“Girotondo”
è la terza uscita discografica di un talentuoso cantautore sardo, Nicola Pisu.
Lo scambio di battute
a seguire rivela un mondo di contenuti e situazioni che non poteva emergere
senza l’intervento del diretto interessato, che disegna un quadro preciso - e amaro
- di un contesto sociale drammatico che è ormai quasi dato per scontato e con
cui si convive, ognuno con i propri
demoni e sensi di colpa, a volte con lampi di reazione, spesso girando gli
occhi dove più conviene. E se arrivare all’assuefazione dei mali quotidiani non
è razionalmente giustificabile, è per lo meno capibile che, in alcuni casi, si
è sopraffatti dalla stanchezza e dalla delusione.
Essere artista, nel
senso ampio del termine, significa avere la possibilità di incidere
concretamente attraverso simboli che, una volta creati, non potranno mai più
essere cancellati, e con un po’ di fortuna o chissà cos’altro, potranno volare
e toccare ogni anima esistente sulla terra. Nicola Pisu è da inserire nella categoria dei privilegiati, uomini
e donne potenziali inventori di immagini che diventano indistruttibili. Il
rovescio della medaglia è che Nicola
Pisu sarà facilmente inseribile nella casella degli artisti frustrati, perché
dopo aver creato un simile album, il minimo che si possa chiedere è una larga
condivisione, cosa davvero difficile, per chiunque, di questi tempi.
Un poeta, un
musicista, un uomo che traspone nei suoi brani il suo esatto modo di vivere,
con un’enorme attenzione per le figure emarginate, che convivono all’interno di
ogni comunità, sopportati come pezzi di arredamento, purchè non esista alcuna
interferenza.
Girotondo è un album concettuale che racconta
che cosa accade dal di dentro, descrivendo come possono muoversi le pedine all’interno
della scacchiera, con mosse purtroppo quasi sempre prevedibili e una sofferenza
diffusa che non risparmia nessuno.
Il loop di Pisu presenta
come tessuto connettivo il tema della ghettizzazione, e trova conclusione nel “j’accuse”
verso chi si auto assolve, considerando la propria acquiescenza un
comportamento privo di colpe.
Don Andrea Gallo fa
capolino e battezza Girotondo, ma come Nicola dice non si tratta di influenza
determinante, ma piuttosto di condivisione di ideali comuni, che se per il “prete”
sono ormai eredità di cui usufruire - almeno si spera - per Pisu sono il credo
di tutto il suo percorso, e non vi è dubbio che tale DNA si trasformerà in un
impegno per la vita.
Dal punto di vista
musicale l’approccio riporta a De Andrè, che anche l’autore indica come
maestro. Col progredire dell’ascolto il profumo di Faber sparisce, perché ci si
impregna facilmente di uno stile che vive di luce propria, quello di Nicola Pisu.
Situazioni acustiche curate nei dettagli; utilizzo della tradizione, intesa come lingua e
strumentazione; momenti intimistici che occorre prendersi il tempo
di godere, di assaporare e comprendere; emozioni che sgorgano a ripetizione e
immagini che fungono da specchio e impongono un istantaneo confronto con se
stessi per arrivare alla questione: “Ma
io come sono?”.
Forse è proprio questa
la risposta al quesito che ho posto a Nicola relativo al ruolo del cantautore, che
potrei definire come “entità in grado di
smuovere le coscienze”.
Ho provato a
immaginare la possibile fase live di Girotondo,
che naturalmente richiede pubblico e luogo adatto, ma idealmente ho amplificato
le possibilità, e ho sintetizzato il tutto nella fotografia di un palco dove vanno in scena le storie di un “pappone
da quattro soldi”, di un senza tetto alla vigilia di Natale o di un mondo fatto
di zingari, tanto per citare alcuni episodi del disco.
Girotondo colpisce nel segno e condensa mali e problemi atavici che spaventano per
dimensione ma, soprattutto, per mancanza di reazione, singola ed organizzata.
Un grande disco, che
dovrebbe trovare spazi di visibilità adeguati, ed è amara la riflessione che
porta al parallelo con il passato, quando un disco come Girotondo non avrebbe faticato per essere notato: anche in questo
il degrado del sistema è palese.
Undici cartoline,
undici denunce, undici spunti di riflessione che non potranno lasciare
indifferenti i destinatari.
L’INTERVISTA
Domanda d’obbligo: chi
è Nicola Pisu? Come nasce e si evolve la necessità di espressione attraverso la
Musica?
Sono nato
nel 1973 in un paese del sud della
Sardegna, con tutti i pregi della vita di provincia e i difetti di non poter crescere
in città. La musica ha caratterizzato tutto il mio periodo giovanile e
successivamente quello di studente universitario di ingegneria civile con più
romanzi letterari che prontuari di costruzioni nella testa. La prima svolta
“artistica” l’ebbi verso i venticinque anni, periodo in cui vivevo a Cagliari e
incrociai Clara Murtas, ex Canzoniere del
Lazio, che inizialmente mi diede lezioni di canto e successivamente mi
prese nel suo Canzoniere del ‘900. In
seguito, mi appassionai alla canzone d'autore italiana e di scuola francese.
