giovedì 4 dicembre 2025

Addio a Steve Cropper: è morto "The Colonel", chitarrista dei Blues Brothers



Lutto nel mondo del soul: si è spento a 84 anni il chitarrista e produttore che, con Booker T. & the M.G.’s, ha definito il suono della Stax Records ed è stato l'autore di capolavori come "(Sittin' On) The Dock of the Bay"


Steve Cropper ci ha lasciato. Il leggendario chitarrista, compositore e produttore discografico, si è spento a Nashville ieri, 3 dicembre, all'età di 84 anni. Conosciuto affettuosamente come "The Colonel", Cropper è stato uno dei pilastri fondamentali che hanno plasmato il suono del soul americano.

La sua carriera è indissolubilmente legata alla Stax Records di Memphis. Cropper era il chitarrista della house band della storica etichetta, i Booker T. & the M.G.'s, un gruppo strumentale e multietnico che non era solo un'eccezionale macchina da groove ("Green Onions", "Time Is Tight"), ma anche il motore ritmico dietro alcune delle più grandi voci del soul e R&B.

La sua chitarra Telecaster, caratterizzata da un approccio essenziale, ritmico e mai fuori posto, ha fornito l'ossatura a capolavori immortali.

La sua maestria nel dare alla canzone esattamente ciò che serviva, senza virtuosismi inutili, lo ha reso uno dei musicisti di sessione più rispettati di tutti i tempi. La rivista Rolling Stone lo ha classificato tra i 100 più grandi chitarristi di sempre.

Per una generazione successiva, il suo volto e il suo suono sono stati cementati dalla sua partecipazione ai The Blues Brothers. Nel celebre film e nelle successive esibizioni, Cropper ha portato il suo inconfondibile stile chitarristico nella band di John Belushi (Jake) e Dan Aykroyd (Elwood), contribuendo a far conoscere la potenza del soul e del R&B a un pubblico globale. Chi non ricorda l'urlo di Belushi: "Play it, Steve!" in "Soul Man"?

Steve Cropper era anche produttore e arrangiatore, e ha lasciato un'eredità musicale vasta e profonda che continua a influenzare chitarristi e band di ogni genere.

Con la sua scomparsa, perdiamo un vero gigante della musica, ma il suo groove immortale continuerà a suonare per sempre.








mercoledì 3 dicembre 2025

The Who, 3 dicembre 1979: l’incidente mortale


The Who, 3 dicembre 1979: l’incidente mortale


Il fattaccio avvenne il 3 dicembre 1979, giorno in cui gli Who si esibirono al Riverfront Coliseum di Cincinnati (ora noto come Heritage Bank Center) sito in Ohio: nell’occasione, il movimento scomposto di una miriade di spettatori posizionata fuori dalle porte d'ingresso causò la morte di 11 persone.

Gli Who erano nel bel mezzo della tappa statunitense del loro tour mondiale, che iniziò a settembre e prevedeva un totale di sette date divise tra il Capitol Theatre di Passaic, New Jersey e il Madison Square Garden di New York City. La band si prese quindi un po’ di tempo libero e ricominciò il tour il 30 novembre all'auditorium del Detroit Masonic Temple.

Il concerto di Cincinnati fu il terzo spettacolo proposto in quella sezione di tour, e seguì quello alla Pittsburgh Civic Arena realizzato la sera prima.

Fu fu un tutto esaurito, con 18.348 biglietti venduti, la maggior parte dei quali - 14.770 - erano ticket d'ingresso generici, quindi non numerati/assegnati.

Poche ore prima dello spettacolo una folla numerosa si era già radunata fuori dall'arena e alle 19 erano presenti circa 7.000 persone.

L'ingresso avveniva attraverso una serie di porte posizionate lungo tutta la parte anteriore dell'arena, così come era possibile entrare da alcune porte piazzate su ciascun lato. La folla si concentrò nei vari punti di accesso che però non furono aperti all'ora prevista, facendo sì che la gente diventasse sempre più agitata e impaziente.

Quel giorno gli Who intrapresero un soundcheck tardivo. Parte dei presenti in coda lo sentirono ed erroneamente credettero che il concerto fosse già iniziato. Alcuni, posti nella parte posteriore, iniziarono a spingere, ma l’azione terminò presto, quando ci si rese conto che non era possibile entrare e che il concerto non era ancora iniziato.

