ject come una delle imprese più ambiziose e
durature della scena progressive rock mondiale. È un'opera monumentale che
mescola storia e passione musicale.
Questo articolo nasce da un’intervista
realizzata con Edmondo Romano, inserendosi in un progetto editoriale più ampio
dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale. L’obiettivo è quello di
estrapolare contenuti e riflessioni per un racconto storico-critico che metta
in luce il rapporto tra creatività artistica e impronta tecnica nell’opera
dell’autore.
Un percorso tra
tradizione e innovazione
Romano si muove lungo una traiettoria
che attraversa epoche e linguaggi, coniugando la sensibilità del musicista con
la curiosità del ricercatore. La sua formazione, radicata negli strumenti
acustici, si è progressivamente aperta alle possibilità offerte dalle
tecnologie digitali. In questo passaggio non c’è mai stata una rottura, ma
piuttosto una continuità: la tecnologia diventa estensione dello strumento, non
sostituzione.
L’intervista ha messo in evidenza come
ogni scelta tecnica sia sempre stata guidata da un’urgenza espressiva. Romano
non considera gli strumenti elettronici come semplici mezzi di amplificazione,
ma come veri e propri partner creativi, capaci di generare nuove forme di
linguaggio.
La tecnologia
come linguaggio
Uno dei punti centrali emersi è la
consapevolezza che la tecnologia non sia mai neutra. Essa influenza la
scrittura, la performance e persino la percezione del pubblico. L’introduzione
di nuovi strumenti modifica inevitabilmente il modo di pensare la musica:
cambia la struttura, il ritmo, la relazione tra suono e silenzio.
In questo processo, la creatività rimane
il motore principale. La tecnica non è fine a sé stessa, ma diventa terreno
fertile su cui l’artista costruisce nuove architetture sonore. È un equilibrio
delicato, che richiede rigore e sensibilità, ma che permette di trasformare
l’innovazione in libertà espressiva.
Un tassello di
storia collettiva
Il racconto che emerge dall’intervista
non si limita alla dimensione personale. Romano diventa testimone di una storia
più ampia: quella dell’evoluzione musicale contemporanea, in cui la dialettica
tra arte e tecnica ha ridefinito il ruolo dell’autore. La sua esperienza si
inserisce in un mosaico di trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni,
mostrando come la musica sia sempre più un campo di sperimentazione condivisa
tra creatività individuale e strumenti collettivi.
In questo senso, l’opera di Romano non è
soltanto un percorso artistico, ma anche un documento storico. Essa racconta
come la tecnologia, lungi dall’essere un semplice supporto, si sia trasformata
in un vero e proprio linguaggio, capace di incidere sulla memoria culturale e
di aprire nuove prospettive di ascolto.
Conclusione
La visione musicale di Edmondo Romano
restituisce l’immagine di un artista che ha saputo attraversare le
trasformazioni tecnologiche senza mai perdere di vista la centralità della
creatività. La sua opera dimostra come la tecnica, lungi dall’essere un vincolo,
possa ampliare le possibilità espressive e ridefinire il rapporto tra autore e
pubblico.
La sua testimonianza si inserisce nel
progetto editoriale dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale come voce
autorevole e sensibile, capace di illuminare il dialogo tra arte e tecnica. Il
racconto invita a considerare la musica non solo come prodotto estetico, ma
come processo culturale e tecnologico, in cui ogni innovazione diventa
occasione di riflessione e di libertà creativa. È proprio in questa tensione
che si riconosce la forza dell’opera di Romano: un equilibrio dinamico tra
invenzione e rigore, tra memoria e futuro.