Solo nel 2008 feci la mia prima pubblicazione discografica, “Abacrasta e dintorni”, che si porta dietro
tutto il bagaglio culturale fino ad allora accumulato, dalla letteratura alla
musica. Il lavoro fu ritenuto interessante da una piccola parte di critica
musicale, quella che riuscii ad intercettare e nel 2012, La Locomotiva,
etichetta discografica indipendente torinese, ne divenne l’editore. Fino al
2013 la mia attività live è stata del tutto dormiente, salvo qualche esibizione
fugace.
Esistono artisti che
puoi considerare tuoi punti di riferimento?
Il mio
maestro, quello che considero fondamentale per la mia formazione artistica, ma
anche umana, è sicuramente Fabrizio De Andrè. Ma oltre a quel faro, la mia
strada è sempre stata illuminata da molti riferimenti, come Guccini e De
Gregori per parlare di canzone d’autore italiana, ma anche Dylan e Cohen. Trovo
stupendi Tom Waits, Nick Cave, Lou Reed, Springsteen.
Sei arrivato al tuo
terzo lavoro discografico: quanto è cambiata la tua Musica, e quanto sei
cambiato tu, da “Abacrasta e dintorni”, tuo primo disco, a “Girotondo”, uscito
da poco?
Sono
fondamentalmente cresciuto e non solo anagraficamente. Per esempio ho
cominciato a provare gusto per le esibizioni live, anche se sono abbastanza
esigente in termini di spazi idonei alla canzone d’autore, quindi pretendo di
suonare solo in luoghi predisposti all’ascolto. Poi, esibendomi dal vivo, ho
avuto la necessità di trovare dei musicisti in qualche modo affini al mio gusto
artistico e in un certo senso stabili. Il fatto di averli trovati mi ha dato
maggiore sicurezza e ogni sessione di prova e ogni concerto sento di crescere
un pochino, insieme a loro. Fino a “Storie
in forma di canzone” ritengo di essere rimasto fermo, poi, con i primi live
e il progetto “Girotondo” mi sono
visto crescere artisticamente, ma nel frattempo ho oltrepassato i quarant’anni.
Parliamo di
“Girotondo”: qual è l’anima dell’album?
Più che
di anima, credo si debba parlare di anime. “Girotondo”
è un lavoro corale, sia in termini concettuali che musicali. Corale è stato
anche il tipo di lavoro, dalla produzione esecutiva al gruppo che ha curato
tutti gli aspetti del disco, dalla grafica al suono. Per la prima volta ho
scritto alcuni testi a quattro mani e per la prima volta ho affidato alcuni
arrangiamenti a dei musicisti professionisti, dando loro carta bianca, o quasi.
Se però vogliamo parlare dell’anima vera e propria del disco, bisogna srotolare
il filo narrativo delle canzoni e addentrarsi nel racconto che “Girotondo”
vuole fare all’ascoltatore. E quel racconto si scopre essere una raccolta di
storie che, da differenti punti di vista, parlano di emarginazione, ma anche di
indifferenza, solitudine e in alcuni casi di libertà. Lo fanno dando voce a
degli individui che per varie ragioni sono relegati ai margini della società,
ma anche descrivendo situazioni di gruppi di individui sopraffatti dal potere,
depredati della loro dignità e identità, semplicemente perché considerati
diversi e scomodi. Delle volte affermare sé stessi in quanto individui e in
quanto comunità, viene percepito come un pericolo da parte di chi quella
società vorrebbe governarla. “Girotondo”
prova a dipingere alcuni ritratti e scenari di emarginazione, mettendo in
evidenza contrapposizioni e disagi sociali, con immagini che spaziano fra il
crudo realismo e la dimensione immaginifica. Ma “Girotondo” parla anche di indifferenza e in questo caso è la
canzone “Il Gallo canta”, la chiave
di volta del concept, a puntare il dito su chi vorrebbe auto-assolversi per il
solo fatto di non partecipare direttamente e attivamente al dramma altrui. Inizialmente,
lavorando al disco pensavo di far emergere una sorta di premio per chi subisce
l’emarginazione: la libertà, cardine dell'agire umano. Poi, sono arrivato alla
conclusione che quel premio sarebbe solo un’illusione, in quanto se pure ci fosse
un’acquisita libertà, questa si ridurrebbe al massimo alle scelte del proprio
sfruttatore. Libertà, eguaglianza e solidarietà devono necessariamente
realizzarsi assieme e agire contemporaneamente, ma questo va ben oltre il
discorso “Girotondo”, è un chiodo
fisso del mio pensiero e se ne discute da quasi duecento anni.
Qual è il comune
denominatore che unisce le undici tracce dell’album?