Il pubblico era stato originariamente informato da una stazione radio che i possessori di biglietti generigi, non abbinati a posizioni assegnate (i GA), sarebbero stati ammessi alle 15:00 e quindi alle 17:00 si era formata una folla considerevole. Anche se ci si aspettava che tutte le porte venissero aperte contemporaneamente, ciò accadde solo con un paio di esse - all'estrema destra dell'ingresso principale. Mentre il pubblico entrava nello stadio attraverso queste due entrate, coloro che aspettavano davanti a tutte le altre ricominciarono a spingere in avanti. Dopo un breve periodo di attesa, bussando alle porte e al vetro accanto, i presenti presunsero che nessuno degli accessi rimanenti sarebbe stato aperto.

Alle 19:15 circa iniziò il vero problema.

Rapporti contrastanti suggerirono che i concertisti potessero sentire distintamente il soundcheck, o forse la colonna sonora del film “Quadrophenia”, ma qualunque fosse la percezione, la folla pensò che gli Who fossero sul palco in anticipo rispetto al previsto. A quel punto tutti si misero a spingere verso le due porte che erano state aperte e ciò provocò il calpestamento di tanti, causando molti feriti gravi. Undici di questi non furono in grado di sfuggire alla massa densa che spingeva verso di loro e morirono per asfissia.

Il concerto continuò come previsto, con i membri della band che non raccontarono della tragedia fino alla fine della loro esibizione.

La notte seguente, un lungo resoconto del fattaccio andò in onda sul CBS Evening News, con la trattazione della connessione tra violenza e concerti rock.

Pete Townshend fu intervistato dalla corrispondente di CBS News, Martha Teichner, che si spinse al confronto tra le reazioni della folla ai concerti e quelle che avvengono nel corso dei match di calcio e boxe, definendoli tutti "eventi ad alta energia".

La notte successiva, nel corso del concerto di Buffalo, Roger Daltrey, rivolgendosi alla folla disse: "Abbiamo perso molti componenti della nostra famiglia ieri sera. Questo spettacolo è dedicato a loro.”



Conseguenze 

A Providence, Rhode Island, il sindaco Vincent A. Cianci annullò una performance programmata al Civic Center della città nello stesso mese.  Questo nonostante fossero previsti posti a sedere assegnati. Trentatré anni dopo, la band tornò a Providence per onorare l’impegno mancato del 1979.

Le famiglie delle vittime citarono in giudizio la band, il servizio di promozione concerti Electric Factory Concerts e la città di Cincinnati. La class action presentata per conto di dieci entità fu risolta nel 1983, assegnando a ciascuna delle famiglie di ogni defunto circa 150.000 dollari. La famiglia di Peter Bowes optò per non partecipare alla class action e concordò un importo che non venne mai divulgato. Circa 750.000 dollari furono divisi tra i 26 feriti.  La città di Cincinnati impose, a partire dal 27 dicembre 1979 e per i successivi 25 anni, il divieto utilizzare ticket di entrata per “posti a sedere non assegnati”, salvo piccole eccezioni.


Le undici persone che morirono nella ressa furono:


Walter Adams Jr., 22 anni, Trotwood

Peter Bowes, 18 anni, Wyoming, Ohio

Connie Sue Burns, 21 anni, Miamisburg

Jacqueline Eckerle, 15 anni, Finneytown

David Heck, 19 anni, Highland Heights, Kentucky

Teva Rae Ladd, 27 anni, Newtown

Karen Morrison, 15 anni, Finneytown

Stephan Preston, 19 anni, Finneytown

Philip Snyder, 20 anni, Franklin

Bryan Wagner, 17 anni, Fort Thomas, Kentucky

James Warmoth, 21 anni, Franklin

 

L'incidente è stato oggetto di un libro, “Are The Kids All Right? The Rock Generation And Its Hidden Death Wish”, così come un episodio della seconda stagione di “WKRP in Cincinnati” chiamato "In Concert". Ha anche ispirato scene del film “Pink Floyd-The Wall”, la cui prima del 1982 vide la partecipazione di Pete Townshend.

Nel 2004 la città di Cincinnati ha definitivamente abrogato il divieto di utilizzare posti a sedere non assegnati, due anni dopo aver temporaneamente fatto un'eccezione per un concerto di Bruce Springsteen. L'obiettivo di revocare il divieto era ovviamente quello di attirare altri grandi artisti. Tuttavia, la città ora impone che ci siano nove piedi quadrati a persona in ogni luogo e il numero di biglietti venduti per ogni evento viene regolato di conseguenza.

Paul Wertheimer, il primo Public Information Officer della città al momento della tragedia, ha continuato a far parte di una task force sul controllo della folla, e in seguito ha fondato Crowd Management Strategies nel 1992, una società di consulenza specifica con sede a Los Angeles.

Nel 2009, trent'anni dopo la tragedia, la stazione rock WEBN/102.7 ha pubblicato una retrospettiva sull'evento, includendo clip provenienti da notizie pubblicate nel 1979.

Ogni primo sabato di dicembre, i musicisti locali si esibiscono al P.E.M. Memorial, creato nell'agosto 2010 per commemorare la vita di coloro che sono tragicamente morti in attesa dell'ingresso al concerto.

Nel 2014, i Pearl Jam hanno suonato in città e hanno ricordato la tragedia, dedicando alle vittime di quel giorno una cover di "The Real Me" degli Who (https://www.youtube.com/watch?v=MmQBFMB-8W0).

Anche loro vissero una tragedia simile nel 2000, quando nove persone morirono nella ressa durante il loro concerto al Roskilde Festival.

Alla vigilia del 35° anniversario dell’accaduto, il sindaco di Cincinnati John Cranley, sotto la spinta di un comitato composto da tre sopravvissuti al concerto e da un membro della famiglia della vittima Teva Ladd, decise l’inserimento di una targa commemorativa sul luogo della tragedia, cerimonia avvenuta il 3 dicembre 2015.


Il 4 dicembre 2019, 40 anni dopo la tragedia, gli Who hanno annunciato che si sarebbero esibiti a Cincinnati per la prima volta dopo gli avvenimenti del 1979. Lo spettacolo era previsto per il 23 aprile 2020 alla BB&T Arena della Northern Kentucky University, che si trova a pochi chilometri da dove si svolse il loro concerto nel 1979. Tuttavia, è stato riprogrammato per una data non specificata a causa della pandemia di COVID-19.

Pete Townshend ha detto in un documentario andato in onda nell'anniversario della tragedia: "Dobbiamo tornare a Cincinnati, e lo faremo appena possibile. Sarebbe un'occasione gioiosa per noi, e una cosa curativa”.

Townshend ha anche recentemente detto di essersi pentito del fatto che la band, quel giorno, non fosse rimasta a piangere sul posto, la notte della tragedia, aggiungendo: "Non ci siamo perdonati. Avremmo dovuto rimanere.”

 

Questa la scaletta del concerto:

Substitute

I Can't Explain

Baba O'Riley

The Punk and the Godfather

My Wife

Sister Disco

Behind Blue Eyes

Music Must Change

Drowned

Who Are You

5:15

Pinball Wizard

See Me, Feel Me

Long Live Rock

My Generation

I Can See for Miles

Sparks

Won't Get Fooled Again

Encore:

Summertime Blues

The Real Me







martedì 2 dicembre 2025

Alla UniSavona si è parlato di Led Zeppelin e The Who

 


Il Rock negli anni ’70 e dintorni — 4° incontro, Savona, 2 dicembre 2025


UN PO' DI RESOCONTO


La Sala Stella Maris si è confermata ancora una volta gremita nel 4° incontro all’UniSavona del 2 dicembre, segno di un buon consenso. Naturalmente, non tutti i gruppi incontrano il gradimento dell’intera platea, visto che ognuno porta con sé gusti e sensibilità diverse. Tuttavia, parlando del rock di quel periodo, certi nomi non si possono ignorare, perché hanno indubbiamente segnato la storia della musica e sono entrati a far parte del tessuto culturale americano, oltre che europeo.

La giornata si è aperta con l’ascolto di Spirit in the Sky, di Norman Greenbaum, canzone del 1969 che mescola chitarra fuzz, cori gospel e un testo ironico-spirituale. Un brano che anticipa le atmosfere psichedeliche e mistiche che avrebbero caratterizzato il decennio successivo.

Il cuore della prima parte è stato dedicato alla conclusione dell’argomento “Led Zeppelin”,  iniziato la volta precedente, in particolare al concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli di Milano. Quella serata, che avrebbe dovuto essere una celebrazione del rock, si trasformò in un disastro: lanci di lacrimogeni e atti pericolosi misero a rischio pubblico e artisti. L’esperienza fu così traumatica che la band dichiarò di non voler mai più tornare a suonare in Italia.

È stato poi ricordato il comunicato del 4 dicembre 1980, con cui i Led Zeppelin annunciarono la fine della loro storia dopo la morte del batterista John Bonham.