Il comune
denominatore, il filo che lega queste canzoni è sicuramente l’emarginazione,
vista da differenti punti di vista e osservata sia dal suo interno che dall’ambiente
ad essa esterno. Ho anche provato a evidenziare questo filo rosso, mettendolo
su pentagramma e proprio con questa finalità nasce la frase musicale che si
ripresenta nella chiusa di diverse canzoni, sempre eseguita con qualche
variazione sul tema e da strumenti differenti. Frase che infine diventa la
melodia principale del brano di chiusura del disco, “Il Gallo canta”.
In che modo Don Andrea
Gallo ha potuto influenzare la tua opera?
L’incontro
con Don Gallo è stato molto importante, ma ritengo che non mi abbia cambiato né
influenzato: la mia sensibilità di uomo è sempre stata questa, ho sempre
parteggiato per i più deboli e i diseredati e sempre criticato la logica del
dominio. Anche per questo e non solo per affinità artistica, sono stato
ingaggiato a salire sul palco con lui. Piuttosto, Don Gallo ha rafforzato la
mia autostima e mi ha incoraggiato a lottare per realizzare i miei sogni,
camminando a testa alta e senza paura di rilevarmi agli altri per quello che
sono.
Quale credi possa
essere il ruolo del cantautore nel 2014? E’ possibile incidere e promuovere il
cambiamento attraverso il messaggio musicale?
Credo che
con la musica non si possa cambiare niente di questa società, tutt’al più si possono
creare le colonne sonore da associare ad alcuni momenti storici, che poi
variano a seconda di chi li vive. Il ruolo del cantautore dovrebbe sempre
essere quello di scrivere canzoni che parlino alla gente, che raccontino fatti
e storie, non solo personali ma anche di più ampio respiro, dove un ascoltatore
possa fermarsi e pensare, perdersi o ritrovarsi. Non devono né possono
insegnare niente a nessuno, tanto meno raccontare verità assolute
preconfezionate, che per altro non esistono, ma far pensare sì, questo dovrebbe
essere il compito della canzone d’autore nel terzo millennio, esattamente lo
stesso da quando si è cominciato ad etichettare la musica con i diversi generi
che la caratterizzano. La canzone d’autore, come ogni cosa si evolve e in
questo senso insegue il gusto comune del pubblico, ma dal mio punto di vista
non bisognerebbe considerarlo un obiettivo da centrare, stesso ragionamento
vale per l’innovazione e l’originalità a tutti i costi, che spesso spostano
l’attenzione dai testi, fondamentali per il genere, alla confezione mediatica.
Cosa accade negli
spettacoli live di Nicola Pisu?
Attualmente
ho trovato un buon equilibrio con una formazione che vede altre tre persone sul
palco con me, persone che sono molto più che semplici musicisti e con cui
divido ampi pezzi della mia vita: un percussionista-rumorista, con me da “Storie in forma di canzone”, un
bassista-chitarrista che mi accompagna dalla gioventù e una voce narrante che poi
è la mia compagna nella vita. Nei concerti si cerca un contatto quasi intimo
col pubblico, per questo prediligo i piccoli teatri, gli house concert, dove
per un’ora o poco più sono le canzoni a raccontarsi ad un pubblico che sta lì
appositamente per ascoltare. Così prendono vita i personaggi che a volte sono sequestrati
dalla letteratura, altre volte sono creature leggendarie della tradizione
popolare sarda, altre ancora sono i fantasmi che capita di incontrare nei
marciapiedi delle città.
Di cosa abbiamo maggiormente
bisogno in questi giorni così difficili… fede o coraggio?
Mi fai
una domanda difficilissima alla quale non credo di saper rispondere. Sono
sicuramente allievo di una scuola che non prevede fedi né dogmi; certo che
occorre coraggio per non perdersi d’animo, ma soprattutto ritengo che si debba
sempre considerare che la forma di società nella quale viviamo non è l’unica
possibile. È solo una delle più collaudate, ma non l’unica. In questo senso,
anche se mi rendo conto di uscire fuori tema, è stato per esempio grazie al mio
lavoro dentro Emergency che ho capito che la guerra non è l’unica opzione
adottabile per risolvere le controversie internazionali, anzi, è l’unico
strumento che le alimenta lasciando al suo passaggio solo morte e distruzione.
Ciò che voglio dire è che non dovremmo fermarci al “ciò che si è sempre fatto”.
Serve coraggio anche per sperimentare strade diverse e di questo c’è tanto
bisogno.
Quale potrebbe essere
il futuro prossimo musicale di Nicola Pisu?
Mi
piacerebbe risponderti che sto lavorando a un nuovo disco e mettendo a punto un
tour nazionale, ma così non è. Vivo quasi alla giornata, scrivendo nuove
canzoni con una certa costanza, programmando qualche concerto quando si
presenta l’occasione, cercando spazi e occasioni, come questa intervista, per
raccontare la mia musica e provare a dire agli esperti della canzone d’autore
che ci sono anche io. Per un cantautore indipendente è difficilissimo farsi
pubblicità, perché se pure egli avesse qualche capacità per scrivere delle
buone canzoni, non è detto che sia altrettanto abile nel fare l’ufficio stampa
di sé stesso.