Si è evidenziato che la band si è riunita solo in quattro occasioni:

1985 – Live Aid (Londra)

1988 – 40º anniversario Atlantic Records (New York)

1995 – Rock and Roll Hall of Fame (Cleveland)

2007 – O2 Arena (Londra), con Jason Bonham alla batteria

Si è menzionato il concerto del 2007, evento storico con oltre 20 milioni di richieste di biglietti per una capienza di 20.000 posti. Il Live Aid del 1985 sarà invece approfondito nel prossimo incontro extra di venerdì sera, 5 dicembre; quell’evento, che vide la presenza di Phil Collins alla batteria, non fu proprio soddisfacente dal punto di vista tecnico.

È stato segnalato come i Led Zeppelin, pur essendo britannici, siano entrati a pieno titolo nel tessuto culturale americano. Un esempio toccante è avvenuto al Kennedy Center Honors del 2012, quando la band fu premiata alla Casa Bianca. In quell’occasione, altri artisti eseguirono Stairway to Heaven - con Jason Bonham alla batteria - e i membri dei Led Zeppelin si commossero ascoltando il loro brano reinterpretato come tributo.

Il passaggio dal primo al secondo argomento è stato curato da Giacomo, che ha quindi introdotto gli Who. Anche loro, come i Led Zeppelin, sono diventati parte integrante del tessuto culturale americano, grazie alla forza dei loro brani e alla capacità di raccontare la società attraverso la musica.

Si è partiti dagli inizi, con My Generation e Substitute, quest’ultimo ascoltato da me per la prima volta a soli otto anni, un ricordo personale che ha dato colore al racconto.

Si è poi passati ad analizzare A Quick One (1966) , considerato un antesignano delle opere rock che sarebbero arrivate in seguito,  Tommy e Quadrophenia. Questi lavori hanno mostrato la capacità degli Who di trasformare il rock in narrazione teatrale e in esperienza collettiva.

Infine, si è affrontato uno dei brani simbolo della band, Won’t Get Fooled Again. Oltre alla versione originale degli Who, è stata proposta anche l’esecuzione del Rockin’1000 di Linate, che ha dato nuova vita al brano attraverso la forza di un’esecuzione corale e partecipata.

La lezione si è chiusa con un invito all’ascolto, lasciando che la musica parlasse direttamente al pubblico, sempre numeroso e curioso. Il prossimo incontro, tra 15 giorni, sarà l’ultimo dell’anno: oltre alla musica, ci sarà, probabilmente, anche tempo per brindare insieme all’arrivo del Natale.





Un migliaio di voci: "Won't Get Fooled Again" e l'ascesa di Rockin'1000


Chiunque abbia avuto modo di visionare la celebre performance di 1000 musicisti che eseguono con potenza titanica "Won't Get Fooled Again" degli The Who, ha assistito non a un semplice concerto, ma a un'esperienza sonora di portata epocale.

Quella memorabile esibizione, registrata nell'estate del 2019 presso l'aeroporto di Milano Linate, non si è limitata a rendere omaggio a uno dei più grandi inni rock della storia. Ha bensì cementato lo status di Rockin'1000, un progetto musicale italiano unico nel panorama mondiale.

Rockin'1000 trascende il concetto di una semplice cover band, affermandosi come un vero e proprio movimento. L'idea, concepita da Fabio Zaffagnini (fondatore e General Manager del progetto), è tanto semplice quanto rivoluzionaria: radunare un migliaio di strumentisti – chitarristi, batteristi, bassisti e tastieristi, sia professionisti che amatoriali – e farli suonare all'unisono.

Sotto la direzione energica di un maestro come Alex Deschamps, l'obiettivo è la creazione del muro sonoro definitivo, trasformando stadi e location inusuali (come le piste aeroportuali) in arene del rock. La potenza emotiva e la perfetta sincronizzazione di mille musicisti che attaccano il riff di "Won't Get Fooled Again" dimostrano la capacità aggregativa della musica rock, che supera ogni immaginazione.

L'epopea di Rockin'1000 ha avuto inizio nel 2014 a Cesena. In quell'occasione, un video virale vide 1000 musicisti implorare i Foo Fighters di esibirsi nella città. L'obiettivo fu raggiunto, segnando il punto di svolta del progetto.

Da allora, il format è esploso a livello internazionale, portando la sua formula unica in giro per il mondo: da Madrid a Parigi, fino a San Paolo in Brasile e in Portogallo.

Questa band composta da mille elementi non solo celebra la grande musica, ma esalta i valori di comunità, passione e la capacità di realizzare imprese ritenute impossibili. Dopo aver dominato il palco di Linate, l'avventura è pronta a proseguire con nuove, incredibili tappe.






Carla Boni canta i Pink Floyd – Un venerdì fantastico (e tragico)

 


Dai Pink Floyd a Carla Boni, una storia di reinterpretazioni italiane tra ironia, memoria e contaminazione culturale


C’è un momento nella storia della televisione italiana in cui tutto sembra possibile. È il 1986, e sul palco di Un fantastico tragico venerdì appare Carla Boni, icona della canzone melodica anni ’50, pronta a interpretare… Another Brick in the Wall dei Pink Floyd.

Sì, proprio lei. La voce di “Casetta in Canadà”, il volto rassicurante del varietà postbellico, si ritrova immersa in un’atmosfera da college britannico, tra cori di bambini e synth da disco. Il pubblico è spiazzato, ma anche affascinato: è come vedere la nonna che improvvisamente cita Roger Waters.

La performance è breve, surreale, eppure memorabile. Carla Boni non cerca di imitare i Floyd: li attraversa. Il testo è adattato, l’arrangiamento è pop, il contesto è quello di una TV che gioca con i simboli senza paura. Il risultato? Un piccolo frammento di cultura pop italiana che oggi, a distanza di decenni, risplende come una gemma kitsch.


Il video, oggi disponibile su YouTube, è diventato una curiosità d’archivio. Non è un fake, non è una parodia moderna: è una testimonianza reale di come la musica rock, anche quella più iconica, possa essere reinterpretata nei modi più inattesi. E forse, proprio per questo, più autentici.

Carla Boni non distrugge il muro: lo decora. Lo rende suo. E in quel gesto c’è tutta la libertà creativa di un’epoca in cui la televisione osava mescolare generi, epoche e linguaggi. Un venerdì fantastico, sì. E anche un po’ tragico. Ma indimenticabile.

 

Rock internazionale reinterpretato in Italia

Da Pink Floyd a Carla Boni – una storia di contaminazioni

 

1979 - Another Brick in the Wall diventa un successo mondiale dei Pink Floyd.

1980–1985 - La TV italiana sperimenta contaminazioni: varietà e programmi musicali inseriscono brani rock in chiave pop e melodica.

1986 - Carla Boni interpreta Another Brick in the Wall nello show televisivo Un fantastico tragico venerdì. Performance surreale e ironica, oggi reperibile su YouTube come curiosità d’archivio.

Anni ’90 - Crescono le reinterpretazioni italiane di classici rock in chiave dance e pop (cover di Queen, Led Zeppelin, Pink Floyd in programmi TV e compilation).

2000–2010 - Internet diffonde registrazioni d’archivio: emergono video rari e reinterpretazioni dimenticate.

2018 - Il video di Carla Boni viene caricato su YouTube, diventando un piccolo fenomeno di culto tra appassionati di rock e cultura pop italiana.

Oggi - La performance è citata come esempio di “kitsch televisivo” e reinterpretazione culturale, ponte tra tradizione melodica italiana e icone del rock internazionale.






domenica 30 novembre 2025

Arianuova -“Volevo Andare Altrove”

 


Arianuova -“Volevo Andare Altrove”

LizardRecords


Ci sono dischi che non si limitano a essere ascoltati: si attraversano, come si percorre un paesaggio mutevole. Volevo Andare Altrove, esordio degli Arianuova, è uno di questi. Non è soltanto un album, ma un viaggio che mette in scena la tensione umana verso un altrove indefinito, un bisogno che ci accompagna da sempre e che diventa qui materia sonora.

L’apertura con Rota Fortunae è come un varco improvviso: scale discendenti e vortici strumentali che evocano la ruota della sorte, la vita che gira senza preavviso. È un preludio che non concede certezze, ma prepara all’ignoto. Subito dopo, La strada buona diventa manifesto: un canto di liberazione, il desiderio di cambiare direzione, di respirare aria nuova. La voce si fa confessione, le tastiere disegnano scenari che oscillano tra malinconia e speranza, mentre la chitarra apre squarci di luce.

Il ponte dell’arcobaleno di Rainbow bridge ci porta in una dimensione sospesa, dove mito e leggenda si intrecciano con la memoria personale. Qui la musica diventa carezza, un conforto che non indulge nel sentimentalismo ma lascia spazio a un respiro cosmico. Downfall, al contrario, è tensione pura: riff incalzanti, voci campionate, un ritmo che precipita fino al silenzio del piano elettrico. È la caduta, la fragilità di chi rincorre il successo e si ritrova improvvisamente senza appigli.

La tempesta arriva e passa in La quiete dopo la tempesta, otto minuti di progressione strumentale che alternano calma e turbolenza, fino a un finale epico. È il brano che meglio mostra la capacità della band di trasformare la narrazione in musica, senza mai perdere coerenza. Poi, La commedia è finita: una ballata che riflette sulla fine dello spettacolo, sul tramonto della musica dal vivo, ma anche sulla dignità di chi continua a credere nel palco e nel pubblico. La voce di Zanon restituisce tutta la nostalgia di chi sente svanire il calore delle mani che applaudono.

Il cuore del disco è la lunga suite L’orologio che andava all’indietro. Sedici minuti che diventano un viaggio nel tempo, tra paure, cadute, fughe verso la luce e ritorni alle origini. È un brano che chiede ascolto attento, ma ripaga con intensità emotiva e costruzione narrativa. Qui il tempo non è solo misura musicale: è esperienza, memoria, vertigine. A chiudere, Fortunae rota volvitur riprende il tema iniziale della sorte, riportando l’ascoltatore al punto di partenza, ma con la consapevolezza di aver attraversato un cammino.

Volevo Andare Altrove è un album che si legge come un racconto e si ascolta come un viaggio. Gli Arianuova non si limitano a citare il progressive, ma lo reinventano come linguaggio per parlare di inquietudini contemporanee. È un disco che chiede tempo e attenzione, ma che restituisce emozioni autentiche e la sensazione di aver compiuto un percorso insieme agli autori.

 

Formazione

Daniele Olia-tastiere, chitarre, liuto, voci

Luca Bonomi-batteria

Massimo Zanon-voce

Michele Spinoni-chitarra

Lista brani

1-Rota Fortunae-3'30''

2-La strada buona-5'20''

3-Rainbow bridge-6'12''

4-Downfall-4'57''

5-La quiete dopo la tempesta-8'10''

6-La commedia è finita-6'45''

7-L’orologio che andava all’indietro-15'45''

8-Fortunae Rota volvitur-2'10''


Musica, testo e arrangiamenti: Daniele Olia

Mix e masterizzazione: Luca Bonomi

Progetto grafico: Daniele Olia

Tutti i brani sono registrati e depositati presso SOUNDREEF

Distribuzione album

Volevo andare altrove è disponibile presso:

BTF www.btf.it ,  GT Music    www.gtmusic.it , MaRaCash www.maracash.com , Pick Up www.pickuprecords.it  ,  Syn-Phonic  www.synphonicmusic.com

Inoltre, è disponibile in download digitale sulle principali piattaforme di streaming

Info e Contatti

www.lizardrecords.it

lizardopenmind@yahoo.it

infoqirsh@gmail.com

 

 

sabato 29 novembre 2025

George Harrison: oltre il silenzio, un'anima musicale profonda

 

Oltre il mito: la profondità musicale e spirituale di George Harrison, un'eredità che continua a risuonare


George Harrison. Il "Beatle silenzioso". Un appellativo che, sebbene riconosca la sua indole più introversa rispetto agli esuberanti Lennon e McCartney, rischia di oscurare la profondità e la complessità di un artista che ha lasciato un'impronta indelebile nella storia della musica. Andare oltre questo stereotipo significa esplorare le molteplici sfaccettature di un uomo la cui spiritualità, il talento compositivo e la ricerca di autenticità hanno plasmato la sua vita e la sua opera.

Le radici musicali di Harrison affondano negli anni della formazione a Liverpool e nell'irresistibile ascesa dei Beatles. Il suo ruolo all'interno della band, spesso sottovalutato, si rivela cruciale. Emerge un chitarrista dalla tecnica raffinata e dal tocco inconfondibile, capace di arricchire le melodie con riff iconici e assoli carichi di feeling. Ma soprattutto, si afferma come un autore di crescente maturità, le cui composizioni, inizialmente relegate ai lati B o a momenti secondari degli album, hanno progressivamente conquistato spazio e riconoscimento, culminando in gemme come "While My Guitar Gently Weeps", "Something" e "Here Comes the Sun".

Un aspetto centrale della sua vita è il profondo percorso spirituale intrapreso. Il suo interesse per la cultura e la filosofia indiana, introdotto nella band durante le riprese di "Help!", lo ha condotto a un'intensa ricerca interiore che si è riflessa non solo nella sua vita privata, ma anche nella sua musica. L'introduzione di sonorità orientali, l'uso di strumenti come il sitar e il sarod, e i testi intrisi di misticismo hanno rappresentato una svolta significativa nel panorama musicale dell'epoca, influenzando profondamente la creatività dei Beatles e aprendo nuove strade per la sperimentazione sonora.

Dopo lo scioglimento della band, Harrison ha intrapreso una carriera solista ricca e variegata, affrancandosi definitivamente dall'ombra dei suoi celebri compagni. L'album triplo All Things Must Pass (1970) è considerato un capolavoro, un'esplosione di creatività repressa che spazia dal rock al gospel, dal folk alle sonorità orchestrali, con testi profondi e personali. Questo periodo evidenzia la sua capacità di collaborare con altri musicisti di talento e di spaziare tra diversi generi musicali, mantenendo sempre una forte identità artistica.

La sua vita intima e personale rivela un uomo schivo ma dotato di un acuto senso dell'umorismo, profondamente umano e autentico nella sua ricerca di significato. Le sue relazioni, le sue passioni (come l'amore per i motori e il cinema, testimoniato dalla fondazione della HandMade Films) e le sue fragilità completano il ritratto di un artista complesso e sfaccettato.

In conclusione, George Harrison rappresenta una figura fondamentale nella storia della musica. La sua evoluzione artistica e spirituale, il suo contributo unico al suono dei Beatles e la sua prolifica carriera solista testimoniano la profondità e la genialità del "Beatle silenzioso", un'anima musicale che ha saputo far risuonare la sua voce unica nel panorama del rock.






venerdì 28 novembre 2025

"VI - ...AND THUS THE END": l'epica sonora di Vincenzo Ricca tra leggende del Prog e l'eternità di Roma

 


"VI - ...AND THUS THE END"

Vincenzo Ricca's The Rome Pro(G)ject 

La monumentalità di una saga finale 


VI - ...AND THUS THE END non è semplicemente un nuovo album, ma il capitolo finale di una delle imprese concettuali più significative del progressive rock contemporaneo. Con l'uscita di questo sesto lavoro, The Rome Pro(G)ject si consacra come il concept project più lungo nella storia del progressive rock, una "monumentale traversata musicale" interamente dedicata agli eventi e alla grandezza dell'antica Roma.

L'idea originaria, concepita nel 2009 dal compositore e tastierista Vincenzo Ricca, è evoluta da un singolo album a un vero e proprio "laboratorio musicale aperto" che ha saputo attrarre e rilanciare leggende internazionali del genere, un'iniziativa pionieristica nel panorama prog. Ricca è il vero artefice del progetto, avendo curato concezione, composizione, arrangiamento, esecuzione e produzione di tutte le tracce in questo, come nei precedenti capitoli.

L'album presenta una tracklist di sei nuovi brani (più un brano bonus) per una durata totale di 56:06 minuti. La cifra "VI" è carica di simbolismo, ma anche di aneddoti, dato che l'album detiene il record per il maggior numero di cambi di titolo durante la sua gestazione.

La tracklist evidenzia l'ambizione narrativa e la visione progressiva di Ricca attraverso un contrasto stilistico estremo:

  • 1229 Years (28:11): è la traccia più lunga dell'intera saga.
  • ...And Thus The End (1:23): è la traccia più breve della saga, creata all'ultimo minuto durante le sessioni di mixaggio e che ha dato il titolo definitivo all'album.

Dei sei brani, quattro sono interamente strumentali, mentre due presentano contributi vocali:

  • "We Wandered" è cantata da Bernardo Lanzetti.
  • "Far From Home" è cantata dallo stesso Vincenzo Ricca.

Come da tradizione, il disco include un bonus track, che in questo caso è una rivisitazione di un pezzo già edito: "Over 2,000 Fountains" in versione early demo, che vede la partecipazione di David Cross.

La forza di "VI - ...AND THUS THE END" risiede, ancora una volta, nell'eccezionale sinergia tra leggende e nuovi talenti.

  • Steve Hackett (chitarra elettrica): ritorna per la sua sesta apparizione in un album di The Rome Pro(G)ject, lo stesso numero di album in studio registrati con i Genesis, un parallelismo carico di simbolismo.
  • David Jackson (sax & flauti): L'artista detiene il record di presenze nel progetto, apparendo con la sua sezione di fiati in tutti e sei gli album.
  • Tony Levin (basso): La sua seconda apparizione sostanziale nel progetto.
  • Billy Sherwood (basso): Anche per lui è un secondo ritorno di alto profilo.
  • Bernardo Lanzetti (voce): Presta la sua voce per la terza volta, un'altra analogia con i suoi tre album realizzati con la PFM, che connette idealmente il passato e il presente del prog italiano.

Il progetto continua inoltre a valorizzare le nuove leve. Paolo Ricca, figlio di Vincenzo, è accreditato per la chitarra elettrica, e Franck Carducci (basso e chitarra 12 corde) è ormai un nome consolidato che ritorna al fianco dei veterani.


"VI - ...AND THUS THE END" si preannuncia come una conclusione degna di una saga decennale. L'album riesce a fondere ispirazione storica, citazioni musicali, originalità e strumenti vintage amati dagli appassionati di prog, dimostrando che la visione artistica di Vincenzo Ricca è ancora la forza trainante di questo progetto ambizioso.

Con il suo mix di pezzi brevi e una traccia monolitica, e la partecipazione di un cast di musicisti senza precedenti, l'album conferma la posizione di The Rome Pro(G)ject come una delle imprese più ambiziose e durature della scena progressive rock mondiale. È un'opera monumentale che mescola storia e passione musicale.





mercoledì 26 novembre 2025

Edmondo Romano: la voce degli strumenti e l’impronta della tecnica-Tratto da una chiacchierata con l'autore

 

Questo articolo nasce da un’intervista realizzata con Edmondo Romano, inserendosi in un progetto editoriale più ampio dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale. L’obiettivo è quello di estrapolare contenuti e riflessioni per un racconto storico-critico che metta in luce il rapporto tra creatività artistica e impronta tecnica nell’opera dell’autore.

Un percorso tra tradizione e innovazione

Romano si muove lungo una traiettoria che attraversa epoche e linguaggi, coniugando la sensibilità del musicista con la curiosità del ricercatore. La sua formazione, radicata negli strumenti acustici, si è progressivamente aperta alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali. In questo passaggio non c’è mai stata una rottura, ma piuttosto una continuità: la tecnologia diventa estensione dello strumento, non sostituzione.

L’intervista ha messo in evidenza come ogni scelta tecnica sia sempre stata guidata da un’urgenza espressiva. Romano non considera gli strumenti elettronici come semplici mezzi di amplificazione, ma come veri e propri partner creativi, capaci di generare nuove forme di linguaggio.


La tecnologia come linguaggio

Uno dei punti centrali emersi è la consapevolezza che la tecnologia non sia mai neutra. Essa influenza la scrittura, la performance e persino la percezione del pubblico. L’introduzione di nuovi strumenti modifica inevitabilmente il modo di pensare la musica: cambia la struttura, il ritmo, la relazione tra suono e silenzio.

In questo processo, la creatività rimane il motore principale. La tecnica non è fine a sé stessa, ma diventa terreno fertile su cui l’artista costruisce nuove architetture sonore. È un equilibrio delicato, che richiede rigore e sensibilità, ma che permette di trasformare l’innovazione in libertà espressiva.

Un tassello di storia collettiva

Il racconto che emerge dall’intervista non si limita alla dimensione personale. Romano diventa testimone di una storia più ampia: quella dell’evoluzione musicale contemporanea, in cui la dialettica tra arte e tecnica ha ridefinito il ruolo dell’autore. La sua esperienza si inserisce in un mosaico di trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni, mostrando come la musica sia sempre più un campo di sperimentazione condivisa tra creatività individuale e strumenti collettivi.

In questo senso, l’opera di Romano non è soltanto un percorso artistico, ma anche un documento storico. Essa racconta come la tecnologia, lungi dall’essere un semplice supporto, si sia trasformata in un vero e proprio linguaggio, capace di incidere sulla memoria culturale e di aprire nuove prospettive di ascolto.

Conclusione

La visione musicale di Edmondo Romano restituisce l’immagine di un artista che ha saputo attraversare le trasformazioni tecnologiche senza mai perdere di vista la centralità della creatività. La sua opera dimostra come la tecnica, lungi dall’essere un vincolo, possa ampliare le possibilità espressive e ridefinire il rapporto tra autore e pubblico.

La sua testimonianza si inserisce nel progetto editoriale dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale come voce autorevole e sensibile, capace di illuminare il dialogo tra arte e tecnica. Il racconto invita a considerare la musica non solo come prodotto estetico, ma come processo culturale e tecnologico, in cui ogni innovazione diventa occasione di riflessione e di libertà creativa. È proprio in questa tensione che si riconosce la forza dell’opera di Romano: un equilibrio dinamico tra invenzione e rigore, tra memoria e futuro.